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LA DIVINA COMMEDIA
di Dante Alighieri
INFERNO
Inferno · Canto I
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben chi vi trovai,
dirò de laltre cose chi vho scorte.
Io non so ben ridir com i vintrai,
tant era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi chi fui al piè dun colle giunto,
là dove terminava quella valle
che mavea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor mera durata
la notte chi passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a lacqua perigliosa e guata,
così lanimo mio, chancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Poi chèi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che l piè fermo sempre era l più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de lerta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi mpediva tanto il mio cammino,
chi fui per ritornar più volte vòlto.
Temp era dal principio del mattino,
e l sol montava n sù con quelle stelle
cheran con lui quando lamor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì cha bene sperar mera cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
lora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che mapparve dun leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che laere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura chuscia di sua vista,
chio perdei la speranza de laltezza.
E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne l tempo che perder lo face,
che n tutti suoi pensier piange e sattrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove l sol tace.
Mentre chi rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol dAnchise che venne di Troia,
poi che l superbo Ilïón fu combusto.
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
chè principio e cagion di tutta gioia?».
«Or se tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos io lui con vergognosa fronte.
«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami l lungo studio e l grande amore
che mha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se lo mio maestro e l mio autore,
tu se solo colui da cu io tolsi
lo bello stilo che mha fatto onore.
Vedi la bestia per cu io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
chella mi fa tremar le vene e i polsi».
«A te convien tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo campar desto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo mpedisce che luccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui sammoglia,
e più saranno ancora, infin che l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogne villa,
fin che lavrà rimessa ne lo nferno,
là onde nvidia prima dipartilla.
Ond io per lo tuo me penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
cha la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna,
perch i fu ribellante a la sua legge,
non vuol che n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e lalto seggio:
oh felice colui cu ivi elegge!».
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò chio fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov or dicesti,
sì chio veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
Inferno · Canto II
Lo giorno se nandava, e laere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
mapparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or maiutate;
o mente che scrivesti ciò chio vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù sell è possente,
prima cha lalto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se lavversario dogne male
cortese i fu, pensando lalto effetto
chuscir dovea di lui, e l chi e l quale
non pare indegno ad omo dintelletto;
che fu de lalma Roma e di suo impero
ne lempireo ciel per padre eletto:
la quale e l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u siede il successor del maggior Piero.
Per quest andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas delezïone,
per recarne conforto a quella fede
chè principio a la via di salvazione.
Ma io, perché venirvi? o chi l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri l crede.
Per che, se del venire io mabbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se savio; intendi me chi non ragiono».
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec ïo n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.
«Si ho ben la parola tua intesa»,
rispuose del magnanimo quell ombra,
«lanima tua è da viltade offesa;
la qual molte fïate lomo ingombra
sì che donrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand ombra.
Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch io venni e quel chio ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
“O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto l mondo lontana,
lamico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
chio mi sia tardi al soccorso levata,
per quel chi ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò cha mestieri al suo campare,
laiuta sì chi ne sia consolata.
I son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui”.
Tacette allora, e poi comincia io:
“O donna di virtù sola per cui
lumana spezie eccede ogne contento
di quel ciel cha minor li cerchi sui,
tanto maggrada il tuo comandamento,
che lubidir, se già fosse, mè tardi;
più non tè uo chaprirmi il tuo talento.
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de lampio loco ove tornar tu ardi”.
“Da che tu vuo saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente”, mi rispuose,
“perch i non temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole quelle cose
channo potenza di fare altrui male;
de laltre no, ché non son paurose.
I son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma desto ncendio non massale.
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo mpedimento ov io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse:—Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando—.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov i era,
che mi sedea con lantica Rachele.
Disse:—Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che tamò tanto,
chuscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che l combatte
su la fiumana ove l mar non ha vanto?—.
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
chonora te e quei chudito lhanno”.
Poscia che mebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir più presto.
E venni a te così com ella volse:
dinanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse.
Dunque: che è? perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e l mio parlar tanto ben ti promette?».
Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che l sol li mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
chi cominciai come persona franca:
«Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese chubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!
Tu mhai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
chi son tornato nel primo proposto.
Or va, chun sol volere è dambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro».
Così li dissi; e poi che mosso fue,
intrai per lo cammino alto e silvestro.
Inferno · Canto III
Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne letterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi chintrate.
Queste parole di colore oscuro
vid ïo scritte al sommo duna porta;
per chio: «Maestro, il senso lor mè duro».
Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov i tho detto
che tu vedrai le genti dolorose
channo perduto il ben de lintelletto».
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per laere sanza stelle,
per chio al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti dira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual saggira
sempre in quell aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
E io chavea derror la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel chi odo?
e che gent è che par nel duol sì vinta?».
Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon lanime triste di coloro
che visser sanza nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
chalcuna gloria i rei avrebber delli».
E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che nvidïosi son dogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
E io, che riguardai, vidi una nsegna
che girando correva tanto ratta,
che dogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, chi non averei creduto
che morte tanta navesse disfatta.
Poscia chio vebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi lombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta di cattivi,
a Dio spiacenti e a nemici sui.
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe cheran ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
E poi cha riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva dun gran fiume;
per chio dissi: «Maestro, or mi concedi
chi sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com i discerno per lo fioco lume».
Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera dAcheronte».
Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i vegno per menarvi a laltra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e n gelo.
E tu che se costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide chio non mi partiva,
disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».
E l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
Ma quell anime, cheran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che nteser le parole crude.
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
lumana spezie e l loco e l tempo e l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
chattende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque sadagia.
Come dautunno si levan le foglie
luna appresso de laltra, fin che l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme dAdamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Così sen vanno su per londa bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera sauna.
«Figliuol mio», disse l maestro cortese,
«quelli che muoion ne lira di Dio
tutti convegnon qui dogne paese;
e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio.
Quinci non passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che l suo dir suona».
Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come luom cui sonno piglia.
Inferno · Canto IV
Ruppemi lalto sonno ne la testa
un greve truono, sì chio mi riscossi
come persona chè per forza desta;
e locchio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov io fossi.
Vero è che n su la proda mi trovai
de la valle dabisso dolorosa
che ntrono accoglie dinfiniti guai.
Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna cosa.
«Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,
cominciò il poeta tutto smorto.
«Io sarò primo, e tu sarai secondo».
E io, che del color mi fui accorto,
dissi: «Come verrò, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto?».
Ed elli a me: «Langoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema senti.
Andiam, ché la via lunga ne sospigne».
Così si mise e così mi fé intrare
nel primo cerchio che labisso cigne.
Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che laura etterna facevan tremare;
ciò avvenia di duol sanza martìri,
chavean le turbe, cheran molte e grandi,
dinfanti e di femmine e di viri.
Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo che sappi, innanzi che più andi,
chei non peccaro; e selli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
chè porta de la fede che tu credi;
e se furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio».
Gran duol mi prese al cor quando lo ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che n quel limbo eran sospesi.
«Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,
comincia io per voler esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
«uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?».
E quei che ntese il mio parlar coverto,
rispuose: «Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.
Trasseci lombra del primo parente,
dAbèl suo figlio e quella di Noè,
di Moïsè legista e ubidente;
Abraàm patrïarca e Davìd re,
Israèl con lo padre e co suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fé,
e altri molti, e feceli beati.
E vo che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati».
Non lasciavam landar perch ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.
Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand io vidi un foco
chemisperio di tenebre vincia.
Di lungi neravamo ancora un poco,
ma non sì chio non discernessi in parte
chorrevol gente possedea quel loco.
«O tu chonori scïenzïa e arte,
questi chi son channo cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?».
E quelli a me: «Lonrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazïa acquista in ciel che sì li avanza».
Intanto voce fu per me udita:
«Onorate laltissimo poeta;
lombra sua torna, chera dipartita».
Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand ombre a noi venire:
sembianz avevan né trista né lieta.
Lo buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
laltro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è l terzo, e lultimo Lucano.
Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene».
Così vid i adunar la bella scola
di quel segnor de laltissimo canto
che sovra li altri com aquila vola.
Da chebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e l mio maestro sorrise di tanto;
e più donore ancora assai mi fenno,
che sì mi fecer de la loro schiera,
sì chio fui sesto tra cotanto senno.
Così andammo infino a la lumera,
parlando cose che l tacere è bello,
sì com era l parlar colà dov era.
Venimmo al piè dun nobile castello,
sette volte cerchiato dalte mura,
difeso intorno dun bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.
Genti veran con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.
Traemmoci così da lun de canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
sì che veder si potien tutti quanti.
Colà diritto, sovra l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso messalto.
I vidi Eletra con molti compagni,
tra quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da laltra parte vidi l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
e solo, in parte, vidi l Saladino.
Poi chinnalzai un poco più le ciglia,
vidi l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid ïo Socrate e Platone,
che nnanzi a li altri più presso li stanno;
Democrito che l mondo a caso pone,
Dïogenès, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono accoglitor del quale,
Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulïo e Lino e Seneca morale;
Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
Averoìs, che l gran comento feo.
Io non posso ritrar di tutti a pieno,
però che sì mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.
La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne laura che trema.
E vegno in parte ove non è che luca.
Inferno · Canto V
Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne lintrata;
giudica e manda secondo chavvinghia.
Dico che quando lanima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco dinferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte.
«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando latto di cotanto offizio,
«guarda com entri e di cui tu ti fide;
non tinganni lampiezza de lintrare!».
E l duca mio a lui: «Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco dogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi cha così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan lali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per chi dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che laura nera sì gastiga?».
«La prima di color di cui novelle
tu vuo saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che l Soldan corregge.
Laltra è colei che sancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussurïosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
chamor di nostra vita dipartille.
Poscia chio ebbi l mio dottore udito
nomar le donne antiche e cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri».
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, saltri nol niega!».
Quali colombe dal disio chiamate
con lali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per laere, dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov è Dido,
a noi venendo per laere maligno,
sì forte fu laffettüoso grido.
«O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per laere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de luniverso,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi chai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove l Po discende
per aver pace co seguaci sui.
Amor, chal cor gentil ratto sapprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e l modo ancor moffende.
Amor, cha nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non mabbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand io intesi quell anime offense,
china il viso, e tanto il tenni basso,
fin che l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo di dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa l tuo dottore.
Ma sa conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che luno spirto questo disse,
laltro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
Inferno · Canto VI
Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà di due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,
novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come chio mi mova
e chio mi volga, e come che io guati.
Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non lè nova.
Grandine grossa, acqua tinta e neve
per laere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.
Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.
Urlar li fa la pioggia come cani;
de lun de lati fanno a laltro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.
E l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.
Qual è quel cane chabbaiando agogna,
e si racqueta poi che l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna,
cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ntrona
lanime sì, chesser vorrebber sorde.
Noi passavam su per lombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.
Elle giacean per terra tutte quante,
fuor duna cha seder si levò, ratto
chella ci vide passarsi davante.
«O tu che se per questo nferno tratto»,
mi disse, «riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima chio disfatto, fatto».
E io a lui: «Langoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par chi ti vedessi mai.
Ma dimmi chi tu se che n sì dolente
loco se messo, e hai sì fatta pena,
che, saltra è maggio, nulla è sì spiacente».
Ed elli a me: «La tua città, chè piena
dinvidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa». E più non fé parola.
Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, cha lagrimar mi nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin de la città partita;
salcun vè giusto; e dimmi la cagione
per che lha tanta discordia assalita».
E quelli a me: «Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà laltra con molta offensione.
Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che laltra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.
Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo laltra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che naonti.
Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville channo i cuori accesi».
Qui puose fine al lagrimabil suono.
E io a lui: «Ancor vo che mi nsegni
e che di più parlar mi facci dono.
Farinata e l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e l Mosca
e li altri cha ben far puoser li ngegni,
dimmi ove sono e fa chio li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se l ciel li addolcia o lo nferno li attosca».
E quelli: «Ei son tra lanime più nere;
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere.
Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti cha la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo».
Li diritti occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco e poi chinò la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi.
E l duca disse a me: «Più non si desta
di qua dal suon de langelica tromba,
quando verrà la nimica podesta:
ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel chin etterno rimbomba».
Sì trapassammo per sozza mistura
de lombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;
per chio dissi: «Maestro, esti tormenti
crescerann ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?».
Ed elli a me: «Ritorna a tua scïenza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza.
Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta».
Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai chi non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:
quivi trovammo Pluto, il gran nemico.
Inferno · Canto VII
«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,
disse per confortarmi: «Non ti noccia
la tua paura; ché, poder chelli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia».
Poi si rivolse a quella nfiata labbia,
e disse: «Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia.
Non è sanza cagion landare al cupo:
vuolsi ne lalto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo».
Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che lalber fiacca,
tal cadde a terra la fiera crudele.
Così scendemmo ne la quarta lacca,
pigliando più de la dolente ripa
che l mal de luniverso tutto insacca.
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant io viddi?
e perché nostra colpa sì ne scipa?
Come fa londa là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui sintoppa,
così convien che qui la gente riddi.
Qui vid i gente più chaltrove troppa,
e duna parte e daltra, con grand urli,
voltando pesi per forza di poppa.
Percotëansi ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».
Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a lopposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;
poi si volgea ciascun, quand era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a laltra giostra.
E io, chavea lo cor quasi compunto,
dissi: «Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra».
Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.
Assai la voce lor chiaro labbaia,
quando vegnono a due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.
Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio».
E io: «Maestro, tra questi cotali
dovre io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali».
Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa bruni.
In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
di ben che son commessi a la fortuna,
per che lumana gente si rabbuffa;
ché tutto loro chè sotto la luna
e che già fu, di quest anime stanche
non poterebbe farne posare una».
«Maestro mio», diss io, «or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».
E quelli a me: «Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che voffende!
Or vo che tu mia sentenza ne mbocche.
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, chogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e duno in altro sangue,
oltre la difension di senni umani;
per chuna gente impera e laltra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba langue.
Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.
Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.
Quest è colei chè tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;
ma ella sè beata e ciò non ode:
con laltre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.
Or discendiamo omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva
quand io mi mossi, e l troppo star si vieta».
Noi ricidemmo il cerchio a laltra riva
sovr una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.
Lacqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de londe bige,
intrammo giù per una via diversa.
In la palude va cha nome Stige
questo tristo ruscel, quand è disceso
al piè de le maligne piagge grige.
E io, che di mirare stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.
Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co denti a brano a brano.
Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi
lanime di color cui vinse lira;
e anche vo che tu per certo credi
che sotto lacqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest acqua al summo,
come locchio ti dice, u che saggira.
Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo
ne laere dolce che dal sol sallegra,
portando dentro accidïoso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra”.
Quest inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra».
Così girammo de la lorda pozza
grand arco tra la ripa secca e l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Venimmo al piè duna torre al da sezzo.
Inferno · Canto VIII
Io dico, seguitando, chassai prima
che noi fossimo al piè de lalta torre,
li occhi nostri nandar suso a la cima
per due fiammette che i vedemmo porre,
e unaltra da lungi render cenno,
tanto cha pena il potea locchio tòrre.
E io mi volsi al mar di tutto l senno;
dissi: «Questo che dice? e che risponde
quell altro foco? e chi son quei che l fenno?».
Ed elli a me: «Su per le sucide onde
già scorgere puoi quello che saspetta,
se l fummo del pantan nol ti nasconde».
Corda non pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per laere snella,
com io vidi una nave piccioletta
venir per lacqua verso noi in quella,
sotto l governo dun sol galeoto,
che gridava: «Or se giunta, anima fella!».
«Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto»,
disse lo mio segnore, «a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto».
Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegïàs ne lira accolta.
Lo duca mio discese ne la barca,
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand io fui dentro parve carca.
Tosto che l duca e io nel legno fui,
segando se ne va lantica prora
de lacqua più che non suol con altrui.
Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se tu che vieni anzi ora?».
E io a lui: «Si vegno, non rimango;
ma tu chi se, che sì se fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango».
E io a lui: «Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
chi ti conosco, ancor sie lordo tutto».
Allor distese al legno ambo le mani;
per che l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: «Via costà con li altri cani!».
Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi l volto e disse: «Alma sdegnosa,
benedetta colei che n te sincinse!
Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così sè lombra sua qui furïosa.
Quanti si tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!».
E io: «Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago».
Ed elli a me: «Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disïo convien che tu goda».
Dopo ciò poco vid io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»;
e l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co denti.
Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
ma ne lorecchie mi percosse un duolo,
per chio avante locchio intento sbarro.
Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,
sappressa la città cha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo».
E io: «Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite
fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno
chentro laffoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno».
Noi pur giugnemmo dentro a lalte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.
Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
«Usciteci», gridò: «qui è lintrata».
Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?».
E l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha iscorta sì buia contrada».
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.
«O caro duca mio, che più di sette
volte mhai sicurtà renduta e tratto
dalto periglio che ncontra mi stette,
non mi lasciar», diss io, «così disfatto;
e se l passar più oltre ci è negato,
ritroviam lorme nostre insieme ratto».
E quel segnor che lì mavea menato,
mi disse: «Non temer; ché l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal nè dato.
Ma qui mattendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
chi non ti lascerò nel mondo basso».
Così sen va, e quivi mabbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona.
Udir non potti quello cha lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
dogne baldanza, e dicea ne sospiri:
«Chi mha negate le dolenti case!».
E a me disse: «Tu, perch io madiri,
non sbigottir, chio vincerò la prova,
qual cha la difension dentro saggiri.
Questa lor tracotanza non è nova;
ché già lusaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende lerta,
passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta».
Inferno · Canto IX
Quel color che viltà di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo novo ristrinse.
Attento si fermò com uom chascolta;
ché locchio nol potea menare a lunga
per laere nero e per la nebbia folta.
«Pur a noi converrà vincer la punga»,
cominciò el, «se non . . . Tal ne sofferse.
Oh quanto tarda a me chaltri qui giunga!».
I vidi ben sì com ei ricoperse
lo cominciar con laltro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;
ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.
«In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?».
Questa question fec io; e quei «Di rado
incontra», mi rispuose, «che di noi
faccia il cammino alcun per qual io vado.
Ver è chaltra fïata qua giù fui,
congiurato da quella Eritón cruda
che richiamava lombre a corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda,
chella mi fece intrar dentr a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
Quell è l più basso loco e l più oscuro,
e l più lontan dal ciel che tutto gira:
ben so l cammin; però ti fa sicuro.
Questa palude che l gran puzzo spira
cigne dintorno la città dolente,
u non potemo intrare omai sanz ira».
E altro disse, ma non lho a mente;
però che locchio mavea tutto tratto
ver lalta torre a la cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furïe infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de letterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.
Quest è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.
Con lunghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan sì alto,
chi mi strinsi al poeta per sospetto.
«Vegna Medusa: sì l farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Tesëo lassalto».
«Volgiti n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se l Gorgón si mostra e tu l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso».
Così disse l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.
O voi chavete li ntelletti sani,
mirate la dottrina che sasconde
sotto l velame de li versi strani.
E già venìa su per le torbide onde
un fracasso dun suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,
non altrimenti fatto che dun vento
impetüoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo».
Come le rane innanzi a la nimica
biscia per lacqua si dileguan tutte,
fin cha la terra ciascuna sabbica,
vid io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un chal passo
passava Stige con le piante asciutte.
Dal volto rimovea quell aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell angoscia parea lasso.
Ben maccorsi chelli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
chi stessi queto ed inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
laperse, che non vebbe alcun ritegno.
«O cacciati del ciel, gente dispetta»,
cominciò elli in su lorribil soglia,
«ond esta oltracotanza in voi salletta?
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte vha cresciuta doglia?
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e l gozzo».
Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
domo cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver la terra,
sicuri appresso le parole sante.
Dentro li ntrammo sanz alcuna guerra;
e io, chavea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,
com io fui dentro, locchio intorno invio:
e veggio ad ogne man grande campagna,
piena di duolo e di tormento rio.
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com a Pola, presso del Carnaro
chItalia chiude e suoi termini bagna,
fanno i sepulcri tutt il loco varo,
così facevan quivi dogne parte,
salvo che l modo vera più amaro;
ché tra li avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun arte.
Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor nuscivan sì duri lamenti,
che ben parean di miseri e doffesi.
E io: «Maestro, quai son quelle genti
che, seppellite dentro da quell arche,
si fan sentir coi sospiri dolenti?».
E quelli a me: «Qui son li eresïarche
con lor seguaci, dogne setta, e molto
più che non credi son le tombe carche.
Simile qui con simile è sepolto,
e i monimenti son più e men caldi».
E poi cha la man destra si fu vòlto,
passammo tra i martìri e li alti spaldi.
Inferno · Canto X
Ora sen va per un secreto calle,
tra l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.
«O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi», cominciai, «com a te piace,
parlami, e sodisfammi a miei disiri.
La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt i coperchi, e nessun guardia face».
E quelli a me: «Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati.
Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che lanima col corpo morta fanno.
Però a la dimanda che mi faci
quinc entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci».
E io: «Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu mhai non pur mo a ciò disposto».
«O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto».
Subitamente questo suono uscìo
duna de larche; però maccostai,
temendo, un poco più al duca mio.
Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che sè dritto:
da la cintola in sù tutto l vedrai».
Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el sergea col petto e con la fronte
com avesse linferno a gran dispitto.
E lanimose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte».
Com io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».
Io chera dubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel apersi;
ond ei levò le ciglia un poco in suso;
poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi».
«Sei fur cacciati, ei tornar dogne parte»,
rispuos io lui, «luna e laltra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell arte».
Allor surse a la vista scoperchiata
unombra, lungo questa, infino al mento:
credo che sera in ginocchie levata.
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder saltri era meco;
e poi che l sospecciar fu tutto spento,
piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza dingegno,
mio figlio ov è? e perché non è teco?».
E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui chattende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».
Le sue parole e l modo de la pena
mavean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.
Di sùbito drizzato gridò: «Come?
dicesti “elli ebbe”? non viv elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».
Quando saccorse dalcuna dimora
chio facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
Ma quell altro magnanimo, a cui posta
restato mera, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa;
e sé continüando al primo detto,
«Selli han quell arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell arte pesa.
E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr a miei in ciascuna sua legge?».
Ond io a lui: «Lo strazio e l grande scempio
che fece lArbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio».
Poi chebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò non fu io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
Ma fu io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto».
«Deh, se riposi mai vostra semenza»,
prega io lui, «solvetemi quel nodo
che qui ha nviluppata mia sentenza.
El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo».
«Noi veggiam, come quei cha mala luce,
le cose», disse, «che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando sappressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e saltri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta».
Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che l suo nato è co vivi ancor congiunto;
e si fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che l fei perché pensava
già ne lerror che mavete soluto».
E già l maestro mio mi richiamava;
per chi pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu istava.
Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è l secondo Federico
e l Cardinale; e de li altri mi taccio».
Indi sascose; e io inver lantico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.
Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: «Perché se tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando.
«La mente tua conservi quel chudito
hai contra te», mi comandò quel saggio;
«e ora attendi qui», e drizzò l dito:
«quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il vïaggio».
Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver lo mezzo
per un sentier cha una valle fiede,
che nfin là sù facea spiacer suo lezzo.
Inferno · Canto XI
In su lestremità dunalta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio,
venimmo sopra più crudele stipa;
e quivi, per lorribile soperchio
del puzzo che l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio
dun grand avello, ov io vidi una scritta
che dicea: Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la via dritta.
«Lo nostro scender conviene esser tardo,
sì che sausi un poco in prima il senso
al tristo fiato; e poi no i fia riguardo».
Così l maestro; e io «Alcun compenso»,
dissi lui, «trova che l tempo non passi
perduto». Ed elli: «Vedi cha ciò penso».
«Figliuol mio, dentro da cotesti sassi»,
cominciò poi a dir, «son tre cerchietti
di grado in grado, come que che lassi.
Tutti son pien di spirti maladetti;
ma perché poi ti basti pur la vista,
intendi come e perché son costretti.
Dogne malizia, chodio in cielo acquista,
ingiuria è l fine, ed ogne fin cotale
o con forza o con frode altrui contrista.
Ma perché frode è de luom proprio male,
più spiace a Dio; e però stan di sotto
li frodolenti, e più dolor li assale.
Di vïolenti il primo cerchio è tutto;
ma perché si fa forza a tre persone,
in tre gironi è distinto e costrutto.
A Dio, a sé, al prossimo si pòne
far forza, dico in loro e in lor cose,
come udirai con aperta ragione.
Morte per forza e ferute dogliose
nel prossimo si danno, e nel suo avere
ruine, incendi e tollette dannose;
onde omicide e ciascun che mal fiere,
guastatori e predon, tutti tormenta
lo giron primo per diverse schiere.
Puote omo avere in sé man vïolenta
e ne suoi beni; e però nel secondo
giron convien che sanza pro si penta
qualunque priva sé del vostro mondo,
biscazza e fonde la sua facultade,
e piange là dov esser de giocondo.
Puossi far forza ne la deïtade,
col cor negando e bestemmiando quella,
e spregiando natura e sua bontade;
e però lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.
La frode, ond ogne coscïenza è morsa,
può lomo usare in colui che n lui fida
e in quel che fidanza non imborsa.
Questo modo di retro par chincida
pur lo vinco damor che fa natura;
onde nel cerchio secondo sannida
ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.
Per laltro modo quell amor soblia
che fa natura, e quel chè poi aggiunto,
di che la fede spezïal si cria;
onde nel cerchio minore, ov è l punto
de luniverso in su che Dite siede,
qualunque trade in etterno è consunto».
E io: «Maestro, assai chiara procede
la tua ragione, e assai ben distingue
questo baràtro e l popol che possiede.
Ma dimmi: quei de la palude pingue,
che mena il vento, e che batte la pioggia,
e che sincontran con sì aspre lingue,
perché non dentro da la città roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
e se non li ha, perché sono a tal foggia?».
Ed elli a me «Perché tanto delira»,
disse, «lo ngegno tuo da quel che sòle?
o ver la mente dove altrove mira?
Non ti rimembra di quelle parole
con le quai la tua Etica pertratta
le tre disposizion che l ciel non vole,
incontenenza, malizia e la matta
bestialitade? e come incontenenza
men Dio offende e men biasimo accatta?
Se tu riguardi ben questa sentenza,
e rechiti a la mente chi son quelli
che sù di fuor sostegnon penitenza,
tu vedrai ben perché da questi felli
sien dipartiti, e perché men crucciata
la divina vendetta li martelli».
«O sol che sani ogne vista turbata,
tu mi contenti sì quando tu solvi,
che, non men che saver, dubbiar maggrata.
Ancora in dietro un poco ti rivolvi»,
diss io, «là dove di chusura offende
la divina bontade, e l groppo solvi».
«Filosofia», mi disse, «a chi la ntende,
nota, non pure in una sola parte,
come natura lo suo corso prende
dal divino ntelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,
che larte vostra quella, quanto pote,
segue, come l maestro fa l discente;
sì che vostr arte a Dio quasi è nepote.
Da queste due, se tu ti rechi a mente
lo Genesì dal principio, convene
prender sua vita e avanzar la gente;
e perché lusuriere altra via tene,
per sé natura e per la sua seguace
dispregia, poi chin altro pon la spene.
Ma seguimi oramai che l gir mi piace;
ché i Pesci guizzan su per lorizzonta,
e l Carro tutto sovra l Coro giace,
e l balzo via là oltra si dismonta».
Inferno · Canto XII
Era lo loco ov a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che ver anco,
tal, chogne vista ne sarebbe schiva.
Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento lAdice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
chalcuna via darebbe a chi sù fosse:
cotal di quel burrato era la scesa;
e n su la punta de la rotta lacca
linfamïa di Creti era distesa
che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui lira dentro fiacca.
Lo savio mio inver lui gridò: «Forse
tu credi che qui sia l duca dAtene,
che sù nel mondo la morte ti porse?
Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene».
Qual è quel toro che si slaccia in quella
cha ricevuto già l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella,
vid io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: «Corri al varco;
mentre che nfuria, è buon che tu ti cale».
Così prendemmo via giù per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.
Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi
forse a questa ruina, chè guardata
da quell ira bestial chi ora spensi.
Or vo che sappi che laltra fïata
chi discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.
Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno,
da tutte parti lalta valle feda
tremò sì, chi pensai che luniverso
sentisse amor, per lo qual è chi creda
più volte il mondo in caòsso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia,
qui e altrove, tal fece riverso.
Ma ficca li occhi a valle, ché sapproccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per vïolenza in altrui noccia».
Oh cieca cupidigia e ira folle,
che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne letterna poi sì mal cimmolle!
Io vidi unampia fossa in arco torta,
come quella che tutto l piano abbraccia,
secondo chavea detto la mia scorta;
e tra l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia.
Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;
e lun gridò da lungi: «A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, larco tiro».
Lo mio maestro disse: «La risposta
farem noi a Chirón costà di presso:
mal fu la voglia tua sempre sì tosta».
Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso,
che morì per la bella Deianira,
e fé di sé la vendetta elli stesso.
E quel di mezzo, chal petto si mira,
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;
quell altro è Folo, che fu sì pien dira.
Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue più che sua colpa sortille».
Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
Chirón prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle.
Quando sebbe scoperta la gran bocca,
disse a compagni: «Siete voi accorti
che quel di retro move ciò chel tocca?
Così non soglion far li piè di morti».
E l mio buon duca, che già li er al petto,
dove le due nature son consorti,
rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
necessità l ci nduce, e non diletto.
Tal si partì da cantare alleluia
che mi commise quest officio novo:
non è ladron, né io anima fuia.
Ma per quella virtù per cu io movo
li passi miei per sì selvaggia strada,
danne un de tuoi, a cui noi siamo a provo,
e che ne mostri là dove si guada,
e che porti costui in su la groppa,
ché non è spirto che per laere vada».
Chirón si volse in su la destra poppa,
e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,
e fa cansar saltra schiera vintoppa».
Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e l gran centauro disse: «E son tiranni
che dier nel sangue e ne laver di piglio.
Quivi si piangon li spietati danni;
quivi è Alessandro, e Dïonisio fero
che fé Cicilia aver dolorosi anni.
E quella fronte cha l pel così nero,
è Azzolino; e quell altro chè biondo,
è Opizzo da Esti, il qual per vero
fu spento dal figliastro sù nel mondo».
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
«Questi ti sia or primo, e io secondo».
Poco più oltre il centauro saffisse
sovr una gente che nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.
Mostrocci unombra da lun canto sola,
dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che n su Tamisi ancor si cola».
Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto l casso;
e di costoro assai riconobb io.
Così a più a più si facea basso
quel sangue, sì che cocea pur li piedi;
e quindi fu del fosso il nostro passo.
«Sì come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema»,
disse l centauro, «voglio che tu credi
che da quest altra a più a più giù prema
lo fondo suo, infin chel si raggiunge
ove la tirannia convien che gema.
La divina giustizia di qua punge
quell Attila che fu flagello in terra,
e Pirro e Sesto; e in etterno munge
le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra».
Poi si rivolse e ripassossi l guazzo.
Inferno · Canto XIII
Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e nvolti;
non pomi veran, ma stecchi con tòsco.
Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.
E l buon maestro «Prima che più entre,
sappi che se nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre
che tu verrai ne lorribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».
Io sentia dogne parte trarre guai
e non vedea persona che l facesse;
per chio tutto smarrito marrestai.
Cred ïo chei credette chio credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse.
Però disse l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta duna deste piante,
li pensier chai si faran tutti monchi».
Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».
Come dun stizzo verde charso sia
da lun de capi, che da laltro geme
e cigola per vento che va via,
sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond io lasciai la cima
cadere, e stetti come luom che teme.
«Selli avesse potuto creder prima»,
rispuose l savio mio, «anima lesa,
ciò cha veduto pur con la mia rima,
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra cha me stesso pesa.
Ma dilli chi tu fosti, sì che n vece
dalcun ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».
E l tronco: «Sì col dolce dir madeschi,
chi non posso tacere; e voi non gravi
perch ïo un poco a ragionar minveschi.
Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto chi ne perde li sonni e polsi.
La meretrice che mai da lospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti;
e li nfiammati infiammar sì Augusto,
che lieti onor tornaro in tristi lutti.
Lanimo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nove radici desto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu donor sì degno.
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che nvidia le diede».
Un poco attese, e poi «Da chel si tace»,
disse l poeta a me, «non perder lora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».
Ond ïo a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi cha me satisfaccia;
chi non potrei, tanta pietà maccora».
Perciò ricominciò: «Se lom ti faccia
liberamente ciò che l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia
di dirne come lanima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
salcuna mai di tai membra si spiega».
Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi.
Quando si parte lanima feroce
dal corpo ond ella stessa sè disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.
Cade in la selva, e non lè parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.
Surge in vermena e in pianta silvestra:
lArpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.
Come laltre verrem per nostre spoglie,
ma non però chalcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò chom si toglie.
Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de lombra sua molesta».
Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo chaltro ne volesse dire,
quando noi fummo dun romor sorpresi,
similemente a colui che venire
sente l porco e la caccia a la sua posta,
chode le bestie, e le frasche stormire.
Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.
Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E laltro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte
le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e dun cespuglio fece un groppo.
Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri chuscisser di catena.
In quel che sappiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.
Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano.
«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
che tè giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?».
Quando l maestro fu sovr esso fermo,
disse: «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?».
Ed elli a noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
cha le mie fronde sì da me disgiunte,
raccoglietele al piè del tristo cesto.
I fui de la città che nel Batista
mutò l primo padrone; ond ei per questo
sempre con larte sua la farà trista;
e se non fosse che n sul passo dArno
rimane ancor di lui alcuna vista,
que cittadin che poi la rifondarno
sovra l cener che dAttila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
Io fei gibetto a me de le mie case».
Inferno · Canto XIV
Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rendele a colui, chera già fioco.
Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte.
A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.
La dolorosa selva lè ghirlanda
intorno, come l fosso tristo ad essa;
quivi fermammo i passi a randa a randa.
Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non daltra foggia fatta che colei
che fu da piè di Caton già soppressa.
O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto a li occhi mei!
Danime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.
Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente.
Quella che giva ntorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta.
Sovra tutto l sabbion, dun cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.
Quali Alessandro in quelle parti calde
dIndïa vide sopra l süo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde,
per chei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre chera solo:
tale scendeva letternale ardore;
onde la rena saccendea, com esca
sotto focile, a doppiar lo dolore.
Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé larsura fresca.
I cominciai: «Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che demon duri
cha lintrar de la porta incontra uscinci,
chi è quel grande che non par che curi
lo ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che l marturi?».
E quel medesmo, che si fu accorto
chio domandava il mio duca di lui,
gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.
Se Giove stanchi l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde lultimo dì percosso fui;
o selli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”,
sì com el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra».
Allora il duca mio parlò di forza
tanto, chi non lavea sì forte udito:
«O Capaneo, in ciò che non sammorza
la tua superbia, se tu più punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito».
Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: «Quei fu lun di sette regi
chassiser Tebe; ed ebbe e par chelli abbia
Dio in disdegno, e poco par che l pregi;
ma, com io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi.
Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi stretti».
Tacendo divenimmo là ve spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello.
Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt era n pietra, e margini dallato;
per chio maccorsi che l passo era lici.
«Tra tutto laltro chi tho dimostrato,
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno è negato,
cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com è l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta».
Queste parole fuor del duca mio;
per chio l pregai che mi largisse l pasto
di cui largito mavëa il disio.
«In mezzo mar siede un paese guasto»,
diss elli allora, «che sappella Creta,
sotto l cui rege fu già l mondo casto.
Una montagna vè che già fu lieta
dacqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta.
Rëa la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida.
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver Dammiata
e Roma guarda come süo speglio.
La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e l petto,
poi è di rame infino a la forcata;
da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che l destro piede è terra cotta;
e sta n su quel, più che n su laltro, eretto.
Ciascuna parte, fuor che loro, è rotta
duna fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta.
Lor corso in questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia,
infin, là ove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta».
E io a lui: «Se l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,
perché ci appar pur a questo vivagno?».
Ed elli a me: «Tu sai che l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo,
non se ancor per tutto l cerchio vòlto;
per che, se cosa napparisce nova,
non de addur maraviglia al tuo volto».
E io ancor: «Maestro, ove si trova
Flegetonta e Letè? ché de lun taci,
e laltro di che si fa desta piova».
«In tutte tue question certo mi piaci»,
rispuose, «ma l bollor de lacqua rossa
dovea ben solver luna che tu faci.
Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,
là dove vanno lanime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa».
Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi,
e sopra loro ogne vapor si spegne».
Inferno · Canto XV
Ora cen porta lun de duri margini;
e l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva lacqua e li argini.
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo l fiotto che nver lor savventa,
fanno lo schermo perché l mar si fuggia;
e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:
a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.
Già eravam da la selva rimossi
tanto, chi non avrei visto dov era,
perch io in dietro rivolto mi fossi,
quando incontrammo danime una schiera
che venian lungo largine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera
guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver noi aguzzavan le ciglia
come l vecchio sartor fa ne la cruna.
Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».
E io, quando l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che l viso abbrusciato non difese
la conoscenza süa al mio ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».
E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna n dietro e lascia andar la traccia».
I dissi lui: «Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi masseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco».
«O figliuol», disse, «qual di questa greggia
sarresta punto, giace poi cent anni
sanz arrostarsi quando l foco il feggia.
Però va oltre: i ti verrò a panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni».
Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma l capo chino
tenea com uom che reverente vada.
El cominciò: «Qual fortuna o destino
anzi lultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra l cammino?».
«Là sù di sopra, in la vita serena»,
rispuos io lui, «mi smarri in una valle,
avanti che letà mia fosse piena.
Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi mapparve, tornand ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle».
Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben maccorsi ne la vita bella;
e sio non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato tavrei a lopera conforto.
Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.
La tua fortuna tanto onor ti serba,
che luna parte e laltra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco lerba.
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
salcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di que Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta».
«Se fosse tutto pieno il mio dimando»,
rispuos io lui, «voi non sareste ancora
de lumana natura posto in bando;
ché n la mente mè fitta, e or maccora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
minsegnavate come luom setterna:
e quant io labbia in grado, mentr io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.
Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, sa lei arrivo.
Tanto vogl io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
cha la Fortuna, come vuol, son presto.
Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e l villan la sua marra».
Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: «Bene ascolta chi la nota».
Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni più noti e più sommi.
Ed elli a me: «Saper dalcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché l tempo saria corto a tanto suono.
In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
dun peccato medesmo al mondo lerci.
Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco dAccorso anche; e vedervi,
savessi avuto di tal tigna brama,
colui potei che dal servo de servi
fu trasmutato dArno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi.
Di più direi; ma l venire e l sermone
più lungo esser non può, però chi veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.
Gente vien con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».
Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, non colui che perde.
Inferno · Canto XVI
Già era in loco onde sudia l rimbombo
de lacqua che cadea ne laltro giro,
simile a quel che larnie fanno rombo,
quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, duna torma che passava
sotto la pioggia de laspro martiro.
Venian ver noi, e ciascuna gridava:
«Sòstati tu cha labito ne sembri
esser alcun di nostra terra prava».
Ahimè, che piaghe vidi ne lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur chi me ne rimembri.
A le lor grida il mio dottor sattese;
volse l viso ver me, e «Or aspetta»,
disse, «a costor si vuole esser cortese.
E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta».
Ricominciar, come noi restammo, ei
lantico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei.
Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti,
così rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio.
E «Se miseria desto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi»,
cominciò luno, «e l tinto aspetto e brollo,
la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se, che i vivi piedi
così sicuro per lo nferno freghi.
Questi, lorme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi:
nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada.
Laltro, chappresso me la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo sù dovria esser gradita.
E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più chaltro mi nuoce».
Si fossi stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che l dottor lavria sofferto;
ma perch io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto.
Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia,
tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse.
Di vostra terra sono, e sempre mai
lovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai.
Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma nfino al centro pria convien chi tomi».
«Se lungamente lanima conduca
le membra tue», rispuose quelli ancora,
«e se la fama tua dopo te luca,
cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
o se del tutto se nè gita fora;
ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole».
«La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».
Così gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
guardar lun laltro com al ver si guata.
«Se laltre volte sì poco ti costa»,
rispuoser tutti, «il satisfare altrui,
felice te se sì parli a tua posta!
Però, se campi desti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti gioverà dicere “I fui”,
fa che di noi a la gente favelle».
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
ali sembiar le gambe loro isnelle.
Un amen non saria possuto dirsi
tosto così com e fuoro spariti;
per chal maestro parve di partirsi.
Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che l suon de lacqua nera sì vicino,
che per parlar saremmo a pena uditi.
Come quel fiume cha proprio cammino
prima dal Monte Viso nver levante,
da la sinistra costa dApennino,
che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,
rimbomba là sovra San Benedetto
de lAlpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;
così, giù duna ripa discoscesa,
trovammo risonar quell acqua tinta,
sì che n poc ora avria lorecchia offesa.
Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.
Poscia chio lebbi tutta da me sciolta,
sì come l duca mavea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.
Ond ei si volse inver lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell alto burrato.
E pur convien che novità risponda,
dicea fra me medesmo, al novo cenno
che l maestro con locchio sì seconda.
Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur lovra,
ma per entro i pensier miran col senno!
El disse a me: «Tosto verrà di sovra
ciò chio attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien chal tuo viso si scovra».
Sempre a quel ver cha faccia di menzogna
de luom chiuder le labbra fin chel puote,
però che sanza colpa fa vergogna;
ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
selle non sien di lunga grazia vòte,
chi vidi per quell aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,
sì come torna colui che va giuso
talora a solver làncora chaggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,
che n sù si stende e da piè si rattrappa.
Inferno · Canto XVII
«Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e larmi!
Ecco colei che tutto l mondo appuzza!».
Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda,
vicino al fin di passeggiati marmi.
E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e l busto,
ma n su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era faccia duom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e dun serpente tutto laltro fusto;
due branche avea pilose insin lascelle;
lo dosso e l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.
Con più color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
né fuor tai tele per Aragne imposte.
Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi
lo bivero sassetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
su lorlo chè di pietra e l sabbion serra.
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
cha guisa di scorpion la punta armava.
Lo duca disse: «Or convien che si torca
la nostra via un poco insino a quella
bestia malvagia che colà si corca».
Però scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella.
E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo.
Quivi l maestro «Acciò che tutta piena
esperïenza desto giron porti»,
mi disse, «va, e vedi la lor mena.
Li tuoi ragionamenti sian là corti;
mentre che torni, parlerò con questa,
che ne conceda i suoi omeri forti».
Così ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta.
Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
di qua, di là soccorrien con le mani
quando a vapori, e quando al caldo suolo:
non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col piè, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani.
Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne quali l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io maccorsi
che dal collo a ciascun pendea una tasca
chavea certo colore e certo segno,
e quindi par che l loro occhio si pasca.
E com io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro
che dun leone avea faccia e contegno.
Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine unaltra come sangue rossa,
mostrando unoca bianca più che burro.
E un che duna scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: «Che fai tu in questa fossa?
Or te ne va; e perché se vivo anco,
sappi che l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco.
Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi ntronan li orecchi
gridando: “Vegna l cavalier sovrano,
che recherà la tasca con tre becchi!”».
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che l naso lecchi.
E io, temendo no l più star crucciasse
lui che di poco star mavea mmonito,
tornami in dietro da lanime lasse.
Trova il duca mio chera salito
già su la groppa del fiero animale,
e disse a me: «Or sie forte e ardito.
Omai si scende per sì fatte scale;
monta dinanzi, chi voglio esser mezzo,
sì che la coda non possa far male».
Qual è colui che sì presso ha l riprezzo
de la quartana, cha già lunghie smorte,
e triema tutto pur guardando l rezzo,
tal divenn io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte.
I massettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com io credetti: Fa che tu mabbracce.
Ma esso, chaltra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto chi montai
con le braccia mavvinse e mi sostenne;
e disse: «Gerïon, moviti omai:
le rote larghe, e lo scender sia poco;
pensa la nova soma che tu hai».
Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
e poi chal tutto si sentì a gioco,
v era l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche laere a sé raccolse.
Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che l ciel, come pare ancor, si cosse;
né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,
che fu la mia, quando vidi chi era
ne laere dogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera.
Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me naccorgo
se non che al viso e di sotto mi venta.
Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi n giù la testa sporgo.
Allor fu io più timido a lo stoscio,
però chi vidi fuochi e senti pianti;
ond io tremando tutto mi raccoscio.
E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e l girar per li gran mali
che sappressavan da diversi canti.
Come l falcon chè stato assai su lali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello;
così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone,
si dileguò come da corda cocca.
Inferno · Canto XVIII
Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.
Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
di cui suo loco dicerò lordigno.
Quel cinghio che rimane adunque è tondo
tra l pozzo e l piè de lalta ripa dura,
e ha distinto in dieci valli il fondo.
Quale, dove per guardia de le mura
più e più fossi cingon li castelli,
la parte dove son rende figura,
tale imagine quivi facean quelli;
e come a tai fortezze da lor sogli
a la ripa di fuor son ponticelli,
così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e fossi
infino al pozzo che i tronca e raccogli.
In questo luogo, de la schiena scossi
di Gerïon, trovammoci; e l poeta
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.
A la man destra vidi nova pieta,
novo tormento e novi frustatori,
di che la prima bolgia era repleta.
Nel fondo erano ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso l volto,
di là con noi, ma con passi maggiori,
come i Roman per lessercito molto,
lanno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,
che da lun lato tutti hanno la fronte
verso l castello e vanno a Santo Pietro,
da laltra sponda vanno verso l monte.
Di qua, di là, su per lo sasso tetro
vidi demon cornuti con gran ferze,
che li battien crudelmente di retro.
Ahi come facean lor levar le berze
a le prime percosse! già nessuno
le seconde aspettava né le terze.
Mentr io andava, li occhi miei in uno
furo scontrati; e io sì tosto dissi:
«Già di veder costui non son digiuno».
Per chïo a figurarlo i piedi affissi;
e l dolce duca meco si ristette,
e assentio chalquanto in dietro gissi.
E quel frustato celar si credette
bassando l viso; ma poco li valse,
chio dissi: «O tu che locchio a terra gette,
se le fazion che porti non son false,
Venedico se tu Caccianemico.
Ma che ti mena a sì pungenti salse?».
Ed elli a me: «Mal volontier lo dico;
ma sforzami la tua chiara favella,
che mi fa sovvenir del mondo antico.
I fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del marchese,
come che suoni la sconcia novella.
E non pur io qui piango bolognese;
anzi nè questo loco tanto pieno,
che tante lingue non son ora apprese
a dicer sipa tra Sàvena e Reno;
e se di ciò vuoi fede o testimonio,
rècati a mente il nostro avaro seno».
Così parlando il percosse un demonio
de la sua scurïada, e disse: «Via,
ruffian! qui non son femmine da conio».
I mi raggiunsi con la scorta mia;
poscia con pochi passi divenimmo
v uno scoglio de la ripa uscia.
Assai leggeramente quel salimmo;
e vòlti a destra su per la sua scheggia,
da quelle cerchie etterne ci partimmo.
Quando noi fummo là dov el vaneggia
di sotto per dar passo a li sferzati,
lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia
lo viso in te di quest altri mal nati,
ai quali ancor non vedesti la faccia
però che son con noi insieme andati».
Del vecchio ponte guardavam la traccia
che venìa verso noi da laltra banda,
e che la ferza similmente scaccia.
E l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: «Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrime spanda:
quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno
li Colchi del monton privati féne.
Ello passò per lisola di Lenno
poi che lardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno.
Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta
che prima avea tutte laltre ingannate.
Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna;
e anche di Medea si fa vendetta.
Con lui sen va chi da tal parte inganna;
e questo basti de la prima valle
sapere e di color che n sé assanna».
Già eravam là ve lo stretto calle
con largine secondo sincrocicchia,
e fa di quello ad un altr arco spalle.
Quindi sentimmo gente che si nicchia
ne laltra bolgia e che col muso scuffa,
e sé medesma con le palme picchia.
Le ripe eran grommate duna muffa,
per lalito di giù che vi sappasta,
che con li occhi e col naso facea zuffa.
Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
loco a veder sanza montare al dosso
de larco, ove lo scoglio più sovrasta.
Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
vidi gente attuffata in uno sterco
che da li uman privadi parea mosso.
E mentre chio là giù con locchio cerco,
vidi un col capo sì di merda lordo,
che non parëa sera laico o cherco.
Quei mi sgridò: «Perché se tu sì gordo
di riguardar più me che li altri brutti?».
E io a lui: «Perché, se ben ricordo,
già tho veduto coi capelli asciutti,
e se Alessio Interminei da Lucca:
però tadocchio più che li altri tutti».
Ed elli allor, battendosi la zucca:
«Qua giù mhanno sommerso le lusinghe
ond io non ebbi mai la lingua stucca».
Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,
mi disse, «il viso un poco più avante,
sì che la faccia ben con locchio attinghe
di quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con lunghie merdose,
e or saccoscia e ora è in piedi stante.
Taïde è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse “Ho io grazie
grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”.
E quinci sian le nostre viste sazie».
Inferno · Canto XIX
O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci
per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.
Già eravamo, a la seguente tomba,
montati de lo scoglio in quella parte
cha punto sovra mezzo l fosso piomba.
O somma sapïenza, quanta è larte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
e quanto giusto tua virtù comparte!
Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fóri,
dun largo tutti e ciascun era tondo.
Non mi parean men ampi né maggiori
che que che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco di battezzatori;
lun de li quali, ancor non è molt anni,
rupp io per un che dentro vannegava:
e questo sia suggel chogn omo sganni.
Fuor de la bocca a ciascun soperchiava
dun peccator li piedi e de le gambe
infino al grosso, e laltro dentro stava.
Le piante erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.
Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
muoversi pur su per la strema buccia,
tal era lì dai calcagni a le punte.
«Chi è colui, maestro, che si cruccia
guizzando più che li altri suoi consorti»,
diss io, «e cui più roggia fiamma succia?».
Ed elli a me: «Se tu vuo chi ti porti
là giù per quella ripa che più giace,
da lui saprai di sé e de suoi torti».
E io: «Tanto mè bel, quanto a te piace:
tu se segnore, e sai chi non mi parto
dal tuo volere, e sai quel che si tace».
Allor venimmo in su largine quarto;
volgemmo e discendemmo a mano stanca
là giù nel fondo foracchiato e arto.
Lo buon maestro ancor de la sua anca
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto
di quel che si piangeva con la zanca.
«O qual che se che l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa»,
comincia io a dir, «se puoi, fa motto».
Io stava come l frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi chè fitto,
richiama lui per che la morte cessa.
Ed el gridò: «Se tu già costì ritto,
se tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.
Se tu sì tosto di quell aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?».
Tal mi fec io, quai son color che stanno,
per non intender ciò chè lor risposto,
quasi scornati, e risponder non sanno.
Allor Virgilio disse: «Dilli tosto:
“Non son colui, non son colui che credi”»;
e io rispuosi come a me fu imposto.
Per che lo spirto tutti storse i piedi;
poi, sospirando e con voce di pianto,
mi disse: «Dunque che a me richiedi?
Se di saper chi sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi chi fui vestito del gran manto;
e veramente fui figliuol de lorsa,
cupido sì per avanzar li orsatti,
che sù lavere e qui me misi in borsa.
Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti.
Là giù cascherò io altresì quando
verrà colui chi credea che tu fossi,
allor chi feci l sùbito dimando.
Ma più è l tempo già che i piè mi cossi
e chi son stato così sottosopra,
chel non starà piantato coi piè rossi:
ché dopo lui verrà di più laida opra,
di ver ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra.
Nuovo Iasón sarà, di cui si legge
ne Maccabei; e come a quel fu molle
suo re, così fia lui chi Francia regge».
Io non so si mi fui qui troppo folle,
chi pur rispuosi lui a questo metro:
«Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
Nostro Segnore in prima da san Pietro
chei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non “Viemmi retro”.
Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé lanima ria.
Però ti sta, ché tu se ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
chesser ti fece contra Carlo ardito.
E se non fosse chancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,
io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.
Di voi pastor saccorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra lacque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto vavete dio doro e dargento;
e che altro è da voi a lidolatre,
se non chelli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!».
E mentr io li cantava cotai note,
o ira o coscïenza che l mordesse,
forte spingava con ambo le piote.
I credo ben chal mio duca piacesse,
con sì contenta labbia sempre attese
lo suon de le parole vere espresse.
Però con ambo le braccia mi prese;
e poi che tutto su mi sebbe al petto,
rimontò per la via onde discese.
Né si stancò davermi a sé distretto,
sì men portò sovra l colmo de larco
che dal quarto al quinto argine è tragetto.
Quivi soavemente spuose il carco,
soave per lo scoglio sconcio ed erto
che sarebbe a le capre duro varco.
Indi un altro vallon mi fu scoperto.
Inferno · Canto XX
Di nova pena mi conven far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, chè di sommersi.
Io era già disposto tutto quanto
a riguardar ne lo scoperto fondo,
che si bagnava dangoscioso pianto;
e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo.
Come l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra l mento e l principio del casso,
ché da le reni era tornato l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché l veder dinanzi era lor tolto.
Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com io potea tener lo viso asciutto,
quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso.
Certo io piangea, poggiato a un de rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: «Ancor se tu de li altri sciocchi?
Qui vive la pietà quand è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?
Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
saperse a li occhi di Teban la terra;
per chei gridavan tutti: “Dove rui,
Anfïarao? perché lasci la guerra?”.
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra.
Mira cha fatto petto de le spalle;
perché volle veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle.
Vedi Tiresia, che mutò sembiante
quando di maschio femmina divenne,
cangiandosi le membra tutte quante;
e prima, poi, ribatter li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,
che rïavesse le maschili penne.
Aronta è quel chal ventre li satterga,
che ne monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga,
ebbe tra bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle
e l mar non li era la veduta tronca.
E quella che ricuopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle,
Manto fu, che cercò per terre molte;
poscia si puose là dove nacqu io;
onde un poco mi piace che mascolte.
Poscia che l padre suo di vita uscìo
e venne serva la città di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gio.
Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de lAlpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, cha nome Benaco.
Per mille fonti, credo, e più si bagna
tra Garda e Val Camonica e Pennino
de lacqua che nel detto laco stagna.
Loco è nel mezzo là dove l trentino
pastore e quel di Brescia e l veronese
segnar poria, se fesse quel cammino.
Siede Peschiera, bello e forte arnese
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva ntorno più discese.
Ivi convien che tutto quanto caschi
ciò che n grembo a Benaco star non può,
e fassi fiume giù per verdi paschi.
Tosto che lacqua a correr mette co,
non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po.
Non molto ha corso, chel trova una lama,
ne la qual si distende e la mpaluda;
e suol di state talor essere grama.
Quindi passando la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e dabitanti nuda.
Lì, per fuggire ogne consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.
Li uomini poi che ntorno erano sparti
saccolsero a quel loco, chera forte
per lo pantan chavea da tutte parti.
Fer la città sovra quell ossa morte;
e per colei che l loco prima elesse,
Mantüa lappellar sanz altra sorte.
Già fuor le genti sue dentro più spesse,
prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse.
Però tassenno che, se tu mai odi
originar la mia terra altrimenti,
la verità nulla menzogna frodi».
E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti
mi son sì certi e prendon sì mia fede,
che li altri mi sarien carboni spenti.
Ma dimmi, de la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
ché solo a ciò la mia mente rifiede».
Allor mi disse: «Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu—quando Grecia fu di maschi vòta,
sì cha pena rimaser per le cune—
augure, e diede l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune.
Euripilo ebbe nome, e così l canta
lalta mia tragedìa in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta.
Quell altro che ne fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe l gioco.
Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
chavere inteso al cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente.
Vedi le triste che lasciaron lago,
la spuola e l fuso, e fecersi ndivine;
fecer malie con erbe e con imago.
Ma vienne omai, ché già tiene l confine
damendue li emisperi e tocca londa
sotto Sobilia Caino e le spine;
e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda».
Sì mi parlava, e andavamo introcque.
Inferno · Canto XXI
Così di ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedìa cantar non cura,
venimmo; e tenavamo l colmo, quando
restammo per veder laltra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani;
e vidila mirabilmente oscura.
Quale ne larzanà de Viniziani
bolle linverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
ché navicar non ponno—in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa—:
tal, non per foco ma per divin arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che nviscava la ripa dogne parte.
I vedea lei, ma non vedëa in essa
mai che le bolle che l bollor levava,
e gonfiar tutta, e riseder compressa.
Mentr io là giù fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo «Guarda, guarda!»,
mi trasse a sé del loco dov io stava.
Allor mi volsi come luom cui tarda
di veder quel che li convien fuggire
e cui paura sùbita sgagliarda,
che, per veder, non indugia l partire:
e vidi dietro a noi un diavol nero
correndo su per lo scoglio venire.
Ahi quant elli era ne laspetto fero!
e quanto mi parea ne latto acerbo,
con lali aperte e sovra i piè leggero!
Lomero suo, chera aguto e superbo,
carcava un peccator con ambo lanche,
e quei tenea de piè ghermito l nerbo.
Del nostro ponte disse: «O Malebranche,
ecco un de li anzïan di Santa Zita!
Mettetel sotto, chi torno per anche
a quella terra, che nè ben fornita:
ogn uom vè barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar, vi si fa ita».
Là giù l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.
Quel sattuffò, e tornò sù convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto!
qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
Però, se tu non vuo di nostri graffi,
non far sopra la pegola soverchio».
Poi laddentar con più di cento raffi,
disser: «Coverto convien che qui balli,
sì che, se puoi, nascosamente accaffi».
Non altrimenti i cuoci a lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaia
la carne con li uncin, perché non galli.
Lo buon maestro «Acciò che non si paia
che tu ci sia», mi disse, «giù tacquatta
dopo uno scheggio, chalcun schermo taia;
e per nulla offension che mi sia fatta,
non temer tu, chi ho le cose conte,
perch altra volta fui a tal baratta».
Poscia passò di là dal co del ponte;
e com el giunse in su la ripa sesta,
mestier li fu daver sicura fronte.
Con quel furore e con quella tempesta
chescono i cani a dosso al poverello
che di sùbito chiede ove sarresta,
usciron quei di sotto al ponticello,
e volser contra lui tutt i runcigli;
ma el gridò: «Nessun di voi sia fello!
Innanzi che luncin vostro mi pigli,
traggasi avante lun di voi che moda,
e poi darruncigliarmi si consigli».
Tutti gridaron: «Vada Malacoda!»;
per chun si mosse—e li altri stetter fermi—
e venne a lui dicendo: «Che li approda?».
«Credi tu, Malacoda, qui vedermi
esser venuto», disse l mio maestro,
«sicuro già da tutti vostri schermi,
sanza voler divino e fato destro?
Lascian andar, ché nel cielo è voluto
chi mostri altrui questo cammin silvestro».
Allor li fu lorgoglio sì caduto,
che si lasciò cascar luncino a piedi,
e disse a li altri: «Omai non sia feruto».
E l duca mio a me: «O tu che siedi
tra li scheggion del ponte quatto quatto,
sicuramente omai a me ti riedi».
Per chio mi mossi e a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
sì chio temetti chei tenesser patto;
così vid ïo già temer li fanti
chuscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti.
I maccostai con tutta la persona
lungo l mio duca, e non torceva li occhi
da la sembianza lor chera non buona.
Ei chinavan li raffi e «Vuo che l tocchi»,
diceva lun con laltro, «in sul groppone?».
E rispondien: «Sì, fa che gliel accocchi».
Ma quel demonio che tenea sermone
col duca mio, si volse tutto presto
e disse: «Posa, posa, Scarmiglione!».
Poi disse a noi: «Più oltre andar per questo
iscoglio non si può, però che giace
tutto spezzato al fondo larco sesto.
E se landare avante pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
presso è un altro scoglio che via face.
Ier, più oltre cinqu ore che quest otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta.
Io mando verso là di questi miei
a riguardar salcun se ne sciorina;
gite con lor, che non saranno rei».
«Trati avante, Alichino, e Calcabrina»,
cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina.
Libicocco vegn oltre e Draghignazzo,
Cirïatto sannuto e Graffiacane
e Farfarello e Rubicante pazzo.
Cercate ntorno le boglienti pane;
costor sian salvi infino a laltro scheggio
che tutto intero va sovra le tane».
«Omè, maestro, che è quel chi veggio?»,
diss io, «deh, sanza scorta andianci soli,
se tu sa ir; chi per me non la cheggio.
Se tu se sì accorto come suoli,
non vedi tu che digrignan li denti
e con le ciglia ne minaccian duoli?».
Ed elli a me: «Non vo che tu paventi;
lasciali digrignar pur a lor senno,
che fanno ciò per li lessi dolenti».
Per largine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea del cul fatto trombetta.
Inferno · Canto XXII
Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;
corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra;
quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;
né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella.
Noi andavam con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni.
Pur a la pegola era la mia ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno
e de la gente chentro vera incesa.
Come i dalfini, quando fanno segno
a marinar con larco de la schiena
che sargomentin di campar lor legno,
talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav alcun de peccatori l dosso
e nascondea in men che non balena.
E come a lorlo de lacqua dun fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,
sì che celano i piedi e laltro grosso,
sì stavan dogne parte i peccatori;
ma come sappressava Barbariccia,
così si ritraén sotto i bollori.
I vidi, e anco il cor me naccapriccia,
uno aspettar così, com elli ncontra
chuna rana rimane e laltra spiccia;
e Graffiacan, che li era più di contra,
li arruncigliò le mpegolate chiome
e trassel sù, che mi parve una lontra.
I sapea già di tutti quanti l nome,
sì li notai quando fuorono eletti,
e poi che si chiamaro, attesi come.
«O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!»,
gridavan tutti insieme i maladetti.
E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi è lo sciagurato
venuto a man de li avversari suoi».
Lo duca mio li saccostò allato;
domandollo ond ei fosse, e quei rispuose:
«I fui del regno di Navarra nato.
Mia madre a servo dun segnor mi puose,
che mavea generato dun ribaldo,
distruggitor di sé e di sue cose.
Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria,
di chio rendo ragione in questo caldo».
E Cirïatto, a cui di bocca uscia
dogne parte una sanna come a porco,
li fé sentir come luna sdruscia.
Tra male gatte era venuto l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia
e disse: «State in là, mentr io lo nforco».
E al maestro mio volse la faccia;
«Domanda», disse, «ancor, se più disii
saper da lui, prima chaltri l disfaccia».
Lo duca dunque: «Or dì: de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece?». E quelli: «I mi partii,
poco è, da un che fu di là vicino.
Così foss io ancor con lui coperto,
chi non temerei unghia né uncino!».
E Libicocco «Troppo avem sofferto»,
disse; e preseli l braccio col runciglio,
sì che, stracciando, ne portò un lacerto.
Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde l decurio loro
si volse intorno intorno con mal piglio.
Quand elli un poco rappaciati fuoro,
a lui, chancor mirava sua ferita,
domandò l duca mio sanza dimoro:
«Chi fu colui da cui mala partita
di che facesti per venire a proda?».
Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita,
quel di Gallura, vasel dogne froda,
chebbe i nemici di suo donno in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda.
Danar si tolse e lasciolli di piano,
sì com e dice; e ne li altri offici anche
barattier fu non picciol, ma sovrano.
Usa con esso donno Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche.
Omè, vedete laltro che digrigna;
i direi anche, ma i temo chello
non sapparecchi a grattarmi la tigna».
E l gran proposto, vòlto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,
disse: «Fatti n costà, malvagio uccello!».
«Se voi volete vedere o udire»,
ricominciò lo spaürato appresso,
«Toschi o Lombardi, io ne farò venire;
ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
sì chei non teman de le lor vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso,
per un chio son, ne farò venir sette
quand io suffolerò, com è nostro uso
di fare allor che fori alcun si mette».
Cagnazzo a cotal motto levò l muso,
crollando l capo, e disse: «Odi malizia
chelli ha pensata per gittarsi giuso!».
Ond ei, chavea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: «Malizioso son io troppo,
quand io procuro a mia maggior trestizia».
Alichin non si tenne e, di rintoppo
a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali,
io non ti verrò dietro di gualoppo,
ma batterò sovra la pece lali.
Lascisi l collo, e sia la ripa scudo,
a veder se tu sol più di noi vali».
O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da laltra costa li occhi volse,
quel prima, cha ciò fare era più crudo.
Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, e in un punto
saltò e dal proposto lor si sciolse.
Di che ciascun di colpa fu compunto,
ma quei più che cagion fu del difetto;
però si mosse e gridò: «Tu se giunto!».
Ma poco i valse: ché lali al sospetto
non potero avanzar; quelli andò sotto,
e quei drizzò volando suso il petto:
non altrimenti lanitra di botto,
quando l falcon sappressa, giù sattuffa,
ed ei ritorna sù crucciato e rotto.
Irato Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
che quei campasse per aver la zuffa;
e come l barattier fu disparito,
così volse li artigli al suo compagno,
e fu con lui sopra l fosso ghermito.
Ma laltro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno.
Lo caldo sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,
sì avieno inviscate lali sue.
Barbariccia, con li altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da laltra costa
con tutt i raffi, e assai prestamente
di qua, di là discesero a la posta;
porser li uncini verso li mpaniati,
cheran già cotti dentro da la crosta.
E noi lasciammo lor così mpacciati.
Inferno · Canto XXIII
Taciti, soli, sanza compagnia
nandavam lun dinanzi e laltro dopo,
come frati minor vanno per via.
Vòlt era in su la favola dIsopo
lo mio pensier per la presente rissa,
dov el parlò de la rana e del topo;
ché più non si pareggia mo e issa
che lun con laltro fa, se ben saccoppia
principio e fine con la mente fissa.
E come lun pensier de laltro scoppia,
così nacque di quello un altro poi,
che la prima paura mi fé doppia.
Io pensava così: Questi per noi
sono scherniti con danno e con beffa
sì fatta, chassai credo che lor nòi.
Se lira sovra l mal voler saggueffa,
ei ne verranno dietro più crudeli
che l cane a quella lievre chelli acceffa.
Già mi sentia tutti arricciar li peli
de la paura e stava in dietro intento,
quand io dissi: «Maestro, se non celi
te e me tostamente, i ho pavento
di Malebranche. Noi li avem già dietro;
io li magino sì, che già li sento».
E quei: «Si fossi di piombato vetro,
limagine di fuor tua non trarrei
più tosto a me, che quella dentro mpetro.
Pur mo venieno i tuo pensier tra miei,
con simile atto e con simile faccia,
sì che dintrambi un sol consiglio fei.
Selli è che sì la destra costa giaccia,
che noi possiam ne laltra bolgia scendere,
noi fuggirem limaginata caccia».
Già non compié di tal consiglio rendere,
chio li vidi venir con lali tese
non molto lungi, per volerne prendere.
Lo duca mio di sùbito mi prese,
come la madre chal romore è desta
e vede presso a sé le fiamme accese,
che prende il figlio e fugge e non sarresta,
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta;
e giù dal collo de la ripa dura
supin si diede a la pendente roccia,
che lun de lati a laltra bolgia tura.
Non corse mai sì tosto acqua per doccia
a volger ruota di molin terragno,
quand ella più verso le pale approccia,
come l maestro mio per quel vivagno,
portandosene me sovra l suo petto,
come suo figlio, non come compagno.
A pena fuoro i piè suoi giunti al letto
del fondo giù, che furon in sul colle
sovresso noi; ma non lì era sospetto:
ché lalta provedenza che lor volle
porre ministri de la fossa quinta,
poder di partirs indi a tutti tolle.
Là giù trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi,
piangendo e nel sembiante stanca e vinta.
Elli avean cappe con cappucci bassi
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
che in Clugnì per li monaci fassi.
Di fuor dorate son, sì chelli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
che Federigo le mettea di paglia.
Oh in etterno faticoso manto!
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
con loro insieme, intenti al tristo pianto;
ma per lo peso quella gente stanca
venìa sì pian, che noi eravam nuovi
di compagnia ad ogne mover danca.
Per chio al duca mio: «Fa che tu trovi
alcun chal fatto o al nome si conosca,
e li occhi, sì andando, intorno movi».
E un che ntese la parola tosca,
di retro a noi gridò: «Tenete i piedi,
voi che correte sì per laura fosca!
Forse chavrai da me quel che tu chiedi».
Onde l duca si volse e disse: «Aspetta,
e poi secondo il suo passo procedi».
Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta
de lanimo, col viso, desser meco;
ma tardavali l carco e la via stretta.
Quando fuor giunti, assai con locchio bieco
mi rimiraron sanza far parola;
poi si volsero in sé, e dicean seco:
«Costui par vivo a latto de la gola;
e se son morti, per qual privilegio
vanno scoperti de la grave stola?».
Poi disser me: «O Tosco, chal collegio
de lipocriti tristi se venuto,
dir chi tu se non avere in dispregio».
E io a loro: «I fui nato e cresciuto
sovra l bel fiume dArno a la gran villa,
e son col corpo chi ho sempre avuto.
Ma voi chi siete, a cui tanto distilla
quant i veggio dolor giù per le guance?
e che pena è in voi che sì sfavilla?».
E lun rispuose a me: «Le cappe rance
son di piombo sì grosse, che li pesi
fan così cigolar le lor bilance.
Frati godenti fummo, e bolognesi;
io Catalano e questi Loderingo
nomati, e da tua terra insieme presi
come suole esser tolto un uom solingo,
per conservar sua pace; e fummo tali,
chancor si pare intorno dal Gardingo».
Io cominciai: «O frati, i vostri mali . . . »;
ma più non dissi, cha locchio mi corse
un, crucifisso in terra con tre pali.
Quando mi vide, tutto si distorse,
soffiando ne la barba con sospiri;
e l frate Catalan, cha ciò saccorse,
mi disse: «Quel confitto che tu miri,
consigliò i Farisei che convenia
porre un uom per lo popolo a martìri.
Attraversato è, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed è mestier chel senta
qualunque passa, come pesa, pria.
E a tal modo il socero si stenta
in questa fossa, e li altri dal concilio
che fu per li Giudei mala sementa».
Allor vid io maravigliar Virgilio
sovra colui chera disteso in croce
tanto vilmente ne letterno essilio.
Poscia drizzò al frate cotal voce:
«Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
sa la man destra giace alcuna foce
onde noi amendue possiamo uscirci,
sanza costrigner de li angeli neri
che vegnan desto fondo a dipartirci».
Rispuose adunque: «Più che tu non speri
sappressa un sasso che da la gran cerchia
si move e varca tutt i vallon feri,
salvo che n questo è rotto e nol coperchia;
montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchia».
Lo duca stette un poco a testa china;
poi disse: «Mal contava la bisogna
colui che i peccator di qua uncina».
E l frate: «Io udi già dire a Bologna
del diavol vizi assai, tra quali udi
chelli è bugiardo, e padre di menzogna».
Appresso il duca a gran passi sen gì,
turbato un poco dira nel sembiante;
ond io da li ncarcati mi parti
dietro a le poste de le care piante.
Inferno · Canto XXIV
In quella parte del giovanetto anno
che l sole i crin sotto lAquario tempra
e già le notti al mezzo dì sen vanno,
quando la brina in su la terra assempra
limagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra,
lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta; ond ei si batte lanca,
ritorna in casa, e qua e là si lagna,
come l tapin che non sa che si faccia;
poi riede, e la speranza ringavagna,
veggendo l mondo aver cangiata faccia
in poco dora, e prende suo vincastro
e fuor le pecorelle a pascer caccia.
Così mi fece sbigottir lo mastro
quand io li vidi sì turbar la fronte,
e così tosto al mal giunse lo mpiastro;
ché, come noi venimmo al guasto ponte,
lo duca a me si volse con quel piglio
dolce chio vidi prima a piè del monte.
Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio.
E come quei chadopera ed estima,
che sempre par che nnanzi si proveggia,
così, levando me sù ver la cima
dun ronchione, avvisava unaltra scheggia
dicendo: «Sovra quella poi taggrappa;
ma tenta pria sè tal chella ti reggia».
Non era via da vestito di cappa,
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,
potavam sù montar di chiappa in chiappa.
E se non fosse che da quel precinto
più che da laltro era la costa corta,
non so di lui, ma io sarei ben vinto.
Ma perché Malebolge inver la porta
del bassissimo pozzo tutta pende,
lo sito di ciascuna valle porta
che luna costa surge e laltra scende;
noi pur venimmo al fine in su la punta
onde lultima pietra si scoscende.
La lena mera del polmon sì munta
quand io fui sù, chi non potea più oltre,
anzi massisi ne la prima giunta.
«Omai convien che tu così ti spoltre»,
disse l maestro; «ché, seggendo in piuma,
in fama non si vien, né sotto coltre;
sanza la qual chi sua vita consuma,
cotal vestigio in terra di sé lascia,
qual fummo in aere e in acqua la schiuma.
E però leva sù; vinci lambascia
con lanimo che vince ogne battaglia,
se col suo grave corpo non saccascia.
Più lunga scala convien che si saglia;
non basta da costoro esser partito.
Se tu mi ntendi, or fa sì che ti vaglia».
Levami allor, mostrandomi fornito
meglio di lena chi non mi sentia,
e dissi: «Va, chi son forte e ardito».
Su per lo scoglio prendemmo la via,
chera ronchioso, stretto e malagevole,
ed erto più assai che quel di pria.
Parlando andava per non parer fievole;
onde una voce uscì de laltro fosso,
a parole formar disconvenevole.
Non so che disse, ancor che sovra l dosso
fossi de larco già che varca quivi;
ma chi parlava ad ire parea mosso.
Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi
non poteano ire al fondo per lo scuro;
per chio: «Maestro, fa che tu arrivi
da laltro cinghio e dismontiam lo muro;
ché, com i odo quinci e non intendo,
così giù veggio e neente affiguro».
«Altra risposta», disse, «non ti rendo
se non lo far; ché la dimanda onesta
si de seguir con lopera tacendo».
Noi discendemmo il ponte da la testa
dove saggiugne con lottava ripa,
e poi mi fu la bolgia manifesta:
e vidivi entro terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa.
Più non si vanti Libia con sua rena;
ché se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,
né tante pestilenzie né sì ree
mostrò già mai con tutta lEtïopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.
Tra questa cruda e tristissima copia
corrëan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia:
con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e l capo, ed eran dinanzi aggroppate.
Ed ecco a un chera da nostra proda,
savventò un serpente che l trafisse
là dove l collo a le spalle sannoda.
Né O sì tosto mai né I si scrisse,
com el saccese e arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse;
e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa
e n quel medesmo ritornò di butto.
Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;
erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol dincenso lagrime e damomo,
e nardo e mirra son lultime fasce.
E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon cha terra il tira,
o daltra oppilazion che lega lomo,
quando si leva, che ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
chelli ha sofferta, e guardando sospira:
tal era l peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant è severa,
che cotai colpi per vendetta croscia!
Lo duca il domandò poi chi ello era;
per chei rispuose: «Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fiera.
Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul chi fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana».
E ïo al duca: «Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giù l pinse;
chio l vidi uomo di sangue e di crucci».
E l peccator, che ntese, non sinfinse,
ma drizzò verso me lanimo e l volto,
e di trista vergogna si dipinse;
poi disse: «Più mi duol che tu mhai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de laltra vita tolto.
Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch io fui
ladro a la sagrestia di belli arredi,
e falsamente già fu apposto altrui.
Ma perché di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da luoghi bui,
apri li orecchi al mio annunzio, e odi.
Pistoia in pria di Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.
Tragge Marte vapor di Val di Magra
chè di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetüosa e agra
sovra Campo Picen fia combattuto;
ond ei repente spezzerà la nebbia,
sì chogne Bianco ne sarà feruto.
E detto lho perché doler ti debbia!».
Inferno · Canto XXV
Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: «Togli, Dio, cha te le squadro!».
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch una li savvolse allora al collo,
come dicesse Non vo che più diche;
e unaltra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo.
Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
dincenerarti sì che più non duri,
poi che n mal fare il seme tuo avanzi?
Per tutt i cerchi de lo nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giù da muri.
El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: «Ov è, ov è lacerbo?».
Maremma non cred io che tante nabbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia.
Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con lali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque sintoppa.
Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,
che, sotto l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco.
Non va co suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento chelli ebbe a vicino;
onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza dErcule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece».
Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
de quai né io né l duca mio saccorse,
se non quando gridar: «Chi siete voi?»;
per che nostra novella si ristette,
e intendemmo pur ad essi poi.
Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che lun nomar un altro convenette,
dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;
per chio, acciò che l duca stesse attento,
mi puosi l dito su dal mento al naso.
Se tu se or, lettore, a creder lento
ciò chio dirò, non sarà maraviglia,
ché io che l vidi, a pena il mi consento.
Com io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a luno, e tutto a lui sappiglia.
Co piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterïor le braccia prese;
poi li addentò e luna e laltra guancia;
li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra mbedue
e dietro per le ren sù la ritese.
Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come lorribil fiera
per laltrui membra avviticchiò le sue.
Poi sappiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né lun né laltro già parea quel chera:
come procede innanzi da lardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e l bianco more.
Li altri due l riguardavano, e ciascuno
gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se né due né uno».
Già eran li due capi un divenuti,
quando napparver due figure miste
in una faccia, ov eran due perduti.
Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e l ventre e l casso
divenner membra che non fuor mai viste.
Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun limagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo.
Come l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa,
sì pareva, venendo verso lepe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe;
e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a lun di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso.
Lo trafitto l mirò, ma nulla disse;
anzi, co piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre lassalisse.
Elli l serpente e quei lui riguardava;
lun per la piaga e laltro per la bocca
fummavan forte, e l fummo si scontrava.
Taccia Lucano ormai là dov e tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel chor si scocca.
Taccia di Cadmo e dAretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo nvidio;
ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì chamendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte.
Insieme si rispuosero a tai norme,
che l serpente la coda in forca fesse,
e l feruto ristrinse insieme lorme.
Le gambe con le cosce seco stesse
sappiccar sì, che n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse.
Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura.
Io vidi intrar le braccia per lascelle,
e i due piè de la fiera, cheran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle.
Poscia li piè di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che luom cela,
e l misero del suo navea due porti.
Mentre che l fummo luno e laltro vela
di color novo, e genera l pel suso
per luna parte e da laltra il dipela,
lun si levò e laltro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso.
Quel chera dritto, il trasse ver le tempie,
e di troppa matera chin là venne
uscir li orecchi de le gote scempie;
ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
e le labbra ingrossò quanto convenne.
Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia;
e la lingua, chavëa unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne laltro si richiude; e l fummo resta.
Lanima chera fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e laltro dietro a lui parlando sputa.
Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a laltro: «I vo che Buoso corra,
com ho fatt io, carpon per questo calle».
Così vid io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra.
E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e lanimo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi,
chi non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato;
laltr era quel che tu, Gaville, piagni.
Inferno · Canto XXVI
Godi, Fiorenza, poi che se sì grande
che per mare e per terra batti lali,
e per lo nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non chaltri, tagogna.
E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com più mattempo.
Noi ci partimmo, e su per le scalee
che navea fatto iborni a scender pria,
rimontò l duca mio e trasse mee;
e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò chio vidi,
e più lo ngegno affreno chi non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
mha dato l ben, chio stessi nol minvidi.
Quante l villan chal poggio si riposa,
nel tempo che colui che l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov e vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea
lottava bolgia, sì com io maccorsi
tosto che fui là ve l fondo parea.
E qual colui che si vengiò con li orsi
vide l carro dElia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea sì con li occhi seguire,
chel vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.
Io stava sovra l ponte a veder surto,
sì che sio non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz esser urto.
E l duca che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel chelli è inceso».
«Maestro mio», rispuos io, «per udirti
son io più certo; ma già mera avviso
che così fosse, e già voleva dirti:
chi è n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov Eteòcle col fratel fu miso?».
Rispuose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a lira;
e dentro da la lor fiamma si geme
lagguato del caval che fé la porta
onde uscì de Romani il gentil seme.
Piangevisi entro larte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol dAchille,
e del Palladio pena vi si porta».
«Sei posson dentro da quelle faville
parlar», diss io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che l priego vaglia mille,
che non mi facci de lattender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver lei mi piego!».
Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però laccetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, chi ho concetto
ciò che tu vuoi; chei sarebbero schivi,
perch e fuor greci, forse del tuo detto».
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
«O voi che siete due dentro ad un foco,
sio meritai di voi mentre chio vissi,
sio meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma lun di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando
mi diparti da Circe, che sottrasse
me più dun anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me lardore
chi ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per lalto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
Lun lito e laltro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e lisola di Sardi,
e laltre che quel mare intorno bagna.
Io e compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che luom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da laltra già mavea lasciata Setta.
“O frati”, dissi “che per cento milia
perigli siete giunti a loccidente,
a questa tanto picciola vigilia
di nostri sensi chè del rimanente
non vogliate negar lesperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
Li miei compagni fec io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de laltro polo
vedea la notte, e l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ntrati eravam ne lalto passo,
quando napparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte lacque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com altrui piacque,
infin che l mar fu sovra noi richiuso».
Inferno · Canto XXVII
Già era dritta in sù la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta,
quand unaltra, che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor nuscia.
Come l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che lavea temperato con sua lima,
mugghiava con la voce de lafflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto;
così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertïan le parole grame.
Ma poscia chebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,
udimmo dire: «O tu a cu io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo “Istra ten va, più non tadizzo”,
perch io sia giunto forse alquanto tardo,
non tincresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo!
Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se di quella dolce terra
latina ond io mia colpa tutta reco,
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
chio fui di monti là intra Orbino
e l giogo di che Tever si diserra».
Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: «Parla tu; questi è latino».
E io, chavea già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
«O anima che se là giù nascosta,
Romagna tua non è, e non fu mai,
sanza guerra ne cuor de suoi tiranni;
ma n palese nessuna or vi lasciai.
Ravenna sta come stata è molt anni:
laguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co suoi vanni.
La terra che fé già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.
E l mastin vecchio e l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan di denti succhio.
Le città di Lamone e di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.
E quella cu il Savio bagna il fianco,
così com ella sie tra l piano e l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.
Ora chi se, ti priego che ne conte;
non esser duro più chaltri sia stato,
se l nome tuo nel mondo tegna fronte».
Poscia che l foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, laguta punta mosse
di qua, di là, e poi diè cotal fiato:
«Si credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse;
ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, si odo il vero,
sanza tema dinfamia ti rispondo.
Io fui uom darme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venìa intero,
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le prime colpe;
e come e quare, voglio che mintenda.
Mentre chio forma fui dossa e di polpe
che la madre mi diè, lopere mie
non furon leonine, ma di volpe.
Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
chal fine de la terra il suono uscie.
Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,
ciò che pria mi piacëa, allor mincrebbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.
Lo principe di novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin né con Giudei,
ché ciascun suo nimico era cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
né mercatante in terra di Soldano,
né sommo officio né ordini sacri
guardò in sé, né in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti più macri.
Ma come Costantin chiese Silvestro
dentro Siratti a guerir de la lebbre,
così mi chiese questi per maestro
a guerir de la sua superba febbre;
domandommi consiglio, e io tacetti
perché le sue parole parver ebbre.
E poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti;
finor tassolvo, e tu minsegna fare
sì come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss io serrare e diserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
che l mio antecessor non ebbe care”.
Allor mi pinser li argomenti gravi
ve l tacer mi fu avviso l peggio,
e dissi: “Padre, da che tu mi lavi
di quel peccato ov io mo cader deggio,
lunga promessa con lattender corto
ti farà trïunfar ne lalto seggio”.
Francesco venne poi, com io fu morto,
per me; ma un di neri cherubini
li disse: “Non portar: non mi far torto.
Venir se ne dee giù tra miei meschini
perché diede l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a crini;
chassolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente”.
Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: “Forse
tu non pensavi chio löico fossi!”.
A Minòs mi portò; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,
disse: “Questi è di rei del foco furo”;
per chio là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro».
Quand elli ebbe l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo l corno aguto.
Noi passamm oltre, e io e l duca mio,
su per lo scoglio infino in su laltr arco
che cuopre l fosso in che si paga il fio
a quei che scommettendo acquistan carco.
Inferno · Canto XXVIII
Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
chi ora vidi, per narrar più volte?
Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente
channo a tanto comprender poco seno.
Sel saunasse ancor tutta la gente
che già, in su la fortunata terra
di Puglia, fu del suo sangue dolente
per li Troiani e per la lunga guerra
che de lanella fé sì alte spoglie,
come Livïo scrive, che non erra,
con quella che sentio di colpi doglie
per contastare a Ruberto Guiscardo;
e laltra il cui ossame ancor saccoglie
a Ceperan, là dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
dove sanz arme vinse il vecchio Alardo;
e qual forato suo membro e qual mozzo
mostrasse, daequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo.
Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder mattacco,
guardommi e con le man saperse il petto,
dicendo: «Or vedi com io mi dilacco!
vedi come storpiato è Mäometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così.
Un diavolo è qua dietro che naccisma
sì crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma,
quand avem volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse
prima chaltri dinanzi li rivada.
Ma tu chi se che n su lo scoglio muse,
forse per indugiar dire a la pena
chè giudicata in su le tue accuse?».
«Né morte l giunse ancor, né colpa l mena»,
rispuose l mio maestro, «a tormentarlo;
ma per dar lui esperïenza piena,
a me, che morto son, convien menarlo
per lo nferno qua giù di giro in giro;
e quest è ver così com io ti parlo».
Più fuor di cento che, quando ludiro,
sarrestaron nel fosso a riguardarmi
per maraviglia, oblïando il martiro.
«Or dì a fra Dolcin dunque che sarmi,
tu che forse vedra il sole in breve,
sello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
chaltrimenti acquistar non saria leve».
Poi che lun piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.
Un altro, che forata avea la gola
e tronco l naso infin sotto le ciglia,
e non avea mai chuna orecchia sola,
ristato a riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,
chera di fuor dogne parte vermiglia,
e disse: «O tu cui colpa non condanna
e cu io vidi su in terra latina,
se troppa simiglianza non minganna,
rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina.
E fa saper a due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se lantiveder qui non è vano,
gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento dun tiranno fello.
Tra lisola di Cipri e di Maiolica
non vide mai sì gran fallo Nettuno,
non da pirate, non da gente argolica.
Quel traditor che vede pur con luno,
e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di vedere esser digiuno,
farà venirli a parlamento seco;
poi farà sì, chal vento di Focara
non sarà lor mestier voto né preco».
E io a lui: «Dimostrami e dichiara,
se vuo chi porti sù di te novella,
chi è colui da la veduta amara».
Allor puose la mano a la mascella
dun suo compagno e la bocca li aperse,
gridando: «Questi è desso, e non favella.
Questi, scacciato, il dubitar sommerse
in Cesare, affermando che l fornito
sempre con danno lattender sofferse».
Oh quanto mi pareva sbigottito
con la lingua tagliata ne la strozza
Curïo, cha dir fu così ardito!
E un chavea luna e laltra man mozza,
levando i moncherin per laura fosca,
sì che l sangue facea la faccia sozza,
gridò: «Ricorderati anche del Mosca,
che disse, lasso!, “Capo ha cosa fatta”,
che fu mal seme per la gente tosca».
E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»;
per chelli, accumulando duol con duolo,
sen gio come persona trista e matta.
Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa chio avrei paura,
sanza più prova, di contarla solo;
se non che coscïenza massicura,
la buona compagnia che luom francheggia
sotto lasbergo del sentirsi pura.
Io vidi certo, e ancor par chio l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia;
e l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».
Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com esser può, quei sa che sì governa.
Quando diritto al piè del ponte fue,
levò l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue,
che fuoro: «Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi salcuna è grande come questa.
E perché tu di me novella porti,
sappi chi son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma conforti.
Io feci il padre e l figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più dAbsalone
e di Davìd coi malvagi punzelli.
Perch io parti così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio chè in questo troncone.
Così sosserva in me lo contrapasso».
Inferno · Canto XXIX
La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie sì inebrïate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.
Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate?
perché la vista tua pur si soffolge
là giù tra lombre triste smozzicate?
Tu non hai fatto sì a laltre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge.
E già la luna è sotto i nostri piedi;
lo tempo è poco omai che nè concesso,
e altro è da veder che tu non vedi».
«Se tu avessi», rispuos io appresso,
«atteso a la cagion per chio guardava,
forse mavresti ancor lo star dimesso».
Parte sen giva, e io retro li andava,
lo duca, già faccendo la risposta,
e soggiugnendo: «Dentro a quella cava
dov io tenea or li occhi sì a posta,
credo chun spirto del mio sangue pianga
la colpa che là giù cotanto costa».
Allor disse l maestro: «Non si franga
lo tuo pensier da qui innanzi sovr ello.
Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;
chio vidi lui a piè del ponticello
mostrarti e minacciar forte col dito,
e udi l nominar Geri del Bello.
Tu eri allor sì del tutto impedito
sovra colui che già tenne Altaforte,
che non guardasti in là, sì fu partito».
«O duca mio, la vïolenta morte
che non li è vendicata ancor», diss io,
«per alcun che de lonta sia consorte,
fece lui disdegnoso; ond el sen gio
sanza parlarmi, sì com ïo estimo:
e in ciò mha el fatto a sé più pio».
Così parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio laltra valle mostra,
se più lume vi fosse, tutto ad imo.
Quando noi fummo sor lultima chiostra
di Malebolge, sì che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra,
lamenti saettaron me diversi,
che di pietà ferrati avean li strali;
ond io li orecchi con le man copersi.
Qual dolor fora, se de li spedali
di Valdichiana tra l luglio e l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali
fossero in una fossa tutti nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo nusciva
qual suol venir de le marcite membre.
Noi discendemmo in su lultima riva
del lungo scoglio, pur da man sinistra;
e allor fu la mia vista più viva
giù ver lo fondo, la ve la ministra
de lalto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra.
Non credo cha veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo,
quando fu laere sì pien di malizia,
che li animali, infino al picciol vermo,
cascaron tutti, e poi le genti antiche,
secondo che i poeti hanno per fermo,
si ristorar di seme di formiche;
chera a veder per quella oscura valle
languir li spirti per diverse biche.
Qual sovra l ventre e qual sovra le spalle
lun de laltro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle.
Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
che non potean levar le lor persone.
Io vidi due sedere a sé poggiati,
com a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
dal capo al piè di schianze macolati;
e non vidi già mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso,
né a colui che mal volontier vegghia,
come ciascun menava spesso il morso
de lunghie sopra sé per la gran rabbia
del pizzicor, che non ha più soccorso;
e sì traevan giù lunghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
o daltro pesce che più larghe labbia.
«O tu che con le dita ti dismaglie»,
cominciò l duca mio a lun di loro,
«e che fai desse talvolta tanaglie,
dinne salcun Latino è tra costoro
che son quinc entro, se lunghia ti basti
etternalmente a cotesto lavoro».
«Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
qui ambedue», rispuose lun piangendo;
«ma tu chi se che di noi dimandasti?».
E l duca disse: «I son un che discendo
con questo vivo giù di balzo in balzo,
e di mostrar lo nferno a lui intendo».
Allor si ruppe lo comun rincalzo;
e tremando ciascuno a me si volse
con altri che ludiron di rimbalzo.
Lo buon maestro a me tutto saccolse,
dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»;
e io incominciai, poscia chei volse:
«Se la vostra memoria non simboli
nel primo mondo da lumane menti,
ma sella viva sotto molti soli,
ditemi chi voi siete e di che genti;
la vostra sconcia e fastidiosa pena
di palesarvi a me non vi spaventi».
«Io fui dArezzo, e Albero da Siena»,
rispuose lun, «mi fé mettere al foco;
ma quel per chio mori qui non mi mena.
Vero è chi dissi lui, parlando a gioco:
“I mi saprei levar per laere a volo”;
e quei, chavea vaghezza e senno poco,
volle chi li mostrassi larte; e solo
perch io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che lavea per figliuolo.
Ma ne lultima bolgia de le diece
me per lalchìmia che nel mondo usai
dannò Minòs, a cui fallar non lece».
E io dissi al poeta: «Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?
Certo non la francesca sì dassai!».
Onde laltro lebbroso, che mintese,
rispuose al detto mio: «Tramene Stricca
che seppe far le temperate spese,
e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne lorto dove tal seme sappicca;
e trane la brigata in che disperse
Caccia dAscian la vigna e la gran fonda,
e lAbbagliato suo senno proferse.
Ma perché sappi chi sì ti seconda
contra i Sanesi, aguzza ver me locchio,
sì che la faccia mia ben ti risponda:
sì vedrai chio son lombra di Capocchio,
che falsai li metalli con lalchìmia;
e te dee ricordar, se ben tadocchio,
com io fui di natura buona scimia».
Inferno · Canto XXX
Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semelè contra l sangue tebano,
come mostrò una e altra fïata,
Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano,
gridò: «Tendiam le reti, sì chio pigli
la leonessa e leoncini al varco»;
e poi distese i dispietati artigli,
prendendo lun chavea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella sannegò con laltro carco.
E quando la fortuna volse in basso
laltezza de Troian che tutto ardiva,
sì che nsieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.
Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonché membra umane,
quant io vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che l porco quando del porcil si schiude.
Luna giunse a Capocchio, e in sul nodo
del collo lassannò, sì che, tirando,
grattar li fece il ventre al fondo sodo.
E lAretin che rimase, tremando
mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando».
«Oh», diss io lui, «se laltro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica
a dir chi è, pria che di qui si spicchi».
Ed elli a me: «Quell è lanima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica.
Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma,
come laltro che là sen va, sostenne,
per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in sé Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma».
E poi che i due rabbiosi fuor passati
sovra cu io avea locchio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati.
Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
pur chelli avesse avuta languinaia
tronca da laltro che luomo ha forcuto.
La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con lomor che mal converte,
che l viso non risponde a la ventraia,
faceva lui tener le labbra aperte
come letico fa, che per la sete
lun verso l mento e laltro in sù rinverte.
«O voi che sanz alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo»,
diss elli a noi, «guardate e attendete
a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel chi volli,
e ora, lasso!, un gocciol dacqua bramo.
Li ruscelletti che di verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché limagine lor vie più masciuga
che l male ond io nel volto mi discarno.
La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga.
Ivi è Romena, là dov io falsai
la lega suggellata del Batista;
per chio il corpo sù arso lasciai.
Ma sio vedessi qui lanima trista
di Guido o dAlessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista.
Dentro cè luna già, se larrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, cho le membra legate?
Sio fossi pur di tanto ancor leggero
chi potessi in cent anni andare unoncia,
io sarei messo già per lo sentiero,
cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto chella volge undici miglia,
e men dun mezzo di traverso non ci ha.
Io son per lor tra sì fatta famiglia;
e mindussero a batter li fiorini
chavevan tre carati di mondiglia».
E io a lui: «Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate l verno,
giacendo stretti a tuoi destri confini?».
«Qui li trovai—e poi volta non dierno—»,
rispuose, «quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno.
Luna è la falsa chaccusò Gioseppo;
laltr è l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
E lun di lor, che si recò a noia
forse desser nomato sì oscuro,
col pugno li percosse lepa croia.
Quella sonò come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,
dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto».
Ond ei rispuose: «Quando tu andavi
al fuoco, non lavei tu così presto;
ma sì e più lavei quando coniavi».
E lidropico: «Tu di ver di questo:
ma tu non fosti sì ver testimonio
ve del ver fosti a Troia richesto».
«Sio dissi falso, e tu falsasti il conio»,
disse Sinon; «e son qui per un fallo,
e tu per più chalcun altro demonio!».
«Ricorditi, spergiuro, del cavallo»,
rispuose quel chavëa infiata lepa;
«e sieti reo che tutto il mondo sallo!».
«E te sia rea la sete onde ti crepa»,
disse l Greco, «la lingua, e lacqua marcia
che l ventre innanzi a li occhi sì tassiepa!».
Allora il monetier: «Così si squarcia
la bocca tua per tuo mal come suole;
ché, si ho sete e omor mi rinfarcia,
tu hai larsura e l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
non vorresti a nvitar molte parole».
Ad ascoltarli er io del tutto fisso,
quando l maestro mi disse: «Or pur mira,
che per poco che teco non mi risso!».
Quand io l senti a me parlar con ira,
volsimi verso lui con tal vergogna,
chancor per la memoria mi si gira.
Qual è colui che suo dannaggio sogna,
che sognando desidera sognare,
sì che quel chè, come non fosse, agogna,
tal mi fec io, non possendo parlare,
che disïava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare.
«Maggior difetto men vergogna lava»,
disse l maestro, «che l tuo non è stato;
però dogne trestizia ti disgrava.
E fa ragion chio ti sia sempre allato,
se più avvien che fortuna taccoglia
dove sien genti in simigliante piato:
ché voler ciò udire è bassa voglia».
Inferno · Canto XXXI
Una medesma lingua pria mi morse,
sì che mi tinse luna e laltra guancia,
e poi la medicina mi riporse;
così od io che solea far la lancia
dAchille e del suo padre esser cagione
prima di trista e poi di buona mancia.
Noi demmo il dosso al misero vallone
su per la ripa che l cinge dintorno,
attraversando sanza alcun sermone.
Quiv era men che notte e men che giorno,
sì che l viso mandava innanzi poco;
ma io senti sonare un alto corno,
tanto chavrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra sé la sua via seguitando,
dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.
Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdé la santa gesta,
non sonò sì terribilmente Orlando.
Poco portäi in là volta la testa,
che me parve veder molte alte torri;
ond io: «Maestro, dì, che terra è questa?».
Ed elli a me: «Però che tu trascorri
per le tenebre troppo da la lungi,
avvien che poi nel maginare abborri.
Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
quanto l senso singanna di lontano;
però alquanto più te stesso pungi».
Poi caramente mi prese per mano
e disse: «Pria che noi siam più avanti,
acciò che l fatto men ti paia strano,
sappi che non son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa
da lumbilico in giuso tutti quanti».
Come quando la nebbia si dissipa,
lo sguardo a poco a poco raffigura
ciò che cela l vapor che laere stipa,
così forando laura grossa e scura,
più e più appressando ver la sponda,
fuggiemi errore e cresciemi paura;
però che, come su la cerchia tonda
Montereggion di torri si corona,
così la proda che l pozzo circonda
torreggiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tuona.
E io scorgeva già dalcun la faccia,
le spalle e l petto e del ventre gran parte,
e per le coste giù ambo le braccia.
Natura certo, quando lasciò larte
di sì fatti animali, assai fé bene
per tòrre tali essecutori a Marte.
E sella delefanti e di balene
non si pente, chi guarda sottilmente,
più giusta e più discreta la ne tene;
ché dove largomento de la mente
saggiugne al mal volere e a la possa,
nessun riparo vi può far la gente.
La faccia sua mi parea lunga e grossa
come la pina di San Pietro a Roma,
e a sua proporzione eran laltre ossa;
sì che la ripa, chera perizoma
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto
di sovra, che di giugnere a la chioma
tre Frison saverien dato mal vanto;
però chi ne vedea trenta gran palmi
dal loco in giù dov omo affibbia l manto.
«Raphèl maì amècche zabì almi»,
cominciò a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia più dolci salmi.
E l duca mio ver lui: «Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand ira o altra passïon ti tocca!
Cércati al collo, e troverai la soga
che l tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che l gran petto ti doga».
Poi disse a me: «Elli stessi saccusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non susa.
Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
ché così è a lui ciascun linguaggio
come l suo ad altrui, cha nullo è noto».
Facemmo adunque più lungo vïaggio,
vòlti a sinistra; e al trar dun balestro
trovammo laltro assai più fero e maggio.
A cigner lui qual che fosse l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi laltro e dietro il braccio destro
duna catena che l tenea avvinto
dal collo in giù, sì che n su lo scoperto
si ravvolgëa infino al giro quinto.
«Questo superbo volle esser esperto
di sua potenza contra l sommo Giove»,
disse l mio duca, «ond elli ha cotal merto.
Fïalte ha nome, e fece le gran prove
quando i giganti fer paura a dèi;
le braccia chel menò, già mai non move».
E io a lui: «Sesser puote, io vorrei
che de lo smisurato Brïareo
esperïenza avesser li occhi mei».
Ond ei rispuose: «Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla ed è disciolto,
che ne porrà nel fondo dogne reo.
Quel che tu vuo veder, più là è molto
ed è legato e fatto come questo,
salvo che più feroce par nel volto».
Non fu tremoto già tanto rubesto,
che scotesse una torre così forte,
come Fïalte a scuotersi fu presto.
Allor temett io più che mai la morte,
e non vera mestier più che la dotta,
sio non avessi viste le ritorte.
Noi procedemmo più avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,
sanza la testa, uscia fuor de la grotta.
«O tu che ne la fortunata valle
che fece Scipïon di gloria reda,
quand Anibàl co suoi diede le spalle,
recasti già mille leon per preda,
e che, se fossi stato a lalta guerra
de tuoi fratelli, ancor par che si creda
chavrebber vinto i figli de la terra:
mettine giù, e non ten vegna schifo,
dove Cocito la freddura serra.
Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama;
però ti china e non torcer lo grifo.
Ancor ti può nel mondo render fama,
chel vive, e lunga vita ancor aspetta
se nnanzi tempo grazia a sé nol chiama».
Così disse l maestro; e quelli in fretta
le man distese, e prese l duca mio,
ond Ercule sentì già grande stretta.
Virgilio, quando prender si sentio,
disse a me: «Fatti qua, sì chio ti prenda»;
poi fece sì chun fascio era elli e io.
Qual pare a riguardar la Carisenda
sotto l chinato, quando un nuvol vada
sovr essa sì, ched ella incontro penda:
tal parve Antëo a me che stava a bada
di vederlo chinare, e fu tal ora
chi avrei voluto ir per altra strada.
Ma lievemente al fondo che divora
Lucifero con Giuda, ci sposò;
né, sì chinato, lì fece dimora,
e come albero in nave si levò.
Inferno · Canto XXXII
Sïo avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra l qual pontan tutte laltre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch io non labbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto luniverso,
né da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne aiutino il mio verso
chaiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.
Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe!
Come noi fummo giù nel pozzo scuro
sotto i piè del gigante assai più bassi,
e io mirava ancora a lalto muro,
dicere udimi: «Guarda come passi:
va sì, che tu non calchi con le piante
le teste de fratei miseri lassi».
Per chio mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non dacqua sembiante.
Non fece al corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
né Tanaï là sotto l freddo cielo,
com era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
non avria pur da lorlo fatto cricchi.
E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de lacqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana,
livide, insin là dove appar vergogna
eran lombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.
Ognuna in giù tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.
Quand io mebbi dintorno alquanto visto,
volsimi a piedi, e vidi due sì stretti,
che l pel del capo avieno insieme misto.
«Ditemi, voi che sì strignete i petti»,
diss io, «chi siete?». E quei piegaro i colli;
e poi chebber li visi a me eretti,
li occhi lor, cheran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e l gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli.
Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond ei come due becchi
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
E un chavea perduti ambo li orecchi
per la freddura, pur col viso in giùe,
disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?
Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.
Dun corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
degna più desser fitta in gelatina:
non quelli a cui fu rotto il petto e lombra
con esso un colpo per la man dArtù;
non Focaccia; non questi che mingombra
col capo sì, chi non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
se tosco se, ben sai omai chi fu.
E perché non mi metti in più sermoni,
sappi chi fu il Camiscion de Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scagioni».
Poscia vid io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
e verrà sempre, de gelati guazzi.
E mentre chandavamo inver lo mezzo
al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne letterno rezzo;
se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi l piè nel viso ad una.
Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?».
E io: «Maestro mio, or qui maspetta,
sì chio esca dun dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».
Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
«Qual se tu che così rampogni altrui?».
«Or tu chi se che vai per lAntenora,
percotendo», rispuose, «altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?».
«Vivo son io, e caro esser ti puote»,
fu mia risposta, «se dimandi fama,
chio metta il nome tuo tra laltre note».
Ed elli a me: «Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
ché mal sai lusingar per questa lama!».
Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: «El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna».
Ond elli a me: «Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò chio sia, né mosterrolti,
se mille fiate in sul capo mi tomi».
Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratti glien avea più duna ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti,
quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?».
«Omai», diss io, «non vo che più favelle,
malvagio traditor; cha la tua onta
io porterò di te vere novelle».
«Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel chebbe or così la lingua pronta.
El piange qui largento de Franceschi:
“Io vidi”, potrai dir, “quel da Duera
là dove i peccatori stanno freschi”.
Se fossi domandato “Altri chi vera?”,
tu hai dallato quel di Beccheria
di cui segò Fiorenza la gorgiera.
Gianni de Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,
chaprì Faenza quando si dormia».
Noi eravam partiti già da ello,
chio vidi due ghiacciati in una buca,
sì che lun capo a laltro era cappello;
e come l pan per fame si manduca,
così l sovran li denti a laltro pose
ve l cervel saggiugne con la nuca:
non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e laltre cose.
«O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi l perché», diss io, «per tal convegno,
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con chio parlo non si secca».
Inferno · Canto XXXIII
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a capelli
del capo chelli avea di retro guasto.
Poi cominciò: «Tu vuo chio rinovelli
disperato dolor che l cor mi preme
già pur pensando, pria chio ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor chi rodo,
parlar e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu se né per che modo
venuto se qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand io todo.
Tu dei saper chi fui conte Ugolino,
e questi è larcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
Che per leffetto de suo mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai se mha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha l titol de la fame,
e che conviene ancor chaltrui si chiuda,
mavea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand io feci l mal sonno
che del futuro mi squarciò l velame.
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
savea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e figli, e con lagute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti fra l sonno i miei figliuoli
cheran con meco, e dimandar del pane.
Ben se crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che l mio cor sannunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e lora sappressava
che l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti chiavar luscio di sotto
a lorribile torre; ond io guardai
nel viso a mie figliuoi sanza far motto.
Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”.
Perciò non lagrimai né rispuos io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che laltro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando chio l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi
e disser: “Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia”.
Quetami allor per non farli più tristi;
lo dì e laltro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non tapristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a piedi,
dicendo: “Padre mio, ché non maiuti?”.
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid io cascar li tre ad uno ad uno
tra l quinto dì e l sesto; ond io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che l dolor, poté l digiuno».
Quand ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese l teschio misero co denti,
che furo a losso, come dun can, forti.
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì chelli annieghi in te ogne persona!
Che se l conte Ugolino aveva voce
daver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea letà novella,
novella Tebe, Uguiccione e l Brigata
e li altri due che l canto suso appella.
Noi passammo oltre, là ve la gelata
ruvidamente unaltra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer lambascia;
ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
rïempion sotto l ciglio tutto il coppo.
E avvegna che, sì come dun callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo,
già mi parea sentire alquanto vento;
per chio: «Maestro mio, questo chi move?
non è qua giù ogne vapore spento?».
Ond elli a me: «Avaccio sarai dove
di ciò ti farà locchio la risposta,
veggendo la cagion che l fiato piove».
E un de tristi de la fredda crosta
gridò a noi: «O anime crudeli
tanto che data vè lultima posta,
levatemi dal viso i duri veli,
sì chïo sfoghi l duol che l cor mimpregna,
un poco, pria che l pianto si raggeli».
Per chio a lui: «Se vuo chi ti sovvegna,
dimmi chi se, e sio non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».
Rispuose adunque: «I son frate Alberigo;
i son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo».
«Oh», diss io lui, «or se tu ancor morto?».
Ed elli a me: «Come l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scïenza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte lanima ci cade
innanzi chAtropòs mossa le dea.
E perché tu più volentier mi rade
le nvetrïate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che lanima trade
come fec ïo, il corpo suo lè tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che l tempo suo tutto sia vòlto.
Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de lombra che di qua dietro mi verna.
Tu l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati chel fu sì racchiuso».
«Io credo», diss io lui, «che tu minganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni».
«Nel fosso sù», diss el, «de Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancora giunto Michel Zanche,
che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che l tradimento insieme con lui fece.
Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi». E io non gliel apersi;
e cortesia fu lui esser villano.
Ahi Genovesi, uomini diversi
dogne costume e pien dogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?
Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.
Inferno · Canto XXXIV
«Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira»,
disse l maestro mio, «se tu l discerni».
Come quando una grossa nebbia spira,
o quando lemisperio nostro annotta,
par di lungi un molin che l vento gira,
veder mi parve un tal dificio allotta;
poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio, ché non lì era altra grotta.
Già era, e con paura il metto in metro,
là dove lombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro.
Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com arco, il volto a piè rinverte.
Quando noi fummo fatti tanto avante,
chal mio maestro piacque di mostrarmi
la creatura chebbe il bel sembiante,
dinnanzi mi si tolse e fé restarmi,
«Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco
ove convien che di fortezza tarmi».
Com io divenni allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, chi non lo scrivo,
però chogne parlar sarebbe poco.
Io non mori e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, shai fior dingegno,
qual io divenni, duno e daltro privo.
Lo mperador del doloroso regno
da mezzo l petto uscia fuor de la ghiaccia;
e più con un gigante io mi convegno,
che i giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant esser dee quel tutto
cha così fatta parte si confaccia.
Sel fu sì bel com elli è ora brutto,
e contra l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogne lutto.
Oh quanto parve a me gran maraviglia
quand io vidi tre facce a la sua testa!
Luna dinanzi, e quella era vermiglia;
laltr eran due, che saggiugnieno a questa
sovresso l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta:
e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde l Nilo savvalla.
Sotto ciascuna uscivan due grand ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid io mai cotali.
Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello:
quindi Cocito tutto saggelava.
Con sei occhi piangëa, e per tre menti
gocciava l pianto e sanguinosa bava.
Da ogne bocca dirompea co denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso l graffiar, che talvolta la schiena
rimanea de la pelle tutta brulla.
«Quell anima là sù cha maggior pena»,
disse l maestro, «è Giuda Scarïotto,
che l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
De li altri due channo il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!;
e laltro è Cassio, che par sì membruto.
Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto».
Com a lui piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e loco poste,
e quando lali fuoro aperte assai,
appigliò sé a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia
tra l folto pelo e le gelate croste.
Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de lanche,
lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa ov elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com om che sale,
sì che n inferno i credea tornar anche.
«Attienti ben, ché per cotali scale»,
disse l maestro, ansando com uom lasso,
«conviensi dipartir da tanto male».
Poi uscì fuor per lo fóro dun sasso
e puose me in su lorlo a sedere;
appresso porse a me laccorto passo.
Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero com io lavea lasciato,
e vidili le gambe in sù tenere;
e sio divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede
qual è quel punto chio avea passato.
«Lèvati sù», disse l maestro, «in piede:
la via è lunga e l cammino è malvagio,
e già il sole a mezza terza riede».
Non era camminata di palagio
v eravam, ma natural burella
chavea mal suolo e di lume disagio.
«Prima chio de labisso mi divella,
maestro mio», diss io quando fui dritto,
«a trarmi derro un poco mi favella:
ov è la ghiaccia? e questi com è fitto
sì sottosopra? e come, in sì poc ora,
da sera a mane ha fatto il sol tragitto?».
Ed elli a me: «Tu imagini ancora
desser di là dal centro, ov io mi presi
al pel del vermo reo che l mondo fóra.
Di là fosti cotanto quant io scesi;
quand io mi volsi, tu passasti l punto
al qual si traggon dogne parte i pesi.
E se or sotto lemisperio giunto
chè contraposto a quel che la gran secca
coverchia, e sotto l cui colmo consunto
fu luom che nacque e visse sanza pecca;
tu haï i piedi in su picciola spera
che laltra faccia fa de la Giudecca.
Qui è da man, quando di là è sera;
e questi, che ne fé scala col pelo,
fitto è ancora sì come prim era.
Da questa parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fé del mar velo,
e venne a lemisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui loco vòto
quella chappar di qua, e sù ricorse».
Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto
dun ruscelletto che quivi discende
per la buca dun sasso, chelli ha roso,
col corso chelli avvolge, e poco pende.
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver dalcun riposo,
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto chi vidi de le cose belle
che porta l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
PURGATORIO
Purgatorio · Canto I
Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regno
dove lumano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.
Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calïopè alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.
Dolce color dorïental zaffiro,
che saccoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricominciò diletto,
tosto chio usci fuor de laura morta
che mavea contristati li occhi e l petto.
Lo bel pianeto che damar conforta
faceva tutto rider lorïente,
velando i Pesci cherano in sua scorta.
I mi volsi a man destra, e puosi mente
a laltro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor cha la prima gente.
Goder pareva l ciel di lor fiammelle:
oh settentrïonal vedovo sito,
poi che privato se di mirar quelle!
Com io da loro sguardo fui partito,
un poco me volgendo a l altro polo,
là onde l Carro già era sparito,
vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a suoi capelli simigliante,
de quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
chi l vedea come l sol fosse davante.
«Chi siete voi che contro al cieco fiume
fuggita avete la pregione etterna?»,
diss el, movendo quelle oneste piume.
«Chi vha guidati, o che vi fu lucerna,
uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna?
Son le leggi dabisso così rotte?
o è mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte?».
Lo duca mio allor mi diè di piglio,
e con parole e con mani e con cenni
reverenti mi fé le gambe e l ciglio.
Poscia rispuose lui: «Da me non venni:
donna scese del ciel, per li cui prieghi
de la mia compagnia costui sovvenni.
Ma da chè tuo voler che più si spieghi
di nostra condizion com ell è vera,
esser non puote il mio che a te si nieghi.
Questi non vide mai lultima sera;
ma per la sua follia le fu sì presso,
che molto poco tempo a volger era.
Sì com io dissi, fui mandato ad esso
per lui campare; e non lì era altra via
che questa per la quale i mi son messo.
Mostrata ho lui tutta la gente ria;
e ora intendo mostrar quelli spirti
che purgan sé sotto la tua balìa.
Com io lho tratto, saria lungo a dirti;
de lalto scende virtù che maiuta
conducerlo a vederti e a udirti.
Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertà va cercando, chè sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta chal gran dì sarà sì chiara.
Non son li editti etterni per noi guasti,
ché questi vive e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega.
Lasciane andar per li tuoi sette regni;
grazie riporterò di te a lei,
se desser mentovato là giù degni».
«Marzïa piacque tanto a li occhi miei
mentre chi fu di là», diss elli allora,
«che quante grazie volse da me, fei.
Or che di là dal mal fiume dimora,
più muover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me nusci fora.
Ma se donna del ciel ti move e regge,
come tu di, non cè mestier lusinghe:
bastisi ben che per lei mi richegge.
Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
dun giunco schietto e che li lavi l viso,
sì chogne sucidume quindi stinghe;
ché non si converria, locchio sorpriso
dalcuna nebbia, andar dinanzi al primo
ministro, chè di quei di paradiso.
Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
là giù colà dove la batte londa,
porta di giunchi sovra l molle limo:
null altra pianta che facesse fronda
o indurasse, vi puote aver vita,
però cha le percosse non seconda.
Poscia non sia di qua vostra reddita;
lo sol vi mosterrà, che surge omai,
prendere il monte a più lieve salita».
Così sparì; e io sù mi levai
sanza parlare, e tutto mi ritrassi
al duca mio, e li occhi a lui drizzai.
El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi:
volgianci in dietro, ché di qua dichina
questa pianura a suoi termini bassi».
Lalba vinceva lora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.
Noi andavam per lo solingo piano
com om che torna a la perduta strada,
che nfino ad essa li pare ire in vano.
Quando noi fummo là ve la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in su lerbetta sparte
soavemente l mio maestro pose:
ond io, che fui accorto di sua arte,
porsi ver lui le guance lagrimose;
ivi mi fece tutto discoverto
quel color che linferno mi nascose.
Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.
Quivi mi cinse sì com altrui piacque:
oh maraviglia! ché qual elli scelse
lumile pianta, cotal si rinacque
subitamente là onde lavelse.
Purgatorio · Canto II
Già era l sole a lorizzonte giunto
lo cui meridïan cerchio coverchia
Ierusalèm col suo più alto punto;
e la notte, che opposita a lui cerchia,
uscia di Gange fuor con le Bilance,
che le caggion di man quando soverchia;
sì che le bianche e le vermiglie guance,
là dov i era, de la bella Aurora
per troppa etate divenivan rance.
Noi eravam lunghesso mare ancora,
come gente che pensa a suo cammino,
che va col cuore e col corpo dimora.
Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra l suol marino,
cotal mapparve, sio ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che l muover suo nessun volar pareggia.
Dal qual com io un poco ebbi ritratto
locchio per domandar lo duca mio,
rividil più lucente e maggior fatto.
Poi dogne lato ad esso mappario
un non sapeva che bianco, e di sotto
a poco a poco un altro a lui uscìo.
Lo mio maestro ancor non facea motto,
mentre che i primi bianchi apparver ali;
allor che ben conobbe il galeotto,
gridò: «Fa, fa che le ginocchia cali.
Ecco langel di Dio: piega le mani;
omai vedrai di sì fatti officiali.
Vedi che sdegna li argomenti umani,
sì che remo non vuol, né altro velo
che lali sue, tra liti sì lontani.
Vedi come lha dritte verso l cielo,
trattando laere con letterne penne,
che non si mutan come mortal pelo».
Poi, come più e più verso noi venne
luccel divino, più chiaro appariva:
per che locchio da presso nol sostenne,
ma chinail giuso; e quei sen venne a riva
con un vasello snelletto e leggero,
tanto che lacqua nulla ne nghiottiva.
Da poppa stava il celestial nocchiero,
tal che faria beato pur descripto;
e più di cento spirti entro sediero.
In exitu Isräel de Aegypto
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto.
Poi fece il segno lor di santa croce;
ond ei si gittar tutti in su la piaggia:
ed el sen gì, come venne, veloce.
La turba che rimase lì, selvaggia
parea del loco, rimirando intorno
come colui che nove cose assaggia.
Da tutte parti saettava il giorno
lo sol, chavea con le saette conte
di mezzo l ciel cacciato Capricorno,
quando la nova gente alzò la fronte
ver noi, dicendo a noi: «Se voi sapete,
mostratene la via di gire al monte».
E Virgilio rispuose: «Voi credete
forse che siamo esperti desto loco;
ma noi siam peregrin come voi siete.
Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco,
per altra via, che fu sì aspra e forte,
che lo salire omai ne parrà gioco».
Lanime, che si fuor di me accorte,
per lo spirare, chi era ancor vivo,
maravigliando diventaro smorte.
E come a messagger che porta ulivo
tragge la gente per udir novelle,
e di calcar nessun si mostra schivo,
così al viso mio saffisar quelle
anime fortunate tutte quante,
quasi oblïando dire a farsi belle.
Io vidi una di lor trarresi avante
per abbracciarmi con sì grande affetto,
che mosse me a far lo somigliante.
Ohi ombre vane, fuor che ne laspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Di maraviglia, credo, mi dipinsi;
per che lombra sorrise e si ritrasse,
e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.
Soavemente disse chio posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco sarrestasse.
Rispuosemi: «Così com io tamai
nel mortal corpo, così tamo sciolta:
però marresto; ma tu perché vai?».
«Casella mio, per tornar altra volta
là dov io son, fo io questo vïaggio»,
diss io; «ma a te com è tanta ora tolta?».
Ed elli a me: «Nessun mè fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace,
più volte mha negato esto passaggio;
ché di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace.
Ond io, chera ora a la marina vòlto
dove lacqua di Tevero sinsala,
benignamente fu da lui ricolto.
A quella foce ha elli or dritta lala,
però che sempre quivi si ricoglie
qual verso Acheronte non si cala».
E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a lamoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
lanima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!».
Amor che ne la mente mi ragiona
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e quella gente
cheran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.
Noi eravam tutti fissi e attenti
a le sue note; ed ecco il veglio onesto
gridando: «Che è ciò, spiriti lenti?
qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
chesser non lascia a voi Dio manifesto».
Come quando, cogliendo biado o loglio,
li colombi adunati a la pastura,
queti, sanza mostrar lusato orgoglio,
se cosa appare ond elli abbian paura,
subitamente lasciano star lesca,
perch assaliti son da maggior cura;
così vid io quella masnada fresca
lasciar lo canto, e fuggir ver la costa,
com om che va, né sa dove rïesca;
né la nostra partita fu men tosta.
Purgatorio · Canto III
Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga,
i mi ristrinsi a la fida compagna:
e come sare io sanza lui corso?
chi mavria tratto su per la montagna?
El mi parea da sé stesso rimorso:
o dignitosa coscïenza e netta,
come tè picciol fallo amaro morso!
Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
che lonestade ad ogn atto dismaga,
la mente mia, che prima era ristretta,
lo ntento rallargò, sì come vaga,
e diedi l viso mio incontr al poggio
che nverso l ciel più alto si dislaga.
Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,
rotto mera dinanzi a la figura,
chavëa in me de suoi raggi lappoggio.
Io mi volsi dallato con paura
dessere abbandonato, quand io vidi
solo dinanzi a me la terra oscura;
e l mio conforto: «Perché pur diffidi?»,
a dir mi cominciò tutto rivolto;
«non credi tu me teco e chio ti guidi?
Vespero è già colà dov è sepolto
lo corpo dentro al quale io facea ombra;
Napoli lha, e da Brandizio è tolto.
Ora, se innanzi a me nulla saombra,
non ti maravigliar più che di cieli
che luno a laltro raggio non ingombra.
A sofferir tormenti, caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol cha noi si sveli.
Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;
e disïar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
chetternalmente è dato lor per lutto:
io dico dAristotile e di Plato
e di molt altri»; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.
Noi divenimmo intanto a piè del monte;
quivi trovammo la roccia sì erta,
che ndarno vi sarien le gambe pronte.
Tra Lerice e Turbìa la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.
«Or chi sa da qual man la costa cala»,
disse l maestro mio fermando l passo,
«sì che possa salir chi va sanz ala?».
E mentre che tenendo l viso basso
essaminava del cammin la mente,
e io mirava suso intorno al sasso,
da man sinistra mapparì una gente
danime, che movieno i piè ver noi,
e non pareva, sì venïan lente.
«Leva», diss io, «maestro, li occhi tuoi:
ecco di qua chi ne darà consiglio,
se tu da te medesmo aver nol puoi».
Guardò allora, e con libero piglio
rispuose: «Andiamo in là, chei vegnon piano;
e tu ferma la spene, dolce figlio».
Ancora era quel popol di lontano,
i dico dopo i nostri mille passi,
quanto un buon gittator trarria con mano,
quando si strinser tutti ai duri massi
de lalta ripa, e stetter fermi e stretti
com a guardar, chi va dubbiando, stassi.
«O ben finiti, o già spiriti eletti»,
Virgilio incominciò, «per quella pace
chi credo che per voi tutti saspetti,
ditene dove la montagna giace,
sì che possibil sia landare in suso;
ché perder tempo a chi più sa più spiace».
Come le pecorelle escon del chiuso
a una, a due, a tre, e laltre stanno
timidette atterrando locchio e l muso;
e ciò che fa la prima, e laltre fanno,
addossandosi a lei, sella sarresta,
semplici e quete, e lo mperché non sanno;
sì vid io muovere a venir la testa
di quella mandra fortunata allotta,
pudica in faccia e ne landare onesta.
Come color dinanzi vider rotta
la luce in terra dal mio destro canto,
sì che lombra era da me a la grotta,
restaro, e trasser sé in dietro alquanto,
e tutti li altri che venieno appresso,
non sappiendo l perché, fenno altrettanto.
«Sanza vostra domanda io vi confesso
che questo è corpo uman che voi vedete;
per che l lume del sole in terra è fesso.
Non vi maravigliate, ma credete
che non sanza virtù che da ciel vegna
cerchi di soverchiar questa parete».
Così l maestro; e quella gente degna
«Tornate», disse, «intrate innanzi dunque»,
coi dossi de le man faccendo insegna.
E un di loro incominciò: «Chiunque
tu se, così andando, volgi l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque».
Io mi volsi ver lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma lun de cigli un colpo avea diviso.
Quand io mi fui umilmente disdetto
daverlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo l petto.
Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de lonor di Cicilia e dAragona,
e dichi l vero a lei, saltro si dice.
Poscia chio ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.
Se l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,
lossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo l Verde,
dov e le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, letterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.
Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor chal fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo chelli è stato, trenta,
in sua presunzïon, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come mhai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto savanza».
Purgatorio · Canto IV
Quando per dilettanze o ver per doglie,
che alcuna virtù nostra comprenda,
lanima bene ad essa si raccoglie,
par cha nulla potenza più intenda;
e questo è contra quello error che crede
chunanima sovr altra in noi saccenda.
E però, quando sode cosa o vede
che tegna forte a sé lanima volta,
vassene l tempo e luom non se navvede;
chaltra potenza è quella che lascolta,
e altra è quella cha lanima intera:
questa è quasi legata e quella è sciolta.
Di ciò ebb io esperïenza vera,
udendo quello spirto e ammirando;
ché ben cinquanta gradi salito era
lo sole, e io non mera accorto, quando
venimmo ove quell anime ad una
gridaro a noi: «Qui è vostro dimando».
Maggiore aperta molte volte impruna
con una forcatella di sue spine
luom de la villa quando luva imbruna,
che non era la calla onde salìne
lo duca mio, e io appresso, soli,
come da noi la schiera si partìne.
Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,
montasi su in Bismantova e n Cacume
con esso i piè; ma qui convien chom voli;
dico con lale snelle e con le piume
del gran disio, di retro a quel condotto
che speranza mi dava e facea lume.
Noi salavam per entro l sasso rotto,
e dogne lato ne stringea lo stremo,
e piedi e man volea il suol di sotto.
Poi che noi fummo in su lorlo suppremo
de lalta ripa, a la scoperta piaggia,
«Maestro mio», diss io, «che via faremo?».
Ed elli a me: «Nessun tuo passo caggia;
pur su al monte dietro a me acquista,
fin che nappaia alcuna scorta saggia».
Lo sommo er alto che vincea la vista,
e la costa superba più assai
che da mezzo quadrante a centro lista.
Io era lasso, quando cominciai:
«O dolce padre, volgiti, e rimira
com io rimango sol, se non restai».
«Figliuol mio», disse, «infin quivi ti tira»,
additandomi un balzo poco in sùe
che da quel lato il poggio tutto gira.
Sì mi spronaron le parole sue,
chi mi sforzai carpando appresso lui,
tanto che l cinghio sotto i piè mi fue.
A seder ci ponemmo ivi ambedui
vòlti a levante ond eravam saliti,
che suole a riguardar giovare altrui.
Li occhi prima drizzai ai bassi liti;
poscia li alzai al sole, e ammirava
che da sinistra neravam feriti.
Ben savvide il poeta chïo stava
stupido tutto al carro de la luce,
ove tra noi e Aquilone intrava.
Ond elli a me: «Se Castore e Poluce
fossero in compagnia di quello specchio
che sù e giù del suo lume conduce,
tu vedresti il Zodïaco rubecchio
ancora a lOrse più stretto rotare,
se non uscisse fuor del cammin vecchio.
Come ciò sia, se l vuoi poter pensare,
dentro raccolto, imagina Sïòn
con questo monte in su la terra stare
sì, chamendue hanno un solo orizzòn
e diversi emisperi; onde la strada
che mal non seppe carreggiar Fetòn,
vedrai come a costui convien che vada
da lun, quando a colui da laltro fianco,
se lo ntelletto tuo ben chiaro bada».
«Certo, maestro mio,» diss io, «unquanco
non vid io chiaro sì com io discerno
là dove mio ingegno parea manco,
che l mezzo cerchio del moto superno,
che si chiama Equatore in alcun arte,
e che sempre riman tra l sole e l verno,
per la ragion che di, quinci si parte
verso settentrïon, quanto li Ebrei
vedevan lui verso la calda parte.
Ma se a te piace, volontier saprei
quanto avemo ad andar; ché l poggio sale
più che salir non posson li occhi miei».
Ed elli a me: «Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant om più va sù, e men fa male.
Però, quand ella ti parrà soave
tanto, che sù andar ti fia leggero
com a seconda giù andar per nave,
allor sarai al fin desto sentiero;
quivi di riposar laffanno aspetta.
Più non rispondo, e questo so per vero».
E com elli ebbe sua parola detta,
una voce di presso sonò: «Forse
che di sedere in pria avrai distretta!».
Al suon di lei ciascun di noi si torse,
e vedemmo a mancina un gran petrone,
del qual né io né ei prima saccorse.
Là ci traemmo; e ivi eran persone
che si stavano a lombra dietro al sasso
come luom per negghienza a star si pone.
E un di lor, che mi sembiava lasso,
sedeva e abbracciava le ginocchia,
tenendo l viso giù tra esse basso.
«O dolce segnor mio», diss io, «adocchia
colui che mostra sé più negligente
che se pigrizia fosse sua serocchia».
Allor si volse a noi e puose mente,
movendo l viso pur su per la coscia,
e disse: «Or va tu sù, che se valente!».
Conobbi allor chi era, e quella angoscia
che mavacciava un poco ancor la lena,
non mimpedì landare a lui; e poscia
cha lui fu giunto, alzò la testa a pena,
dicendo: «Hai ben veduto come l sole
da lomero sinistro il carro mena?».
Li atti suoi pigri e le corte parole
mosser le labbra mie un poco a riso;
poi cominciai: «Belacqua, a me non dole
di te omai; ma dimmi: perché assiso
quiritto se? attendi tu iscorta,
o pur lo modo usato tha ripriso?».
Ed elli: «O frate, andar in sù che porta?
ché non mi lascerebbe ire a martìri
langel di Dio che siede in su la porta.
Prima convien che tanto il ciel maggiri
di fuor da essa, quanto fece in vita,
per chio ndugiai al fine i buon sospiri,
se orazïone in prima non maita
che surga sù di cuor che in grazia viva;
laltra che val, che n ciel non è udita?».
E già il poeta innanzi mi saliva,
e dicea: «Vienne omai; vedi chè tocco
meridïan dal sole e a la riva
cuopre la notte già col piè Morrocco».
Purgatorio · Canto V
Io era già da quell ombre partito,
e seguitava lorme del mio duca,
quando di retro a me, drizzando l dito,
una gridò: «Ve che non par che luca
lo raggio da sinistra a quel di sotto,
e come vivo par che si conduca!».
Li occhi rivolsi al suon di questo motto,
e vidile guardar per maraviglia
pur me, pur me, e l lume chera rotto.
«Perché lanimo tuo tanto simpiglia»,
disse l maestro, «che landare allenti?
che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti;
ché sempre lomo in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga lun de laltro insolla».
Che potea io ridir, se non «Io vegno»?
Dissilo, alquanto del color consperso
che fa luom di perdon talvolta degno.
E ntanto per la costa di traverso
venivan genti innanzi a noi un poco,
cantando Miserere a verso a verso.
Quando saccorser chi non dava loco
per lo mio corpo al trapassar di raggi,
mutar lor canto in un «oh!» lungo e roco;
e due di loro, in forma di messaggi,
corsero incontr a noi e dimandarne:
«Di vostra condizion fatene saggi».
E l mio maestro: «Voi potete andarne
e ritrarre a color che vi mandaro
che l corpo di costui è vera carne.
Se per veder la sua ombra restaro,
com io avviso, assai è lor risposto:
fàccianli onore, ed esser può lor caro».
Vapori accesi non vid io sì tosto
di prima notte mai fender sereno,
né, sol calando, nuvole dagosto,
che color non tornasser suso in meno;
e, giunti là, con li altri a noi dier volta,
come schiera che scorre sanza freno.
«Questa gente che preme a noi è molta,
e vegnonti a pregar», disse l poeta:
«però pur va, e in andando ascolta».
«O anima che vai per esser lieta
con quelle membra con le quai nascesti»,
venian gridando, «un poco il passo queta.
Guarda salcun di noi unqua vedesti,
sì che di lui di là novella porti:
deh, perché vai? deh, perché non tarresti?
Noi fummo tutti già per forza morti,
e peccatori infino a lultima ora;
quivi lume del ciel ne fece accorti,
sì che, pentendo e perdonando, fora
di vita uscimmo a Dio pacificati,
che del disio di sé veder naccora».
E io: «Perché ne vostri visi guati,
non riconosco alcun; ma sa voi piace
cosa chio possa, spiriti ben nati,
voi dite, e io farò per quella pace
che, dietro a piedi di sì fatta guida,
di mondo in mondo cercar mi si face».
E uno incominciò: «Ciascun si fida
del beneficio tuo sanza giurarlo,
pur che l voler nonpossa non ricida.
Ond io, che solo innanzi a li altri parlo,
ti priego, se mai vedi quel paese
che siede tra Romagna e quel di Carlo,
che tu mi sie di tuoi prieghi cortese
in Fano, sì che ben per me sadori
pur chi possa purgar le gravi offese.
Quindi fu io; ma li profondi fóri
ond uscì l sangue in sul quale io sedea,
fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,
là dov io più sicuro esser credea:
quel da Esti il fé far, che mavea in ira
assai più là che dritto non volea.
Ma sio fosse fuggito inver la Mira,
quando fu sovragiunto ad Orïaco,
ancor sarei di là dove si spira.
Corsi al palude, e le cannucce e l braco
mimpigliar sì chi caddi; e lì vid io
de le mie vene farsi in terra laco».
Poi disse un altro: «Deh, se quel disio
si compia che ti tragge a lalto monte,
con buona pïetate aiuta il mio!
Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per chio vo tra costor con bassa fronte».
E io a lui: «Qual forza o qual ventura
ti travïò sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?».
«Oh!», rispuos elli, «a piè del Casentino
traversa unacqua cha nome lArchiano,
che sovra lErmo nasce in Apennino.
ve l vocabol suo diventa vano,
arriva io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Io dirò vero, e tu l ridì tra vivi:
langel di Dio mi prese, e quel dinferno
gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di costui letterno
per una lagrimetta che l mi toglie;
ma io farò de laltro altro governo!”.
Ben sai come ne laere si raccoglie
quell umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove l freddo il coglie.
Giunse quel mal voler che pur mal chiede
con lo ntelletto, e mosse il fummo e l vento
per la virtù che sua natura diede.
Indi la valle, come l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e l ciel di sopra fece intento,
sì che l pregno aere in acqua si converse;
la pioggia cadde, e a fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse;
e come ai rivi grandi si convenne,
ver lo fiume real tanto veloce
si ruinò, che nulla la ritenne.
Lo corpo mio gelato in su la foce
trovò lArchian rubesto; e quel sospinse
ne lArno, e sciolse al mio petto la croce
chi fe di me quando l dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse».
«Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via»,
seguitò l terzo spirito al secondo,
«ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che nnanellata pria
disposando mavea con la sua gemma».
Purgatorio · Canto VI
Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;
con laltro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;
el non sarresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.
Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa.
Quiv era lAretin che da le braccia
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e laltro channegò correndo in caccia.
Quivi pregava con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fé parer lo buon Marzucco forte.
Vidi conte Orso e lanima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com e dicea, non per colpa commisa;
Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
mentr è di qua, la donna di Brabante,
sì che però non sia di peggior greggia.
Come libero fui da tutte quante
quell ombre che pregar pur chaltri prieghi,
sì che savacci lor divenir sante,
io cominciai: «El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;
e questa gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non mè l detto tuo ben manifesto?».
Ed elli a me: «La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;
ché cima di giudicio non savvalla
perché foco damor compia in un punto
ciò che de sodisfar chi qui sastalla;
e là dov io fermai cotesto punto,
non sammendava, per pregar, difetto,
perché l priego da Dio era disgiunto.
Veramente a così alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra l vero e lo ntelletto.
Non so se ntendi: io dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice».
E io: «Segnore, andiamo a maggior fretta,
ché già non maffatico come dianzi,
e vedi omai che l poggio lombra getta».
«Noi anderem con questo giorno innanzi»,
rispuose, «quanto più potremo omai;
ma l fatto è daltra forma che non stanzi.
Prima che sie là sù, tornar vedrai
colui che già si cuopre de la costa,
sì che suoi raggi tu romper non fai.
Ma vedi là unanima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne nsegnerà la via più tosta».
Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!
Ella non ci dicëa alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,
ma di nostro paese e de la vita
ci nchiese; e l dolce duca incominciava
«Mantüa . . . », e lombra, tutta in sé romita,
surse ver lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!»; e lun laltro abbracciava.
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
Quell anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e lun laltro si rode
di quei chun muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
salcuna parte in te di pace gode.
Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.
O Alberto tedesco chabbandoni
costei chè fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che l tuo successor temenza naggia!
Chavete tu e l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che l giardin de lo mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
di tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com è oscura!
Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non maccompagne?».
Vieni a veder la gente quanto sama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito mè, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne labisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de laccorger nostro scisso?
Ché le città dItalia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a larco;
ma il popol tuo lha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I mi sobbarco!».
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
Sio dico l ver, leffetto nol nasconde.
Atene e Lacedemona, che fenno
lantiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, cha mezzo novembre
non giugne quel che tu dottobre fili.
Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!
E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.
Purgatorio · Canto VII
Poscia che laccoglienze oneste e liete
furo iterate tre e quattro volte,
Sordel si trasse, e disse: «Voi, chi siete?».
«Anzi che a questo monte fosser volte
lanime degne di salire a Dio,
fur lossa mie per Ottavian sepolte.
Io son Virgilio; e per null altro rio
lo ciel perdei che per non aver fé».
Così rispuose allora il duca mio.
Qual è colui che cosa innanzi sé
sùbita vede ond e si maraviglia,
che crede e non, dicendo «Ella è . . . non è . . . »,
tal parve quelli; e poi chinò le ciglia,
e umilmente ritornò ver lui,
e abbracciòl là ve l minor sappiglia.
«O gloria di Latin», disse, «per cui
mostrò ciò che potea la lingua nostra,
o pregio etterno del loco ond io fui,
qual merito o qual grazia mi ti mostra?
Sio son dudir le tue parole degno,
dimmi se vien dinferno, e di qual chiostra».
«Per tutt i cerchi del dolente regno»,
rispuose lui, «son io di qua venuto;
virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno.
Non per far, ma per non fare ho perduto
a veder lalto Sol che tu disiri
e che fu tardi per me conosciuto.
Luogo è là giù non tristo di martìri,
ma di tenebre solo, ove i lamenti
non suonan come guai, ma son sospiri.
Quivi sto io coi pargoli innocenti
dai denti morsi de la morte avante
che fosser da lumana colpa essenti;
quivi sto io con quei che le tre sante
virtù non si vestiro, e sanza vizio
conobber laltre e seguir tutte quante.
Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio
dà noi per che venir possiam più tosto
là dove purgatorio ha dritto inizio».
Rispuose: «Loco certo non cè posto;
licito mè andar suso e intorno;
per quanto ir posso, a guida mi taccosto.
Ma vedi già come dichina il giorno,
e andar sù di notte non si puote;
però è buon pensar di bel soggiorno.
Anime sono a destra qua remote;
se mi consenti, io ti merrò ad esse,
e non sanza diletto ti fier note».
«Com è ciò?», fu risposto. «Chi volesse
salir di notte, fora elli impedito
daltrui, o non sarria ché non potesse?».
E l buon Sordello in terra fregò l dito,
dicendo: «Vedi? sola questa riga
non varcheresti dopo l sol partito:
non però chaltra cosa desse briga,
che la notturna tenebra, ad ir suso;
quella col nonpoder la voglia intriga.
Ben si poria con lei tornare in giuso
e passeggiar la costa intorno errando,
mentre che lorizzonte il dì tien chiuso».
Allora il mio segnor, quasi ammirando,
«Menane», disse, «dunque là ve dici
chaver si può diletto dimorando».
Poco allungati ceravam di lici,
quand io maccorsi che l monte era scemo,
a guisa che i vallon li sceman quici.
«Colà», disse quell ombra, «nanderemo
dove la costa face di sé grembo;
e là il novo giorno attenderemo».
Tra erto e piano era un sentiero schembo,
che ne condusse in fianco de la lacca,
là dove più cha mezzo muore il lembo.
Oro e argento fine, cocco e biacca,
indaco, legno lucido e sereno,
fresco smeraldo in lora che si fiacca,
da lerba e da li fior, dentr a quel seno
posti, ciascun saria di color vinto,
come dal suo maggiore è vinto il meno.
Non avea pur natura ivi dipinto,
ma di soavità di mille odori
vi facea uno incognito e indistinto.
Salve, Regina in sul verde e n su fiori
quindi seder cantando anime vidi,
che per la valle non parean di fuori.
«Prima che l poco sole omai sannidi»,
cominciò l Mantoan che ci avea vòlti,
«tra color non vogliate chio vi guidi.
Di questo balzo meglio li atti e volti
conoscerete voi di tutti quanti,
che ne la lama giù tra essi accolti.
Colui che più siede alto e fa sembianti
daver negletto ciò che far dovea,
e che non move bocca a li altrui canti,
Rodolfo imperador fu, che potea
sanar le piaghe channo Italia morta,
sì che tardi per altri si ricrea.
Laltro che ne la vista lui conforta,
resse la terra dove lacqua nasce
che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta:
Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce
fu meglio assai che Vincislao suo figlio
barbuto, cui lussuria e ozio pasce.
E quel nasetto che stretto a consiglio
par con colui cha sì benigno aspetto,
morì fuggendo e disfiorando il giglio:
guardate là come si batte il petto!
Laltro vedete cha fatto a la guancia
de la sua palma, sospirando, letto.
Padre e suocero son del mal di Francia:
sanno la vita sua viziata e lorda,
e quindi viene il duol che sì li lancia.
Quel che par sì membruto e che saccorda,
cantando, con colui dal maschio naso,
dogne valor portò cinta la corda;
e se re dopo lui fosse rimaso
lo giovanetto che retro a lui siede,
ben andava il valor di vaso in vaso,
che non si puote dir de laltre rede;
Iacomo e Federigo hanno i reami;
del retaggio miglior nessun possiede.
Rade volte risurge per li rami
lumana probitate; e questo vole
quei che la dà, perché da lui si chiami.
Anche al nasuto vanno mie parole
non men cha laltro, Pier, che con lui canta,
onde Puglia e Proenza già si dole.
Tant è del seme suo minor la pianta,
quanto, più che Beatrice e Margherita,
Costanza di marito ancor si vanta.
Vedete il re de la semplice vita
seder là solo, Arrigo dInghilterra:
questi ha ne rami suoi migliore uscita.
Quel che più basso tra costor satterra,
guardando in suso, è Guiglielmo marchese,
per cui e Alessandria e la sua guerra
fa pianger Monferrato e Canavese».
Purgatorio · Canto VIII
Era già lora che volge il disio
ai navicanti e ntenerisce il core
lo dì chan detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin damore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more;
quand io incominciai a render vano
ludire e a mirare una de lalme
surta, che lascoltar chiedea con mano.
Ella giunse e levò ambo le palme,
ficcando li occhi verso lorïente,
come dicesse a Dio: Daltro non calme.
Te lucis ante sì devotamente
le uscìo di bocca e con sì dolci note,
che fece me a me uscir di mente;
e laltre poi dolcemente e devote
seguitar lei per tutto linno intero,
avendo li occhi a le superne rote.
Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
ché l velo è ora ben tanto sottile,
certo che l trapassar dentro è leggero.
Io vidi quello essercito gentile
tacito poscia riguardare in sùe,
quasi aspettando, palido e umìle;
e vidi uscir de lalto e scender giùe
due angeli con due spade affocate,
tronche e private de le punte sue.
Verdi come fogliette pur mo nate
erano in veste, che da verdi penne
percosse traean dietro e ventilate.
Lun poco sovra noi a star si venne,
e laltro scese in lopposita sponda,
sì che la gente in mezzo si contenne.
Ben discernëa in lor la testa bionda;
ma ne la faccia locchio si smarria,
come virtù cha troppo si confonda.
«Ambo vegnon del grembo di Maria»,
disse Sordello, «a guardia de la valle,
per lo serpente che verrà vie via».
Ond io, che non sapeva per qual calle,
mi volsi intorno, e stretto maccostai,
tutto gelato, a le fidate spalle.
E Sordello anco: «Or avvalliamo omai
tra le grandi ombre, e parleremo ad esse;
grazïoso fia lor vedervi assai».
Solo tre passi credo chi scendesse,
e fui di sotto, e vidi un che mirava
pur me, come conoscer mi volesse.
Temp era già che laere sannerava,
ma non sì che tra li occhi suoi e miei
non dichiarisse ciò che pria serrava.
Ver me si fece, e io ver lui mi fei:
giudice Nin gentil, quanto mi piacque
quando ti vidi non esser tra rei!
Nullo bel salutar tra noi si tacque;
poi dimandò: «Quant è che tu venisti
a piè del monte per le lontane acque?».
«Oh!», diss io lui, «per entro i luoghi tristi
venni stamane, e sono in prima vita,
ancor che laltra, sì andando, acquisti».
E come fu la mia risposta udita,
Sordello ed elli in dietro si raccolse
come gente di sùbito smarrita.
Luno a Virgilio e laltro a un si volse
che sedea lì, gridando: «Sù, Currado!
vieni a veder che Dio per grazia volse».
Poi, vòlto a me: «Per quel singular grado
che tu dei a colui che sì nasconde
lo suo primo perché, che non lì è guado,
quando sarai di là da le larghe onde,
dì a Giovanna mia che per me chiami
là dove a li nnocenti si risponde.
Non credo che la sua madre più mami,
poscia che trasmutò le bianche bende,
le quai convien che, misera!, ancor brami.
Per lei assai di lieve si comprende
quanto in femmina foco damor dura,
se locchio o l tatto spesso non laccende.
Non le farà sì bella sepultura
la vipera che Melanesi accampa,
com avria fatto il gallo di Gallura».
Così dicea, segnato de la stampa,
nel suo aspetto, di quel dritto zelo
che misuratamente in core avvampa.
Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo,
pur là dove le stelle son più tarde,
sì come rota più presso a lo stelo.
E l duca mio: «Figliuol, che là sù guarde?».
E io a lui: «A quelle tre facelle
di che l polo di qua tutto quanto arde».
Ond elli a me: «Le quattro chiare stelle
che vedevi staman, son di là basse,
e queste son salite ov eran quelle».
Com ei parlava, e Sordello a sé il trasse
dicendo: «Vedi là l nostro avversaro»;
e drizzò il dito perché n là guardasse.
Da quella parte onde non ha riparo
la picciola vallea, era una biscia,
forse qual diede ad Eva il cibo amaro.
Tra lerba e fior venìa la mala striscia,
volgendo ad ora ad or la testa, e l dosso
leccando come bestia che si liscia.
Io non vidi, e però dicer non posso,
come mosser li astor celestïali;
ma vidi bene e luno e laltro mosso.
Sentendo fender laere a le verdi ali,
fuggì l serpente, e li angeli dier volta,
suso a le poste rivolando iguali.
Lombra che sera al giudice raccolta
quando chiamò, per tutto quello assalto
punto non fu da me guardare sciolta.
«Se la lucerna che ti mena in alto
truovi nel tuo arbitrio tanta cera
quant è mestiere infino al sommo smalto»,
cominciò ella, «se novella vera
di Val di Magra o di parte vicina
sai, dillo a me, che già grande là era.
Fui chiamato Currado Malaspina;
non son lantico, ma di lui discesi;
a miei portai lamor che qui raffina».
«Oh!», diss io lui, «per li vostri paesi
già mai non fui; ma dove si dimora
per tutta Europa chei non sien palesi?
La fama che la vostra casa onora,
grida i segnori e grida la contrada,
sì che ne sa chi non vi fu ancora;
e io vi giuro, sio di sopra vada,
che vostra gente onrata non si sfregia
del pregio de la borsa e de la spada.
Uso e natura sì la privilegia,
che, perché il capo reo il mondo torca,
sola va dritta e l mal cammin dispregia».
Ed elli: «Or va; che l sol non si ricorca
sette volte nel letto che l Montone
con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,
che cotesta cortese oppinïone
ti fia chiavata in mezzo de la testa
con maggior chiovi che daltrui sermone,
se corso di giudicio non sarresta».
Purgatorio · Canto IX
La concubina di Titone antico
già simbiancava al balco dorïente,
fuor de le braccia del suo dolce amico;
di gemme la sua fronte era lucente,
poste in figura del freddo animale
che con la coda percuote la gente;
e la notte, de passi con che sale,
fatti avea due nel loco ov eravamo,
e l terzo già chinava in giuso lale;
quand io, che meco avea di quel dAdamo,
vinto dal sonno, in su lerba inchinai
ve già tutti e cinque sedavamo.
Ne lora che comincia i tristi lai
la rondinella presso a la mattina,
forse a memoria de suo primi guai,
e che la mente nostra, peregrina
più da la carne e men da pensier presa,
a le sue visïon quasi è divina,
in sogno mi parea veder sospesa
unaguglia nel ciel con penne doro,
con lali aperte e a calare intesa;
ed esser mi parea là dove fuoro
abbandonati i suoi da Ganimede,
quando fu ratto al sommo consistoro.
Fra me pensava: Forse questa fiede
pur qui per uso, e forse daltro loco
disdegna di portarne suso in piede.
Poi mi parea che, poi rotata un poco,
terribil come folgor discendesse,
e me rapisse suso infino al foco.
Ivi parea che ella e io ardesse;
e sì lo ncendio imaginato cosse,
che convenne che l sonno si rompesse.
Non altrimenti Achille si riscosse,
li occhi svegliati rivolgendo in giro
e non sappiendo là dove si fosse,
quando la madre da Chirón a Schiro
trafuggò lui dormendo in le sue braccia,
là onde poi li Greci il dipartiro;
che mi scoss io, sì come da la faccia
mi fuggì l sonno, e diventa ismorto,
come fa luom che, spaventato, agghiaccia.
Dallato mera solo il mio conforto,
e l sole er alto già più che due ore,
e l viso mera a la marina torto.
«Non aver tema», disse il mio segnore;
«fatti sicur, ché noi semo a buon punto;
non stringer, ma rallarga ogne vigore.
Tu se omai al purgatorio giunto:
vedi là il balzo che l chiude dintorno;
vedi lentrata là ve par digiunto.
Dianzi, ne lalba che procede al giorno,
quando lanima tua dentro dormia,
sovra li fiori ond è là giù addorno
venne una donna, e disse: “I son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì lagevolerò per la sua via”.
Sordel rimase e laltre genti forme;
ella ti tolse, e come l dì fu chiaro,
sen venne suso; e io per le sue orme.
Qui ti posò, ma pria mi dimostraro
li occhi suoi belli quella intrata aperta;
poi ella e l sonno ad una se nandaro».
A guisa duom che n dubbio si raccerta
e che muta in conforto sua paura,
poi che la verità li è discoperta,
mi cambia io; e come sanza cura
vide me l duca mio, su per lo balzo
si mosse, e io di rietro inver laltura.
Lettor, tu vedi ben com io innalzo
la mia matera, e però con più arte
non ti maravigliar sio la rincalzo.
Noi ci appressammo, ed eravamo in parte
che là dove pareami prima rotto,
pur come un fesso che muro diparte,
vidi una porta, e tre gradi di sotto
per gire ad essa, di color diversi,
e un portier chancor non facea motto.
E come locchio più e più vapersi,
vidil seder sovra l grado sovrano,
tal ne la faccia chio non lo soffersi;
e una spada nuda avëa in mano,
che reflettëa i raggi sì ver noi,
chio drizzava spesso il viso in vano.
«Dite costinci: che volete voi?»,
cominciò elli a dire, «ov è la scorta?
Guardate che l venir sù non vi nòi».
«Donna del ciel, di queste cose accorta»,
rispuose l mio maestro a lui, «pur dianzi
ne disse: “Andate là: quivi è la porta”».
«Ed ella i passi vostri in bene avanzi»,
ricominciò il cortese portinaio:
«Venite dunque a nostri gradi innanzi».
Là ne venimmo; e lo scaglion primaio
bianco marmo era sì pulito e terso,
chio mi specchiai in esso qual io paio.
Era il secondo tinto più che perso,
duna petrina ruvida e arsiccia,
crepata per lo lungo e per traverso.
Lo terzo, che di sopra sammassiccia,
porfido mi parea, sì fiammeggiante
come sangue che fuor di vena spiccia.
Sovra questo tenëa ambo le piante
langel di Dio sedendo in su la soglia
che mi sembiava pietra di diamante.
Per li tre gradi sù di buona voglia
mi trasse il duca mio, dicendo: «Chiedi
umilemente che l serrame scioglia».
Divoto mi gittai a santi piedi;
misericordia chiesi e chel maprisse,
ma tre volte nel petto pria mi diedi.
Sette P ne la fronte mi descrisse
col punton de la spada, e «Fa che lavi,
quando se dentro, queste piaghe» disse.
Cenere, o terra che secca si cavi,
dun color fora col suo vestimento;
e di sotto da quel trasse due chiavi.
Luna era doro e laltra era dargento;
pria con la bianca e poscia con la gialla
fece a la porta sì, chi fu contento.
«Quandunque luna deste chiavi falla,
che non si volga dritta per la toppa»,
diss elli a noi, «non sapre questa calla.
Più cara è luna; ma laltra vuol troppa
darte e dingegno avanti che diserri,
perch ella è quella che l nodo digroppa.
Da Pier le tegno; e dissemi chi erri
anzi ad aprir cha tenerla serrata,
pur che la gente a piedi mi satterri».
Poi pinse luscio a la porta sacrata,
dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti
che di fuor torna chi n dietro si guata».
E quando fuor ne cardini distorti
li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti,
non rugghiò sì né si mostrò sì acra
Tarpëa, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra.
Io mi rivolsi attento al primo tuono,
e Te Deum laudamus mi parea
udire in voce mista al dolce suono.
Tale imagine a punto mi rendea
ciò chio udiva, qual prender si suole
quando a cantar con organi si stea;
chor sì or no sintendon le parole.
Purgatorio · Canto X
Poi fummo dentro al soglio de la porta
che l mal amor de lanime disusa,
perché fa parer dritta la via torta,
sonando la senti esser richiusa;
e sio avesse li occhi vòlti ad essa,
qual fora stata al fallo degna scusa?
Noi salavam per una pietra fessa,
che si moveva e duna e daltra parte,
sì come londa che fugge e sappressa.
«Qui si conviene usare un poco darte»,
cominciò l duca mio, «in accostarsi
or quinci, or quindi al lato che si parte».
E questo fece i nostri passi scarsi,
tanto che pria lo scemo de la luna
rigiunse al letto suo per ricorcarsi,
che noi fossimo fuor di quella cruna;
ma quando fummo liberi e aperti
sù dove il monte in dietro si rauna,
ïo stancato e amendue incerti
di nostra via, restammo in su un piano
solingo più che strade per diserti.
Da la sua sponda, ove confina il vano,
al piè de lalta ripa che pur sale,
misurrebbe in tre volte un corpo umano;
e quanto locchio mio potea trar dale,
or dal sinistro e or dal destro fianco,
questa cornice mi parea cotale.
Là sù non eran mossi i piè nostri anco,
quand io conobbi quella ripa intorno
che dritto di salita aveva manco,
esser di marmo candido e addorno
dintagli sì, che non pur Policleto,
ma la natura lì avrebbe scorno.
Langel che venne in terra col decreto
de la molt anni lagrimata pace,
chaperse il ciel del suo lungo divieto,
dinanzi a noi pareva sì verace
quivi intagliato in un atto soave,
che non sembiava imagine che tace.
Giurato si saria chel dicesse Ave!;
perché iv era imaginata quella
chad aprir lalto amor volse la chiave;
e avea in atto impressa esta favella
Ecce ancilla Deï, propriamente
come figura in cera si suggella.
«Non tener pur ad un loco la mente»,
disse l dolce maestro, che mavea
da quella parte onde l cuore ha la gente.
Per chi mi mossi col viso, e vedea
di retro da Maria, da quella costa
onde mera colui che mi movea,
unaltra storia ne la roccia imposta;
per chio varcai Virgilio, e femi presso,
acciò che fosse a li occhi miei disposta.
Era intagliato lì nel marmo stesso
lo carro e buoi, traendo larca santa,
per che si teme officio non commesso.
Dinanzi parea gente; e tutta quanta,
partita in sette cori, a due mie sensi
faceva dir lun No, laltro Sì, canta.
Similemente al fummo de li ncensi
che vera imaginato, li occhi e l naso
e al sì e al no discordi fensi.
Lì precedeva al benedetto vaso,
trescando alzato, lumile salmista,
e più e men che re era in quel caso.
Di contra, effigïata ad una vista
dun gran palazzo, Micòl ammirava
sì come donna dispettosa e trista.
I mossi i piè del loco dov io stava,
per avvisar da presso unaltra istoria,
che di dietro a Micòl mi biancheggiava.
Quiv era storïata lalta gloria
del roman principato, il cui valore
mosse Gregorio a la sua gran vittoria;
i dico di Traiano imperadore;
e una vedovella li era al freno,
di lagrime atteggiata e di dolore.
Intorno a lui parea calcato e pieno
di cavalieri, e laguglie ne loro
sovr essi in vista al vento si movieno.
La miserella intra tutti costoro
pareva dir: «Segnor, fammi vendetta
di mio figliuol chè morto, ond io maccoro»;
ed elli a lei rispondere: «Or aspetta
tanto chi torni»; e quella: «Segnor mio»,
come persona in cui dolor saffretta,
«se tu non torni?»; ed ei: «Chi fia dov io,
la ti farà»; ed ella: «Laltrui bene
a te che fia, se l tuo metti in oblio?»;
ond elli: «Or ti conforta; chei convene
chi solva il mio dovere anzi chi mova:
giustizia vuole e pietà mi ritene».
Colui che mai non vide cosa nova
produsse esto visibile parlare,
novello a noi perché qui non si trova.
Mentr io mi dilettava di guardare
limagini di tante umilitadi,
e per lo fabbro loro a veder care,
«Ecco di qua, ma fanno i passi radi»,
mormorava il poeta, «molte genti:
questi ne nvïeranno a li alti gradi».
Li occhi miei, cha mirare eran contenti
per veder novitadi ond e son vaghi,
volgendosi ver lui non furon lenti.
Non vo però, lettor, che tu ti smaghi
di buon proponimento per udire
come Dio vuol che l debito si paghi.
Non attender la forma del martìre:
pensa la succession; pensa chal peggio
oltre la gran sentenza non può ire.
Io cominciai: «Maestro, quel chio veggio
muovere a noi, non mi sembian persone,
e non so che, sì nel veder vaneggio».
Ed elli a me: «La grave condizione
di lor tormento a terra li rannicchia,
sì che miei occhi pria nebber tencione.
Ma guarda fiso là, e disviticchia
col viso quel che vien sotto a quei sassi:
già scorger puoi come ciascun si picchia».
O superbi cristian, miseri lassi,
che, de la vista de la mente infermi,
fidanza avete ne retrosi passi,
non vaccorgete voi che noi siam vermi
nati a formar langelica farfalla,
che vola a la giustizia sanza schermi?
Di che lanimo vostro in alto galla,
poi siete quasi antomata in difetto,
sì come vermo in cui formazion falla?
Come per sostentar solaio o tetto,
per mensola talvolta una figura
si vede giugner le ginocchia al petto,
la qual fa del non ver vera rancura
nascere n chi la vede; così fatti
vid io color, quando puosi ben cura.
Vero è che più e meno eran contratti
secondo chavien più e meno a dosso;
e qual più pazïenza avea ne li atti,
piangendo parea dicer: Più non posso.
Purgatorio · Canto XI
«O Padre nostro, che ne cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
chai primi effetti di là sù tu hai,
laudato sia l tuo nome e l tuo valore
da ogne creatura, com è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
sella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir saffanna.
E come noi lo mal chavem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di legger sadona,
non spermentar con lantico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
Quest ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro».
Così a sé e noi buona ramogna
quell ombre orando, andavan sotto l pondo,
simile a quel che talvolta si sogna,
disparmente angosciate tutte a tondo
e lasse su per la prima cornice,
purgando la caligine del mondo.
Se di là sempre ben per noi si dice,
di qua che dire e far per lor si puote
da quei channo al voler buona radice?
Ben si de loro atar lavar le note
che portar quinci, sì che, mondi e lievi,
possano uscire a le stellate ruote.
«Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi
tosto, sì che possiate muover lala,
che secondo il disio vostro vi lievi,
mostrate da qual mano inver la scala
si va più corto; e se cè più dun varco,
quel ne nsegnate che men erto cala;
ché questi che vien meco, per lo ncarco
de la carne dAdamo onde si veste,
al montar sù, contra sua voglia, è parco».
Le lor parole, che rendero a queste
che dette avea colui cu io seguiva,
non fur da cui venisser manifeste;
ma fu detto: «A man destra per la riva
con noi venite, e troverete il passo
possibile a salir persona viva.
E sio non fossi impedito dal sasso
che la cervice mia superba doma,
onde portar convienmi il viso basso,
cotesti, chancor vive e non si noma,
guardere io, per veder si l conosco,
e per farlo pietoso a questa soma.
Io fui latino e nato dun gran Tosco:
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
non so se l nome suo già mai fu vosco.
Lantico sangue e lopere leggiadre
di miei maggior mi fer sì arrogante,
che, non pensando a la comune madre,
ogn uomo ebbi in despetto tanto avante,
chio ne mori, come i Sanesi sanno,
e sallo in Campagnatico ogne fante.
Io sono Omberto; e non pur a me danno
superbia fa, ché tutti miei consorti
ha ella tratti seco nel malanno.
E qui convien chio questo peso porti
per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
poi chio nol fe tra vivi, qui tra morti».
Ascoltando chinai in giù la faccia;
e un di lor, non questi che parlava,
si torse sotto il peso che li mpaccia,
e videmi e conobbemi e chiamava,
tenendo li occhi con fatica fisi
a me che tutto chin con loro andava.
«Oh!», diss io lui, «non se tu Oderisi,
lonor dAgobbio e lonor di quell arte
challuminar chiamata è in Parisi?».
«Frate», diss elli, «più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
lonore è tutto or suo, e mio in parte.
Ben non sare io stato sì cortese
mentre chio vissi, per lo gran disio
de leccellenza ove mio core intese.
Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vana gloria de lumane posse!
com poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da letati grosse!
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Così ha tolto luno a laltro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi luno e laltro caccerà del nido.
Non è il mondan romore altro chun fiato
di vento, chor vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il pappo e l dindi,
pria che passin mill anni? chè più corto
spazio a letterno, chun muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto.
Colui che del cammin sì poco piglia
dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
e ora a pena in Siena sen pispiglia,
ond era sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com ora è putta.
La vostra nominanza è color derba,
che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerba».
E io a lui: «Tuo vero dir mincora
bona umiltà, e gran tumor mappiani;
ma chi è quei di cui tu parlavi ora?».
«Quelli è», rispuose, «Provenzan Salvani;
ed è qui perché fu presuntüoso
a recar Siena tutta a le sue mani.
Ito è così e va, sanza riposo,
poi che morì; cotal moneta rende
a sodisfar chi è di là troppo oso».
E io: «Se quello spirito chattende,
pria che si penta, lorlo de la vita,
qua giù dimora e qua sù non ascende,
se buona orazïon lui non aita,
prima che passi tempo quanto visse,
come fu la venuta lui largita?».
«Quando vivea più glorïoso», disse,
«liberamente nel Campo di Siena,
ogne vergogna diposta, saffisse;
e lì, per trar lamico suo di pena,
che sostenea ne la prigion di Carlo,
si condusse a tremar per ogne vena.
Più non dirò, e scuro so che parlo;
ma poco tempo andrà, che tuoi vicini
faranno sì che tu potrai chiosarlo.
Quest opera li tolse quei confini».
Purgatorio · Canto XII
Di pari, come buoi che vanno a giogo,
mandava io con quell anima carca,
fin che l sofferse il dolce pedagogo.
Ma quando disse: «Lascia lui e varca;
ché qui è buono con lali e coi remi,
quantunque può, ciascun pinger sua barca»;
dritto sì come andar vuolsi rifemi
con la persona, avvegna che i pensieri
mi rimanessero e chinati e scemi.
Io mera mosso, e seguia volontieri
del mio maestro i passi, e amendue
già mostravam com eravam leggeri;
ed el mi disse: «Volgi li occhi in giùe:
buon ti sarà, per tranquillar la via,
veder lo letto de le piante tue».
Come, perché di lor memoria sia,
sovra i sepolti le tombe terragne
portan segnato quel chelli eran pria,
onde lì molte volte si ripiagne
per la puntura de la rimembranza,
che solo a pïi dà de le calcagne;
sì vid io lì, ma di miglior sembianza
secondo lartificio, figurato
quanto per via di fuor del monte avanza.
Vedea colui che fu nobil creato
più chaltra creatura, giù dal cielo
folgoreggiando scender, da lun lato.
Vedëa Brïareo fitto dal telo
celestïal giacer, da laltra parte,
grave a la terra per lo mortal gelo.
Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte,
armati ancora, intorno al padre loro,
mirar le membra di Giganti sparte.
Vedea Nembròt a piè del gran lavoro
quasi smarrito, e riguardar le genti
che n Sennaàr con lui superbi fuoro.
O Nïobè, con che occhi dolenti
vedea io te segnata in su la strada,
tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!
O Saùl, come in su la propria spada
quivi parevi morto in Gelboè,
che poi non sentì pioggia né rugiada!
O folle Aragne, sì vedea io te
già mezza ragna, trista in su li stracci
de lopera che mal per te si fé.
O Roboàm, già non par che minacci
quivi l tuo segno; ma pien di spavento
nel porta un carro, sanza chaltri il cacci.
Mostrava ancor lo duro pavimento
come Almeon a sua madre fé caro
parer lo sventurato addornamento.
Mostrava come i figli si gittaro
sovra Sennacherìb dentro dal tempio,
e come, morto lui, quivi il lasciaro.
Mostrava la ruina e l crudo scempio
che fé Tamiri, quando disse a Ciro:
«Sangue sitisti, e io di sangue tempio».
Mostrava come in rotta si fuggiro
li Assiri, poi che fu morto Oloferne,
e anche le reliquie del martiro.
Vedeva Troia in cenere e in caverne;
o Ilïón, come te basso e vile
mostrava il segno che lì si discerne!
Qual di pennel fu maestro o di stile
che ritraesse lombre e tratti chivi
mirar farieno uno ingegno sottile?
Morti li morti e i vivi parean vivi:
non vide mei di me chi vide il vero,
quant io calcai, fin che chinato givi.
Or superbite, e via col viso altero,
figliuoli dEva, e non chinate il volto
sì che veggiate il vostro mal sentero!
Più era già per noi del monte vòlto
e del cammin del sole assai più speso
che non stimava lanimo non sciolto,
quando colui che sempre innanzi atteso
andava, cominciò: «Drizza la testa;
non è più tempo di gir sì sospeso.
Vedi colà un angel che sappresta
per venir verso noi; vedi che torna
dal servigio del dì lancella sesta.
Di reverenza il viso e li atti addorna,
sì che i diletti lo nvïarci in suso;
pensa che questo dì mai non raggiorna!».
Io era ben del suo ammonir uso
pur di non perder tempo, sì che n quella
materia non potea parlarmi chiuso.
A noi venìa la creatura bella,
biancovestito e ne la faccia quale
par tremolando mattutina stella.
Le braccia aperse, e indi aperse lale;
disse: «Venite: qui son presso i gradi,
e agevolemente omai si sale.
A questo invito vegnon molto radi:
o gente umana, per volar sù nata,
perché a poco vento così cadi?».
Menocci ove la roccia era tagliata;
quivi mi batté lali per la fronte;
poi mi promise sicura landata.
Come a man destra, per salire al monte
dove siede la chiesa che soggioga
la ben guidata sopra Rubaconte,
si rompe del montar lardita foga
per le scalee che si fero ad etade
chera sicuro il quaderno e la doga;
così sallenta la ripa che cade
quivi ben ratta da laltro girone;
ma quinci e quindi lalta pietra rade.
Noi volgendo ivi le nostre persone,
Beati pauperes spiritu! voci
cantaron sì, che nol diria sermone.
Ahi quanto son diverse quelle foci
da linfernali! ché quivi per canti
sentra, e là giù per lamenti feroci.
Già montavam su per li scaglion santi,
ed esser mi parea troppo più lieve
che per lo pian non mi parea davanti.
Ond io: «Maestro, dì, qual cosa greve
levata sè da me, che nulla quasi
per me fatica, andando, si riceve?».
Rispuose: «Quando i P che son rimasi
ancor nel volto tuo presso che stinti,
saranno, com è lun, del tutto rasi,
fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti,
che non pur non fatica sentiranno,
ma fia diletto loro esser sù pinti».
Allor fec io come color che vanno
con cosa in capo non da lor saputa,
se non che cenni altrui sospecciar fanno;
per che la mano ad accertar saiuta,
e cerca e truova e quello officio adempie
che non si può fornir per la veduta;
e con le dita de la destra scempie
trovai pur sei le lettere che ncise
quel da le chiavi a me sovra le tempie:
a che guardando, il mio duca sorrise.
Purgatorio · Canto XIII
Noi eravamo al sommo de la scala,
dove secondamente si risega
lo monte che salendo altrui dismala.
Ivi così una cornice lega
dintorno il poggio, come la primaia;
se non che larco suo più tosto piega.
Ombra non lì è né segno che si paia:
parsi la ripa e parsi la via schietta
col livido color de la petraia.
«Se qui per dimandar gente saspetta»,
ragionava il poeta, «io temo forse
che troppo avrà dindugio nostra eletta».
Poi fisamente al sole li occhi porse;
fece del destro lato a muover centro,
e la sinistra parte di sé torse.
«O dolce lume a cui fidanza i entro
per lo novo cammin, tu ne conduci»,
dicea, «come condur si vuol quinc entro.
Tu scaldi il mondo, tu sovr esso luci;
saltra ragione in contrario non ponta,
esser dien sempre li tuoi raggi duci».
Quanto di qua per un migliaio si conta,
tanto di là eravam noi già iti,
con poco tempo, per la voglia pronta;
e verso noi volar furon sentiti,
non però visti, spiriti parlando
a la mensa damor cortesi inviti.
La prima voce che passò volando
Vinum non habent altamente disse,
e dietro a noi landò reïterando.
E prima che del tutto non si udisse
per allungarsi, unaltra I sono Oreste
passò gridando, e anco non saffisse.
«Oh!», diss io, «padre, che voci son queste?».
E com io domandai, ecco la terza
dicendo: Amate da cui male aveste.
E l buon maestro: «Questo cinghio sferza
la colpa de la invidia, e però sono
tratte damor le corde de la ferza.
Lo fren vuol esser del contrario suono;
credo che ludirai, per mio avviso,
prima che giunghi al passo del perdono.
Ma ficca li occhi per laere ben fiso,
e vedrai gente innanzi a noi sedersi,
e ciascun è lungo la grotta assiso».
Allora più che prima li occhi apersi;
guardami innanzi, e vidi ombre con manti
al color de la pietra non diversi.
E poi che fummo un poco più avanti,
udia gridar: Maria, òra per noi:
gridar Michele e Pietro e Tutti santi.
Non credo che per terra vada ancoi
omo sì duro, che non fosse punto
per compassion di quel chi vidi poi;
ché, quando fui sì presso di lor giunto,
che li atti loro a me venivan certi,
per li occhi fui di grave dolor munto.
Di vil ciliccio mi parean coperti,
e lun sofferia laltro con la spalla,
e tutti da la ripa eran sofferti.
Così li ciechi a cui la roba falla,
stanno a perdoni a chieder lor bisogna,
e luno il capo sopra laltro avvalla,
perché n altrui pietà tosto si pogna,
non pur per lo sonar de le parole,
ma per la vista che non meno agogna.
E come a li orbi non approda il sole,
così a lombre quivi, ond io parlo ora,
luce del ciel di sé largir non vole;
ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra
e cusce sì, come a sparvier selvaggio
si fa però che queto non dimora.
A me pareva, andando, fare oltraggio,
veggendo altrui, non essendo veduto:
per chio mi volsi al mio consiglio saggio.
Ben sapev ei che volea dir lo muto;
e però non attese mia dimanda,
ma disse: «Parla, e sie breve e arguto».
Virgilio mi venìa da quella banda
de la cornice onde cader si puote,
perché da nulla sponda singhirlanda;
da laltra parte meran le divote
ombre, che per lorribile costura
premevan sì, che bagnavan le gote.
Volsimi a loro e: «O gente sicura»,
incominciai, «di veder lalto lume
che l disio vostro solo ha in sua cura,
se tosto grazia resolva le schiume
di vostra coscïenza sì che chiaro
per essa scenda de la mente il fiume,
ditemi, ché mi fia grazioso e caro,
sanima è qui tra voi che sia latina;
e forse lei sarà buon si lapparo».
«O frate mio, ciascuna è cittadina
duna vera città; ma tu vuo dire
che vivesse in Italia peregrina».
Questo mi parve per risposta udire
più innanzi alquanto che là dov io stava,
ond io mi feci ancor più là sentire.
Tra laltre vidi unombra chaspettava
in vista; e se volesse alcun dir Come?,
lo mento a guisa dorbo in sù levava.
«Spirto», diss io, «che per salir ti dome,
se tu se quelli che mi rispondesti,
fammiti conto o per luogo o per nome».
«Io fui sanese», rispuose, «e con questi
altri rimendo qui la vita ria,
lagrimando a colui che sé ne presti.
Savia non fui, avvegna che Sapìa
fossi chiamata, e fui de li altrui danni
più lieta assai che di ventura mia.
E perché tu non creda chio tinganni,
odi si fui, com io ti dico, folle,
già discendendo larco di miei anni.
Eran li cittadin miei presso a Colle
in campo giunti co loro avversari,
e io pregava Iddio di quel che volle.
Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari
passi di fuga; e veggendo la caccia,
letizia presi a tutte altre dispari,
tanto chio volsi in sù lardita faccia,
gridando a Dio: “Omai più non ti temo!”,
come fé l merlo per poca bonaccia.
Pace volli con Dio in su lo stremo
de la mia vita; e ancor non sarebbe
lo mio dover per penitenza scemo,
se ciò non fosse, cha memoria mebbe
Pier Pettinaio in sue sante orazioni,
a cui di me per caritate increbbe.
Ma tu chi se, che nostre condizioni
vai dimandando, e porti li occhi sciolti,
sì com io credo, e spirando ragioni?».
«Li occhi», diss io, «mi fieno ancor qui tolti,
ma picciol tempo, ché poca è loffesa
fatta per esser con invidia vòlti.
Troppa è più la paura ond è sospesa
lanima mia del tormento di sotto,
che già lo ncarco di là giù mi pesa».
Ed ella a me: «Chi tha dunque condotto
qua sù tra noi, se giù ritornar credi?».
E io: «Costui chè meco e non fa motto.
E vivo sono; e però mi richiedi,
spirito eletto, se tu vuo chi mova
di là per te ancor li mortai piedi».
«Oh, questa è a udir sì cosa nuova»,
rispuose, «che gran segno è che Dio tami;
però col priego tuo talor mi giova.
E cheggioti, per quel che tu più brami,
se mai calchi la terra di Toscana,
che a miei propinqui tu ben mi rinfami.
Tu li vedrai tra quella gente vana
che spera in Talamone, e perderagli
più di speranza cha trovar la Diana;
ma più vi perderanno li ammiragli».
Purgatorio · Canto XIV
«Chi è costui che l nostro monte cerchia
prima che morte li abbia dato il volo,
e apre li occhi a sua voglia e coverchia?».
«Non so chi sia, ma so che non è solo;
domandal tu che più li tavvicini,
e dolcemente, sì che parli, accolo».
Così due spirti, luno a laltro chini,
ragionavan di me ivi a man dritta;
poi fer li visi, per dirmi, supini;
e disse luno: «O anima che fitta
nel corpo ancora inver lo ciel ten vai,
per carità ne consola e ne ditta
onde vieni e chi se; ché tu ne fai
tanto maravigliar de la tua grazia,
quanto vuol cosa che non fu più mai».
E io: «Per mezza Toscana si spazia
un fiumicel che nasce in Falterona,
e cento miglia di corso nol sazia.
Di sovr esso rech io questa persona:
dirvi chi sia, saria parlare indarno,
ché l nome mio ancor molto non suona».
«Se ben lo ntendimento tuo accarno
con lo ntelletto», allora mi rispuose
quei che diceva pria, «tu parli dArno».
E laltro disse lui: «Perché nascose
questi il vocabol di quella riviera,
pur com om fa de lorribili cose?».
E lombra che di ciò domandata era,
si sdebitò così: «Non so; ma degno
ben è che l nome di tal valle pèra;
ché dal principio suo, ov è sì pregno
lalpestro monte ond è tronco Peloro,
che n pochi luoghi passa oltra quel segno,
infin là ve si rende per ristoro
di quel che l ciel de la marina asciuga,
ond hanno i fiumi ciò che va con loro,
vertù così per nimica si fuga
da tutti come biscia, o per sventura
del luogo, o per mal uso che li fruga:
ond hanno sì mutata lor natura
li abitator de la misera valle,
che par che Circe li avesse in pastura.
Tra brutti porci, più degni di galle
che daltro cibo fatto in uman uso,
dirizza prima il suo povero calle.
Botoli trova poi, venendo giuso,
ringhiosi più che non chiede lor possa,
e da lor disdegnosa torce il muso.
Vassi caggendo; e quant ella più ngrossa,
tanto più trova di can farsi lupi
la maladetta e sventurata fossa.
Discesa poi per più pelaghi cupi,
trova le volpi sì piene di froda,
che non temono ingegno che le occùpi.
Né lascerò di dir perch altri moda;
e buon sarà costui, sancor sammenta
di ciò che vero spirto mi disnoda.
Io veggio tuo nepote che diventa
cacciator di quei lupi in su la riva
del fiero fiume, e tutti li sgomenta.
Vende la carne loro essendo viva;
poscia li ancide come antica belva;
molti di vita e sé di pregio priva.
Sanguinoso esce de la trista selva;
lasciala tal, che di qui a mille anni
ne lo stato primaio non si rinselva».
Com a lannunzio di dogliosi danni
si turba il viso di colui chascolta,
da qual che parte il periglio lassanni,
così vid io laltr anima, che volta
stava a udir, turbarsi e farsi trista,
poi chebbe la parola a sé raccolta.
Lo dir de luna e de laltra la vista
mi fer voglioso di saper lor nomi,
e dimanda ne fei con prieghi mista;
per che lo spirto che di pria parlòmi
ricominciò: «Tu vuo chio mi deduca
nel fare a te ciò che tu far non vuomi.
Ma da che Dio in te vuol che traluca
tanto sua grazia, non ti sarò scarso;
però sappi chio fui Guido del Duca.
Fu il sangue mio dinvidia sì rïarso,
che se veduto avesse uom farsi lieto,
visto mavresti di livore sparso.
Di mia semente cotal paglia mieto;
o gente umana, perché poni l core
v è mestier di consorte divieto?
Questi è Rinier; questi è l pregio e lonore
de la casa da Calboli, ove nullo
fatto sè reda poi del suo valore.
E non pur lo suo sangue è fatto brullo,
tra l Po e l monte e la marina e l Reno,
del ben richesto al vero e al trastullo;
ché dentro a questi termini è ripieno
di venenosi sterpi, sì che tardi
per coltivare omai verrebber meno.
Ov è l buon Lizio e Arrigo Mainardi?
Pier Traversaro e Guido di Carpigna?
Oh Romagnuoli tornati in bastardi!
Quando in Bologna un Fabbro si ralligna?
quando in Faenza un Bernardin di Fosco,
verga gentil di picciola gramigna?
Non ti maravigliar sio piango, Tosco,
quando rimembro, con Guido da Prata,
Ugolin dAzzo che vivette nosco,
Federigo Tignoso e sua brigata,
la casa Traversara e li Anastagi
(e luna gente e laltra è diretata),
le donne e cavalier, li affanni e li agi
che ne nvogliava amore e cortesia
là dove i cuor son fatti sì malvagi.
O Bretinoro, ché non fuggi via,
poi che gita se nè la tua famiglia
e molta gente per non esser ria?
Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia;
e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,
che di figliar tai conti più simpiglia.
Ben faranno i Pagan, da che l demonio
lor sen girà; ma non però che puro
già mai rimagna dessi testimonio.
O Ugolin de Fantolin, sicuro
è l nome tuo, da che più non saspetta
chi far lo possa, tralignando, scuro.
Ma va via, Tosco, omai; chor mi diletta
troppo di pianger più che di parlare,
sì mha nostra ragion la mente stretta».
Noi sapavam che quell anime care
ci sentivano andar; però, tacendo,
facëan noi del cammin confidare.
Poi fummo fatti soli procedendo,
folgore parve quando laere fende,
voce che giunse di contra dicendo:
Anciderammi qualunque mapprende;
e fuggì come tuon che si dilegua,
se sùbito la nuvola scoscende.
Come da lei ludir nostro ebbe triegua,
ed ecco laltra con sì gran fracasso,
che somigliò tonar che tosto segua:
«Io sono Aglauro che divenni sasso»;
e allor, per ristrignermi al poeta,
in destro feci, e non innanzi, il passo.
Già era laura dogne parte queta;
ed el mi disse: «Quel fu l duro camo
che dovria luom tener dentro a sua meta.
Ma voi prendete lesca, sì che lamo
de lantico avversaro a sé vi tira;
e però poco val freno o richiamo.
Chiamavi l cielo e ntorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze etterne,
e locchio vostro pur a terra mira;
onde vi batte chi tutto discerne».
Purgatorio · Canto XV
Quanto tra lultimar de lora terza
e l principio del dì par de la spera
che sempre a guisa di fanciullo scherza,
tanto pareva già inver la sera
essere al sol del suo corso rimaso;
vespero là, e qui mezza notte era.
E i raggi ne ferien per mezzo l naso,
perché per noi girato era sì l monte,
che già dritti andavamo inver loccaso,
quand io senti a me gravar la fronte
a lo splendore assai più che di prima,
e stupor meran le cose non conte;
ond io levai le mani inver la cima
de le mie ciglia, e fecimi l solecchio,
che del soverchio visibile lima.
Come quando da lacqua o da lo specchio
salta lo raggio a lopposita parte,
salendo su per lo modo parecchio
a quel che scende, e tanto si diparte
dal cader de la pietra in igual tratta,
sì come mostra esperïenza e arte;
così mi parve da luce rifratta
quivi dinanzi a me esser percosso;
per che a fuggir la mia vista fu ratta.
«Che è quel, dolce padre, a che non posso
schermar lo viso tanto che mi vaglia»,
diss io, «e pare inver noi esser mosso?».
«Non ti maravigliar sancor tabbaglia
la famiglia del cielo», a me rispuose:
«messo è che viene ad invitar chom saglia.
Tosto sarà cha veder queste cose
non ti fia grave, ma fieti diletto
quanto natura a sentir ti dispuose».
Poi giunti fummo a langel benedetto,
con lieta voce disse: «Intrate quinci
ad un scaleo vie men che li altri eretto».
Noi montavam, già partiti di linci,
e Beati misericordes! fue
cantato retro, e Godi tu che vinci!.
Lo mio maestro e io soli amendue
suso andavamo; e io pensai, andando,
prode acquistar ne le parole sue;
e dirizzami a lui sì dimandando:
«Che volse dir lo spirto di Romagna,
e divieto e consorte menzionando?».
Per chelli a me: «Di sua maggior magagna
conosce il danno; e però non sammiri
se ne riprende perché men si piagna.
Perché sappuntano i vostri disiri
dove per compagnia parte si scema,
invidia move il mantaco a sospiri.
Ma se lamor de la spera supprema
torcesse in suso il disiderio vostro,
non vi sarebbe al petto quella tema;
ché, per quanti si dice più lì nostro,
tanto possiede più di ben ciascuno,
e più di caritate arde in quel chiostro».
«Io son desser contento più digiuno»,
diss io, «che se mi fosse pria taciuto,
e più di dubbio ne la mente aduno.
Com esser puote chun ben, distributo
in più posseditor, faccia più ricchi
di sé che se da pochi è posseduto?».
Ed elli a me: «Però che tu rificchi
la mente pur a le cose terrene,
di vera luce tenebre dispicchi.
Quello infinito e ineffabil bene
che là sù è, così corre ad amore
com a lucido corpo raggio vene.
Tanto si dà quanto trova dardore;
sì che, quantunque carità si stende,
cresce sovr essa letterno valore.
E quanta gente più là sù sintende,
più vè da bene amare, e più vi sama,
e come specchio luno a laltro rende.
E se la mia ragion non ti disfama,
vedrai Beatrice, ed ella pienamente
ti torrà questa e ciascun altra brama.
Procaccia pur che tosto sieno spente,
come son già le due, le cinque piaghe,
che si richiudon per esser dolente».
Com io voleva dicer Tu mappaghe,
vidimi giunto in su laltro girone,
sì che tacer mi fer le luci vaghe.
Ivi mi parve in una visïone
estatica di sùbito esser tratto,
e vedere in un tempio più persone;
e una donna, in su lentrar, con atto
dolce di madre dicer: «Figliuol mio,
perché hai tu così verso noi fatto?
Ecco, dolenti, lo tuo padre e io
ti cercavamo». E come qui si tacque,
ciò che pareva prima, dispario.
Indi mapparve unaltra con quell acque
giù per le gote che l dolor distilla
quando di gran dispetto in altrui nacque,
e dir: «Se tu se sire de la villa
del cui nome ne dèi fu tanta lite,
e onde ogne scïenza disfavilla,
vendica te di quelle braccia ardite
chabbracciar nostra figlia, o Pisistràto».
E l segnor mi parea, benigno e mite,
risponder lei con viso temperato:
«Che farem noi a chi mal ne disira,
se quei che ci ama è per noi condannato?»,
Poi vidi genti accese in foco dira
con pietre un giovinetto ancider, forte
gridando a sé pur: «Martira, martira!».
E lui vedea chinarsi, per la morte
che laggravava già, inver la terra,
ma de li occhi facea sempre al ciel porte,
orando a lalto Sire, in tanta guerra,
che perdonasse a suoi persecutori,
con quello aspetto che pietà diserra.
Quando lanima mia tornò di fori
a le cose che son fuor di lei vere,
io riconobbi i miei non falsi errori.
Lo duca mio, che mi potea vedere
far sì com om che dal sonno si slega,
disse: «Che hai che non ti puoi tenere,
ma se venuto più che mezza lega
velando li occhi e con le gambe avvolte,
a guisa di cui vino o sonno piega?».
«O dolce padre mio, se tu mascolte,
io ti dirò», diss io, «ciò che mapparve
quando le gambe mi furon sì tolte».
Ed ei: «Se tu avessi cento larve
sovra la faccia, non mi sarian chiuse
le tue cogitazion, quantunque parve.
Ciò che vedesti fu perché non scuse
daprir lo core a lacque de la pace
che da letterno fonte son diffuse.
Non dimandai “Che hai?” per quel che face
chi guarda pur con locchio che non vede,
quando disanimato il corpo giace;
ma dimandai per darti forza al piede:
così frugar conviensi i pigri, lenti
ad usar lor vigilia quando riede».
Noi andavam per lo vespero, attenti
oltre quanto potean li occhi allungarsi
contra i raggi serotini e lucenti.
Ed ecco a poco a poco un fummo farsi
verso di noi come la notte oscuro;
né da quello era loco da cansarsi.
Questo ne tolse li occhi e laere puro.
Purgatorio · Canto XVI
Buio dinferno e di notte privata
dogne pianeto, sotto pover cielo,
quant esser può di nuvol tenebrata,
non fece al viso mio sì grosso velo
come quel fummo chivi ci coperse,
né a sentir di così aspro pelo,
che locchio stare aperto non sofferse;
onde la scorta mia saputa e fida
mi saccostò e lomero mofferse.
Sì come cieco va dietro a sua guida
per non smarrirsi e per non dar di cozzo
in cosa che l molesti, o forse ancida,
mandava io per laere amaro e sozzo,
ascoltando il mio duca che diceva
pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo».
Io sentia voci, e ciascuna pareva
pregar per pace e per misericordia
lAgnel di Dio che le peccata leva.
Pur Agnus Dei eran le loro essordia;
una parola in tutte era e un modo,
sì che parea tra esse ogne concordia.
«Quei sono spirti, maestro, chi odo?»,
diss io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi,
e diracundia van solvendo il nodo».
«Or tu chi se che l nostro fummo fendi,
e di noi parli pur come se tue
partissi ancor lo tempo per calendi?».
Così per una voce detto fue;
onde l maestro mio disse: «Rispondi,
e domanda se quinci si va sùe».
E io: «O creatura che ti mondi
per tornar bella a colui che ti fece,
maraviglia udirai, se mi secondi».
«Io ti seguiterò quanto mi lece»,
rispuose; «e se veder fummo non lascia,
ludir ci terrà giunti in quella vece».
Allora incominciai: «Con quella fascia
che la morte dissolve men vo suso,
e venni qui per linfernale ambascia.
E se Dio mha in sua grazia rinchiuso,
tanto che vuol chi veggia la sua corte
per modo tutto fuor del moderno uso,
non mi celar chi fosti anzi la morte,
ma dilmi, e dimmi si vo bene al varco;
e tue parole fier le nostre scorte».
«Lombardo fui, e fu chiamato Marco;
del mondo seppi, e quel valore amai
al quale ha or ciascun disteso larco.
Per montar sù dirittamente vai».
Così rispuose, e soggiunse: «I ti prego
che per me prieghi quando sù sarai».
E io a lui: «Per fede mi ti lego
di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio
dentro ad un dubbio, sio non me ne spiego.
Prima era scempio, e ora è fatto doppio
ne la sentenza tua, che mi fa certo
qui, e altrove, quello ov io laccoppio.
Lo mondo è ben così tutto diserto
dogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto;
ma priego che maddite la cagione,
sì chi la veggia e chi la mostri altrui;
ché nel cielo uno, e un qua giù la pone».
Alto sospir, che duolo strinse in «uhi!»,
mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate,
lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.
Voi che vivete ogne cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto
movesse seco di necessitate.
Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto.
Lo cielo i vostri movimenti inizia;
non dico tutti, ma, posto chi l dica,
lume vè dato a bene e a malizia,
e libero voler; che, se fatica
ne le prime battaglie col ciel dura,
poi vince tutto, se ben si notrica.
A maggior forza e a miglior natura
liberi soggiacete; e quella cria
la mente in voi, che l ciel non ha in sua cura.
Però, se l mondo presente disvia,
in voi è la cagione, in voi si cheggia;
e io te ne sarò or vera spia.
Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,
lanima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore;
quivi singanna, e dietro ad esso corre,
se guida o fren non torce suo amore.
Onde convenne legge per fren porre;
convenne rege aver, che discernesse
de la vera cittade almen la torre.
Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
Nullo, però che l pastor che procede,
rugumar può, ma non ha lunghie fesse;
per che la gente, che sua guida vede
pur a quel ben fedire ond ella è ghiotta,
di quel si pasce, e più oltre non chiede.
Ben puoi veder che la mala condotta
è la cagion che l mondo ha fatto reo,
e non natura che n voi sia corrotta.
Soleva Roma, che l buon mondo feo,
due soli aver, che luna e laltra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
Lun laltro ha spento; ed è giunta la spada
col pasturale, e lun con laltro insieme
per viva forza mal convien che vada;
però che, giunti, lun laltro non teme:
se non mi credi, pon mente a la spiga,
chogn erba si conosce per lo seme.
In sul paese chAdice e Po riga,
solea valore e cortesia trovarsi,
prima che Federigo avesse briga;
or può sicuramente indi passarsi
per qualunque lasciasse, per vergogna
di ragionar coi buoni o dappressarsi.
Ben vèn tre vecchi ancora in cui rampogna
lantica età la nova, e par lor tardo
che Dio a miglior vita li ripogna:
Currado da Palazzo e l buon Gherardo
e Guido da Castel, che mei si noma,
francescamente, il semplice Lombardo.
Dì oggimai che la Chiesa di Roma,
per confondere in sé due reggimenti,
cade nel fango, e sé brutta e la soma».
«O Marco mio», diss io, «bene argomenti;
e or discerno perché dal retaggio
li figli di Levì furono essenti.
Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio
di chè rimaso de la gente spenta,
in rimprovèro del secol selvaggio?».
«O tuo parlar minganna, o el mi tenta»,
rispuose a me; «ché, parlandomi tosco,
par che del buon Gherardo nulla senta.
Per altro sopranome io nol conosco,
sio nol togliessi da sua figlia Gaia.
Dio sia con voi, ché più non vegno vosco.
Vedi lalbor che per lo fummo raia
già biancheggiare, e me convien partirmi
(langelo è ivi) prima chio li paia».
Così tornò, e più non volle udirmi.
Purgatorio · Canto XVII
Ricorditi, lettor, se mai ne lalpe
ti colse nebbia per la qual vedessi
non altrimenti che per pelle talpe,
come, quando i vapori umidi e spessi
a diradar cominciansi, la spera
del sol debilemente entra per essi;
e fia la tua imagine leggera
in giugnere a veder com io rividi
lo sole in pria, che già nel corcar era.
Sì, pareggiando i miei co passi fidi
del mio maestro, usci fuor di tal nube
ai raggi morti già ne bassi lidi.
O imaginativa che ne rube
talvolta sì di fuor, chom non saccorge
perché dintorno suonin mille tube,
chi move te, se l senso non ti porge?
Moveti lume che nel ciel sinforma,
per sé o per voler che giù lo scorge.
De lempiezza di lei che mutò forma
ne luccel cha cantar più si diletta,
ne limagine mia apparve lorma;
e qui fu la mia mente sì ristretta
dentro da sé, che di fuor non venìa
cosa che fosse allor da lei ricetta.
Poi piovve dentro a lalta fantasia
un crucifisso, dispettoso e fero
ne la sua vista, e cotal si moria;
intorno ad esso era il grande Assüero,
Estèr sua sposa e l giusto Mardoceo,
che fu al dire e al far così intero.
E come questa imagine rompeo
sé per sé stessa, a guisa duna bulla
cui manca lacqua sotto qual si feo,
surse in mia visïone una fanciulla
piangendo forte, e dicea: «O regina,
perché per ira hai voluto esser nulla?
Ancisa thai per non perder Lavina;
or mhai perduta! Io son essa che lutto,
madre, a la tua pria cha laltrui ruina».
Come si frange il sonno ove di butto
nova luce percuote il viso chiuso,
che fratto guizza pria che muoia tutto;
così limaginar mio cadde giuso
tosto che lume il volto mi percosse,
maggior assai che quel chè in nostro uso.
I mi volgea per veder ov io fosse,
quando una voce disse «Qui si monta»,
che da ogne altro intento mi rimosse;
e fece la mia voglia tanto pronta
di riguardar chi era che parlava,
che mai non posa, se non si raffronta.
Ma come al sol che nostra vista grava
e per soverchio sua figura vela,
così la mia virtù quivi mancava.
«Questo è divino spirito, che ne la
via da ir sù ne drizza sanza prego,
e col suo lume sé medesmo cela.
Sì fa con noi, come luom si fa sego;
ché quale aspetta prego e luopo vede,
malignamente già si mette al nego.
Or accordiamo a tanto invito il piede;
procacciam di salir pria che sabbui,
ché poi non si poria, se l dì non riede».
Così disse il mio duca, e io con lui
volgemmo i nostri passi ad una scala;
e tosto chio al primo grado fui,
sentimi presso quasi un muover dala
e ventarmi nel viso e dir: Beati
pacifici, che son sanz ira mala!.
Già eran sovra noi tanto levati
li ultimi raggi che la notte segue,
che le stelle apparivan da più lati.
O virtù mia, perché sì ti dilegue?,
fra me stesso dicea, ché mi sentiva
la possa de le gambe posta in triegue.
Noi eravam dove più non saliva
la scala sù, ed eravamo affissi,
pur come nave cha la piaggia arriva.
E io attesi un poco, sio udissi
alcuna cosa nel novo girone;
poi mi volsi al maestro mio, e dissi:
«Dolce mio padre, dì, quale offensione
si purga qui nel giro dove semo?
Se i piè si stanno, non stea tuo sermone».
Ed elli a me: «Lamor del bene, scemo
del suo dover, quiritta si ristora;
qui si ribatte il mal tardato remo.
Ma perché più aperto intendi ancora,
volgi la mente a me, e prenderai
alcun buon frutto di nostra dimora».
«Né creator né creatura mai»,
cominciò el, «figliuol, fu sanza amore,
o naturale o danimo; e tu l sai.
Lo naturale è sempre sanza errore,
ma laltro puote errar per malo obietto
o per troppo o per poco di vigore.
Mentre chelli è nel primo ben diretto,
e ne secondi sé stesso misura,
esser non può cagion di mal diletto;
ma quando al mal si torce, o con più cura
o con men che non dee corre nel bene,
contra l fattore adovra sua fattura.
Quinci comprender puoi chesser convene
amor sementa in voi dogne virtute
e dogne operazion che merta pene.
Or, perché mai non può da la salute
amor del suo subietto volger viso,
da lodio proprio son le cose tute;
e perché intender non si può diviso,
e per sé stante, alcuno esser dal primo,
da quello odiare ogne effetto è deciso.
Resta, se dividendo bene stimo,
che l mal che sama è del prossimo; ed esso
amor nasce in tre modi in vostro limo.
È chi, per esser suo vicin soppresso,
spera eccellenza, e sol per questo brama
chel sia di sua grandezza in basso messo;
è chi podere, grazia, onore e fama
teme di perder perch altri sormonti,
onde sattrista sì che l contrario ama;
ed è chi per ingiuria par chaonti,
sì che si fa de la vendetta ghiotto,
e tal convien che l male altrui impronti.
Questo triforme amor qua giù di sotto
si piange: or vo che tu de laltro intende,
che corre al ben con ordine corrotto.
Ciascun confusamente un bene apprende
nel qual si queti lanimo, e disira;
per che di giugner lui ciascun contende.
Se lento amore a lui veder vi tira
o a lui acquistar, questa cornice,
dopo giusto penter, ve ne martira.
Altro ben è che non fa luom felice;
non è felicità, non è la buona
essenza, dogne ben frutto e radice.
Lamor chad esso troppo sabbandona,
di sovr a noi si piange per tre cerchi;
ma come tripartito si ragiona,
tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi».
Purgatorio · Canto XVIII
Posto avea fine al suo ragionamento
lalto dottore, e attento guardava
ne la mia vista sio parea contento;
e io, cui nova sete ancor frugava,
di fuor tacea, e dentro dicea: Forse
lo troppo dimandar chio fo li grava.
Ma quel padre verace, che saccorse
del timido voler che non sapriva,
parlando, di parlare ardir mi porse.
Ond io: «Maestro, il mio veder savviva
sì nel tuo lume, chio discerno chiaro
quanto la tua ragion parta o descriva.
Però ti prego, dolce padre caro,
che mi dimostri amore, a cui reduci
ogne buono operare e l suo contraro».
«Drizza», disse, «ver me lagute luci
de lo ntelletto, e fieti manifesto
lerror de ciechi che si fanno duci.
Lanimo, chè creato ad amar presto,
ad ogne cosa è mobile che piace,
tosto che dal piacere in atto è desto.
Vostra apprensiva da esser verace
tragge intenzione, e dentro a voi la spiega,
sì che lanimo ad essa volger face;
e se, rivolto, inver di lei si piega,
quel piegare è amor, quell è natura
che per piacer di novo in voi si lega.
Poi, come l foco movesi in altura
per la sua forma chè nata a salire
là dove più in sua matera dura,
così lanimo preso entra in disire,
chè moto spiritale, e mai non posa
fin che la cosa amata il fa gioire.
Or ti puote apparer quant è nascosa
la veritate a la gente chavvera
ciascun amore in sé laudabil cosa;
però che forse appar la sua matera
sempre esser buona, ma non ciascun segno
è buono, ancor che buona sia la cera».
«Le tue parole e l mio seguace ingegno»,
rispuos io lui, «mhanno amor discoverto,
ma ciò mha fatto di dubbiar più pregno;
ché, samore è di fuori a noi offerto
e lanima non va con altro piede,
se dritta o torta va, non è suo merto».
Ed elli a me: «Quanto ragion qui vede,
dir ti poss io; da indi in là taspetta
pur a Beatrice, chè opra di fede.
Ogne forma sustanzïal, che setta
è da matera ed è con lei unita,
specifica vertute ha in sé colletta,
la qual sanza operar non è sentita,
né si dimostra mai che per effetto,
come per verdi fronde in pianta vita.
Però, là onde vegna lo ntelletto
de le prime notizie, omo non sape,
e de primi appetibili laffetto,
che sono in voi sì come studio in ape
di far lo mele; e questa prima voglia
merto di lode o di biasmo non cape.
Or perché a questa ogn altra si raccoglia,
innata vè la virtù che consiglia,
e de lassenso de tener la soglia.
Quest è l principio là onde si piglia
ragion di meritare in voi, secondo
che buoni e rei amori accoglie e viglia.
Color che ragionando andaro al fondo,
saccorser desta innata libertate;
però moralità lasciaro al mondo.
Onde, poniam che di necessitate
surga ogne amor che dentro a voi saccende,
di ritenerlo è in voi la podestate.
La nobile virtù Beatrice intende
per lo libero arbitrio, e però guarda
che labbi a mente, sa parlar ten prende».
La luna, quasi a mezza notte tarda,
facea le stelle a noi parer più rade,
fatta com un secchion che tuttor arda;
e correa contro l ciel per quelle strade
che l sole infiamma allor che quel da Roma
tra Sardi e Corsi il vede quando cade.
E quell ombra gentil per cui si noma
Pietola più che villa mantoana,
del mio carcar diposta avea la soma;
per chio, che la ragione aperta e piana
sovra le mie quistioni avea ricolta,
stava com om che sonnolento vana.
Ma questa sonnolenza mi fu tolta
subitamente da gente che dopo
le nostre spalle a noi era già volta.
E quale Ismeno già vide e Asopo
lungo di sè di notte furia e calca,
pur che i Teban di Bacco avesser uopo,
cotal per quel giron suo passo falca,
per quel chio vidi di color, venendo,
cui buon volere e giusto amor cavalca.
Tosto fur sovr a noi, perché correndo
si movea tutta quella turba magna;
e due dinanzi gridavan piangendo:
«Maria corse con fretta a la montagna;
e Cesare, per soggiogare Ilerda,
punse Marsilia e poi corse in Ispagna».
«Ratto, ratto, che l tempo non si perda
per poco amor», gridavan li altri appresso,
«che studio di ben far grazia rinverda».
«O gente in cui fervore aguto adesso
ricompie forse negligenza e indugio
da voi per tepidezza in ben far messo,
questi che vive, e certo i non vi bugio,
vuole andar sù, pur che l sol ne riluca;
però ne dite ond è presso il pertugio».
Parole furon queste del mio duca;
e un di quelli spirti disse: «Vieni
di retro a noi, e troverai la buca.
Noi siam di voglia a muoverci sì pieni,
che restar non potem; però perdona,
se villania nostra giustizia tieni.
Io fui abate in San Zeno a Verona
sotto lo mperio del buon Barbarossa,
di cui dolente ancor Milan ragiona.
E tale ha già lun piè dentro la fossa,
che tosto piangerà quel monastero,
e tristo fia davere avuta possa;
perché suo figlio, mal del corpo intero,
e de la mente peggio, e che mal nacque,
ha posto in loco di suo pastor vero».
Io non so se più disse o sei si tacque,
tant era già di là da noi trascorso;
ma questo intesi, e ritener mi piacque.
E quei che mera ad ogne uopo soccorso
disse: «Volgiti qua: vedine due
venir dando a laccidïa di morso».
Di retro a tutti dicean: «Prima fue
morta la gente a cui il mar saperse,
che vedesse Iordan le rede sue.
E quella che laffanno non sofferse
fino a la fine col figlio dAnchise,
sé stessa a vita sanza gloria offerse».
Poi quando fuor da noi tanto divise
quell ombre, che veder più non potiersi,
novo pensiero dentro a me si mise,
del qual più altri nacquero e diversi;
e tanto duno in altro vaneggiai,
che li occhi per vaghezza ricopersi,
e l pensamento in sogno trasmutai.
Purgatorio · Canto XIX
Ne lora che non può l calor dïurno
intepidar più l freddo de la luna,
vinto da terra, e talor da Saturno
—quando i geomanti lor Maggior Fortuna
veggiono in orïente, innanzi a lalba,
surger per via che poco le sta bruna—,
mi venne in sogno una femmina balba,
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
con le man monche, e di colore scialba.
Io la mirava; e come l sol conforta
le fredde membra che la notte aggrava,
così lo sguardo mio le facea scorta
la lingua, e poscia tutta la drizzava
in poco dora, e lo smarrito volto,
com amor vuol, così le colorava.
Poi chell avea l parlar così disciolto,
cominciava a cantar sì, che con pena
da lei avrei mio intento rivolto.
«Io son», cantava, «io son dolce serena,
che marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco sausa,
rado sen parte; sì tutto lappago!».
Ancor non era sua bocca richiusa,
quand una donna apparve santa e presta
lunghesso me per far colei confusa.
«O Virgilio, Virgilio, chi è questa?»,
fieramente dicea; ed el venìa
con li occhi fitti pur in quella onesta.
Laltra prendea, e dinanzi lapria
fendendo i drappi, e mostravami l ventre;
quel mi svegliò col puzzo che nuscia.
Io mossi li occhi, e l buon maestro: «Almen tre
voci tho messe!», dicea, «Surgi e vieni;
troviam laperta per la qual tu entre».
Sù mi levai, e tutti eran già pieni
de lalto dì i giron del sacro monte,
e andavam col sol novo a le reni.
Seguendo lui, portava la mia fronte
come colui che lha di pensier carca,
che fa di sé un mezzo arco di ponte;
quand io udi «Venite; qui si varca»
parlare in modo soave e benigno,
qual non si sente in questa mortal marca.
Con lali aperte, che parean di cigno,
volseci in sù colui che sì parlonne
tra due pareti del duro macigno.
Mosse le penne poi e ventilonne,
Qui lugent affermando esser beati,
chavran di consolar lanime donne.
«Che hai che pur inver la terra guati?»,
la guida mia incominciò a dirmi,
poco amendue da langel sormontati.
E io: «Con tanta sospeccion fa irmi
novella visïon cha sé mi piega,
sì chio non posso dal pensar partirmi».
«Vedesti», disse, «quellantica strega
che sola sovr a noi omai si piagne;
vedesti come luom da lei si slega.
Bastiti, e batti a terra le calcagne;
li occhi rivolgi al logoro che gira
lo rege etterno con le rote magne».
Quale l falcon, che prima a pié si mira,
indi si volge al grido e si protende
per lo disio del pasto che là il tira,
tal mi fec io; e tal, quanto si fende
la roccia per dar via a chi va suso,
nandai infin dove l cerchiar si prende.
Com io nel quinto giro fui dischiuso,
vidi gente per esso che piangea,
giacendo a terra tutta volta in giuso.
Adhaesit pavimento anima mea
sentia dir lor con sì alti sospiri,
che la parola a pena sintendea.
«O eletti di Dio, li cui soffriri
e giustizia e speranza fa men duri,
drizzate noi verso li alti saliri».
«Se voi venite dal giacer sicuri,
e volete trovar la via più tosto,
le vostre destre sien sempre di fori».
Così pregò l poeta, e sì risposto
poco dinanzi a noi ne fu; per chio
nel parlare avvisai laltro nascosto,
e volsi li occhi a li occhi al segnor mio:
ond elli massentì con lieto cenno
ciò che chiedea la vista del disio.
Poi chio potei di me fare a mio senno,
trassimi sovra quella creatura
le cui parole pria notar mi fenno,
dicendo: «Spirto in cui pianger matura
quel sanza l quale a Dio tornar non pòssi,
sosta un poco per me tua maggior cura.
Chi fosti e perché vòlti avete i dossi
al sù, mi dì, e se vuo chio timpetri
cosa di là ond io vivendo mossi».
Ed elli a me: «Perché i nostri diretri
rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima
scias quod ego fui successor Petri.
Intra Sïestri e Chiaveri sadima
una fiumana bella, e del suo nome
lo titol del mio sangue fa sua cima.
Un mese e poco più prova io come
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
che piuma sembran tutte laltre some.
La mia conversïone, omè!, fu tarda;
ma, come fatto fui roman pastore,
così scopersi la vita bugiarda.
Vidi che lì non sacquetava il core,
né più salir potiesi in quella vita;
per che di questa in me saccese amore.
Fino a quel punto misera e partita
da Dio anima fui, del tutto avara;
or, come vedi, qui ne son punita.
Quel chavarizia fa, qui si dichiara
in purgazion de lanime converse;
e nulla pena il monte ha più amara.
Sì come locchio nostro non saderse
in alto, fisso a le cose terrene,
così giustizia qui a terra il merse.
Come avarizia spense a ciascun bene
lo nostro amore, onde operar perdési,
così giustizia qui stretti ne tene,
ne piedi e ne le man legati e presi;
e quanto fia piacer del giusto Sire,
tanto staremo immobili e distesi».
Io mera inginocchiato e volea dire;
ma com io cominciai ed el saccorse,
solo ascoltando, del mio reverire,
«Qual cagion», disse, «in giù così ti torse?».
E io a lui: «Per vostra dignitate
mia coscïenza dritto mi rimorse».
«Drizza le gambe, lèvati sù, frate!»,
rispuose; «non errar: conservo sono
teco e con li altri ad una podestate.
Se mai quel santo evangelico suono
che dice Neque nubent intendesti,
ben puoi veder perch io così ragiono.
Vattene omai: non vo che più tarresti;
ché la tua stanza mio pianger disagia,
col qual maturo ciò che tu dicesti.
Nepote ho io di là cha nome Alagia,
buona da sé, pur che la nostra casa
non faccia lei per essempro malvagia;
e questa sola di là mè rimasa».
Purgatorio · Canto XX
Contra miglior voler voler mal pugna;
onde contra l piacer mio, per piacerli,
trassi de lacqua non sazia la spugna.
Mossimi; e l duca mio si mosse per li
luoghi spediti pur lungo la roccia,
come si va per muro stretto a merli;
ché la gente che fonde a goccia a goccia
per li occhi il mal che tutto l mondo occupa,
da laltra parte in fuor troppo sapproccia.
Maladetta sie tu, antica lupa,
che più che tutte laltre bestie hai preda
per la tua fame sanza fine cupa!
O ciel, nel cui girar par che si creda
le condizion di qua giù trasmutarsi,
quando verrà per cui questa disceda?
Noi andavam con passi lenti e scarsi,
e io attento a lombre, chi sentia
pietosamente piangere e lagnarsi;
e per ventura udi «Dolce Maria!»
dinanzi a noi chiamar così nel pianto
come fa donna che in parturir sia;
e seguitar: «Povera fosti tanto,
quanto veder si può per quello ospizio
dove sponesti il tuo portato santo».
Seguentemente intesi: «O buon Fabrizio,
con povertà volesti anzi virtute
che gran ricchezza posseder con vizio».
Queste parole meran sì piaciute,
chio mi trassi oltre per aver contezza
di quello spirto onde parean venute.
Esso parlava ancor de la larghezza
che fece Niccolò a le pulcelle,
per condurre ad onor lor giovinezza.
«O anima che tanto ben favelle,
dimmi chi fosti», dissi, «e perché sola
tu queste degne lode rinovelle.
Non fia sanza mercé la tua parola,
sio ritorno a compiér lo cammin corto
di quella vita chal termine vola».
Ed elli: «Io ti dirò, non per conforto
chio attenda di là, ma perché tanta
grazia in te luce prima che sie morto.
Io fui radice de la mala pianta
che la terra cristiana tutta aduggia,
sì che buon frutto rado se ne schianta.
Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia
potesser, tosto ne saria vendetta;
e io la cheggio a lui che tutto giuggia.
Chiamato fui di là Ugo Ciappetta;
di me son nati i Filippi e i Luigi
per cui novellamente è Francia retta.
Figliuol fu io dun beccaio di Parigi:
quando li regi antichi venner meno
tutti, fuor chun renduto in panni bigi,
trovami stretto ne le mani il freno
del governo del regno, e tanta possa
di nuovo acquisto, e sì damici pieno,
cha la corona vedova promossa
la testa di mio figlio fu, dal quale
cominciar di costor le sacrate ossa.
Mentre che la gran dota provenzale
al sangue mio non tolse la vergogna,
poco valea, ma pur non facea male.
Lì cominciò con forza e con menzogna
la sua rapina; e poscia, per ammenda,
Pontì e Normandia prese e Guascogna.
Carlo venne in Italia e, per ammenda,
vittima fé di Curradino; e poi
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.
Tempo vegg io, non molto dopo ancoi,
che tragge un altro Carlo fuor di Francia,
per far conoscer meglio e sé e suoi.
Sanz arme nesce e solo con la lancia
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
sì, cha Fiorenza fa scoppiar la pancia.
Quindi non terra, ma peccato e onta
guadagnerà, per sé tanto più grave,
quanto più lieve simil danno conta.
Laltro, che già uscì preso di nave,
veggio vender sua figlia e patteggiarne
come fanno i corsar de laltre schiave.
O avarizia, che puoi tu più farne,
poscia cha il mio sangue a te sì tratto,
che non si cura de la propria carne?
Perché men paia il mal futuro e l fatto,
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo unaltra volta esser deriso;
veggio rinovellar laceto e l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.
Veggio il novo Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele.
O Segnor mio, quando sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce lira tua nel tuo secreto?
Ciò chio dicea di quell unica sposa
de lo Spirito Santo e che ti fece
verso me volger per alcuna chiosa,
tanto è risposto a tutte nostre prece
quanto l dì dura; ma com el sannotta,
contrario suon prendemo in quella vece.
Noi repetiam Pigmalïon allotta,
cui traditore e ladro e paricida
fece la voglia sua de loro ghiotta;
e la miseria de lavaro Mida,
che seguì a la sua dimanda gorda,
per la qual sempre convien che si rida.
Del folle Acàn ciascun poi si ricorda,
come furò le spoglie, sì che lira
di Iosüè qui par chancor lo morda.
Indi accusiam col marito Saffira;
lodiam i calci chebbe Elïodoro;
e in infamia tutto l monte gira
Polinestòr chancise Polidoro;
ultimamente ci si grida: “Crasso,
dilci, che l sai: di che sapore è loro?”.
Talor parla luno alto e laltro basso,
secondo laffezion chad ir ci sprona
ora a maggiore e ora a minor passo:
però al ben che l dì ci si ragiona,
dianzi non era io sol; ma qui da presso
non alzava la voce altra persona».
Noi eravam partiti già da esso,
e brigavam di soverchiar la strada
tanto quanto al poder nera permesso,
quand io senti, come cosa che cada,
tremar lo monte; onde mi prese un gelo
qual prender suol colui cha morte vada.
Certo non si scoteo sì forte Delo,
pria che Latona in lei facesse l nido
a parturir li due occhi del cielo.
Poi cominciò da tutte parti un grido
tal, che l maestro inverso me si feo,
dicendo: «Non dubbiar, mentr io ti guido».
Glorïa in excelsis tutti Deo
dicean, per quel chio da vicin compresi,
onde intender lo grido si poteo.
No istavamo immobili e sospesi
come i pastor che prima udir quel canto,
fin che l tremar cessò ed el compiési.
Poi ripigliammo nostro cammin santo,
guardando lombre che giacean per terra,
tornate già in su lusato pianto.
Nulla ignoranza mai con tanta guerra
mi fé desideroso di sapere,
se la memoria mia in ciò non erra,
quanta pareami allor, pensando, avere;
né per la fretta dimandare er oso,
né per me lì potea cosa vedere:
così mandava timido e pensoso.
Purgatorio · Canto XXI
La sete natural che mai non sazia
se non con lacqua onde la femminetta
samaritana domandò la grazia,
mi travagliava, e pungeami la fretta
per la mpacciata via dietro al mio duca,
e condoleami a la giusta vendetta.
Ed ecco, sì come ne scrive Luca
che Cristo apparve a due cherano in via,
già surto fuor de la sepulcral buca,
ci apparve unombra, e dietro a noi venìa,
dal piè guardando la turba che giace;
né ci addemmo di lei, sì parlò pria,
dicendo: «O frati miei, Dio vi dea pace».
Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio
rendéli l cenno cha ciò si conface.
Poi cominciò: «Nel beato concilio
ti ponga in pace la verace corte
che me rilega ne letterno essilio».
«Come!», diss elli, e parte andavam forte:
«se voi siete ombre che Dio sù non degni,
chi vha per la sua scala tanto scorte?».
E l dottor mio: «Se tu riguardi a segni
che questi porta e che langel profila,
ben vedrai che coi buon convien che regni.
Ma perché lei che dì e notte fila
non li avea tratta ancora la conocchia
che Cloto impone a ciascuno e compila,
lanima sua, chè tua e mia serocchia,
venendo sù, non potea venir sola,
però chal nostro modo non adocchia.
Ond io fui tratto fuor de lampia gola
dinferno per mostrarli, e mosterrolli
oltre, quanto l potrà menar mia scola.
Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli
diè dianzi l monte, e perché tutto ad una
parve gridare infino a suoi piè molli».
Sì mi diè, dimandando, per la cruna
del mio disio, che pur con la speranza
si fece la mia sete men digiuna.
Quei cominciò: «Cosa non è che sanza
ordine senta la religïone
de la montagna, o che sia fuor dusanza.
Libero è qui da ogne alterazione:
di quel che l ciel da sé in sé riceve
esser ci puote, e non daltro, cagione.
Per che non pioggia, non grando, non neve,
non rugiada, non brina più sù cade
che la scaletta di tre gradi breve;
nuvole spesse non paion né rade,
né coruscar, né figlia di Taumante,
che di là cangia sovente contrade;
secco vapor non surge più avante
chal sommo di tre gradi chio parlai,
dov ha l vicario di Pietro le piante.
Trema forse più giù poco o assai;
ma per vento che n terra si nasconda,
non so come, qua sù non tremò mai.
Tremaci quando alcuna anima monda
sentesi, sì che surga o che si mova
per salir sù; e tal grido seconda.
De la mondizia sol voler fa prova,
che, tutto libero a mutar convento,
lalma sorprende, e di voler le giova.
Prima vuol ben, ma non lascia il talento
che divina giustizia, contra voglia,
come fu al peccar, pone al tormento.
E io, che son giaciuto a questa doglia
cinquecent anni e più, pur mo sentii
libera volontà di miglior soglia:
però sentisti il tremoto e li pii
spiriti per lo monte render lode
a quel Segnor, che tosto sù li nvii».
Così ne disse; e però chel si gode
tanto del ber quant è grande la sete,
non saprei dir quant el mi fece prode.
E l savio duca: «Omai veggio la rete
che qui vi mpiglia e come si scalappia,
perché ci trema e di che congaudete.
Ora chi fosti, piacciati chio sappia,
e perché tanti secoli giaciuto
qui se, ne le parole tue mi cappia».
«Nel tempo che l buon Tito, con laiuto
del sommo rege, vendicò le fóra
ond uscì l sangue per Giuda venduto,
col nome che più dura e più onora
era io di là», rispuose quello spirto,
«famoso assai, ma non con fede ancora.
Tanto fu dolce mio vocale spirto,
che, tolosano, a sé mi trasse Roma,
dove mertai le tempie ornar di mirto.
Stazio la gente ancor di là mi noma:
cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
ma caddi in via con la seconda soma.
Al mio ardor fuor seme le faville,
che mi scaldar, de la divina fiamma
onde sono allumati più di mille;
de lEneïda dico, la qual mamma
fummi, e fummi nutrice, poetando:
sanz essa non fermai peso di dramma.
E per esser vivuto di là quando
visse Virgilio, assentirei un sole
più che non deggio al mio uscir di bando».
Volser Virgilio a me queste parole
con viso che, tacendo, disse Taci;
ma non può tutto la virtù che vuole;
ché riso e pianto son tanto seguaci
a la passion di che ciascun si spicca,
che men seguon voler ne più veraci.
Io pur sorrisi come luom chammicca;
per che lombra si tacque, e riguardommi
ne li occhi ove l sembiante più si ficca;
e «Se tanto labore in bene assommi»,
disse, «perché la tua faccia testeso
un lampeggiar di riso dimostrommi?».
Or son io duna parte e daltra preso:
luna mi fa tacer, laltra scongiura
chio dica; ond io sospiro, e sono inteso
dal mio maestro, e «Non aver paura»,
mi dice, «di parlar; ma parla e digli
quel che dimanda con cotanta cura».
Ond io: «Forse che tu ti maravigli,
antico spirto, del rider chio fei;
ma più dammirazion vo che ti pigli.
Questi che guida in alto li occhi miei,
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forte a cantar de li uomini e di dèi.
Se cagion altra al mio rider credesti,
lasciala per non vera, ed esser credi
quelle parole che di lui dicesti».
Già sinchinava ad abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: «Frate,
non far, ché tu se ombra e ombra vedi».
Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate
comprender de lamor cha te mi scalda,
quand io dismento nostra vanitate,
trattando lombre come cosa salda».
Purgatorio · Canto XXII
Già era langel dietro a noi rimaso,
langel che navea vòlti al sesto giro,
avendomi dal viso un colpo raso;
e quei channo a giustizia lor disiro
detto navea beati, e le sue voci
con sitiunt, sanz altro, ciò forniro.
E io più lieve che per laltre foci
mandava, sì che sanz alcun labore
seguiva in sù li spiriti veloci;
quando Virgilio incominciò: «Amore,
acceso di virtù, sempre altro accese,
pur che la fiamma sua paresse fore;
onde da lora che tra noi discese
nel limbo de lo nferno Giovenale,
che la tua affezion mi fé palese,
mia benvoglienza inverso te fu quale
più strinse mai di non vista persona,
sì chor mi parran corte queste scale.
Ma dimmi, e come amico mi perdona
se troppa sicurtà mallarga il freno,
e come amico omai meco ragiona:
come poté trovar dentro al tuo seno
loco avarizia, tra cotanto senno
di quanto per tua cura fosti pieno?».
Queste parole Stazio mover fenno
un poco a riso pria; poscia rispuose:
«Ogne tuo dir damor mè caro cenno.
Veramente più volte appaion cose
che danno a dubitar falsa matera
per le vere ragion che son nascose.
La tua dimanda tuo creder mavvera
esser chi fossi avaro in laltra vita,
forse per quella cerchia dov io era.
Or sappi chavarizia fu partita
troppo da me, e questa dismisura
migliaia di lunari hanno punita.
E se non fosse chio drizzai mia cura,
quand io intesi là dove tu chiame,
crucciato quasi a lumana natura:
Per che non reggi tu, o sacra fame
de loro, lappetito de mortali?,
voltando sentirei le giostre grame.
Allor maccorsi che troppo aprir lali
potean le mani a spendere, e pentemi
così di quel come de li altri mali.
Quanti risurgeran coi crini scemi
per ignoranza, che di questa pecca
toglie l penter vivendo e ne li stremi!
E sappie che la colpa che rimbecca
per dritta opposizione alcun peccato,
con esso insieme qui suo verde secca;
però, sio son tra quella gente stato
che piange lavarizia, per purgarmi,
per lo contrario suo mè incontrato».
«Or quando tu cantasti le crude armi
de la doppia trestizia di Giocasta»,
disse l cantor de buccolici carmi,
«per quello che Clïò teco lì tasta,
non par che ti facesse ancor fedele
la fede, sanza qual ben far non basta.
Se così è, qual sole o quai candele
ti stenebraron sì, che tu drizzasti
poscia di retro al pescator le vele?».
Ed elli a lui: «Tu prima minvïasti
verso Parnaso a ber ne le sue grotte,
e prima appresso Dio malluminasti.
Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte,
quando dicesti: Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenïe scende da ciel nova.
Per te poeta fui, per te cristiano:
ma perché veggi mei ciò chio disegno,
a colorare stenderò la mano.
Già era l mondo tutto quanto pregno
de la vera credenza, seminata
per li messaggi de letterno regno;
e la parola tua sopra toccata
si consonava a nuovi predicanti;
ond io a visitarli presi usata.
Vennermi poi parendo tanto santi,
che, quando Domizian li perseguette,
sanza mio lagrimar non fur lor pianti;
e mentre che di là per me si stette,
io li sovvenni, e i lor dritti costumi
fer dispregiare a me tutte altre sette.
E pria chio conducessi i Greci a fiumi
di Tebe poetando, ebb io battesmo;
ma per paura chiuso cristian fumi,
lungamente mostrando paganesmo;
e questa tepidezza il quarto cerchio
cerchiar mi fé più che l quarto centesmo.
Tu dunque, che levato hai il coperchio
che mascondeva quanto bene io dico,
mentre che del salire avem soverchio,
dimmi dov è Terrenzio nostro antico,
Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:
dimmi se son dannati, e in qual vico».
«Costoro e Persio e io e altri assai»,
rispuose il duca mio, «siam con quel Greco
che le Muse lattar più chaltri mai,
nel primo cinghio del carcere cieco;
spesse fïate ragioniam del monte
che sempre ha le nutrice nostre seco.
Euripide vè nosco e Antifonte,
Simonide, Agatone e altri piùe
Greci che già di lauro ornar la fronte.
Quivi si veggion de le genti tue
Antigone, Deïfile e Argia,
e Ismene sì trista come fue.
Védeisi quella che mostrò Langia;
èvvi la figlia di Tiresia, e Teti,
e con le suore sue Deïdamia».
Tacevansi ambedue già li poeti,
di novo attenti a riguardar dintorno,
liberi da saliri e da pareti;
e già le quattro ancelle eran del giorno
rimase a dietro, e la quinta era al temo,
drizzando pur in sù lardente corno,
quando il mio duca: «Io credo cha lo stremo
le destre spalle volger ne convegna,
girando il monte come far solemo».
Così lusanza fu lì nostra insegna,
e prendemmo la via con men sospetto
per lassentir di quell anima degna.
Elli givan dinanzi, e io soletto
di retro, e ascoltava i lor sermoni,
cha poetar mi davano intelletto.
Ma tosto ruppe le dolci ragioni
un alber che trovammo in mezza strada,
con pomi a odorar soavi e buoni;
e come abete in alto si digrada
di ramo in ramo, così quello in giuso,
cred io, perché persona sù non vada.
Dal lato onde l cammin nostro era chiuso,
cadea de lalta roccia un liquor chiaro
e si spandeva per le foglie suso.
Li due poeti a lalber sappressaro;
e una voce per entro le fronde
gridò: «Di questo cibo avrete caro».
Poi disse: «Più pensava Maria onde
fosser le nozze orrevoli e intere,
cha la sua bocca, chor per voi risponde.
E le Romane antiche, per lor bere,
contente furon dacqua; e Danïello
dispregiò cibo e acquistò savere.
Lo secol primo, quant oro fu bello,
fé savorose con fame le ghiande,
e nettare con sete ogne ruscello.
Mele e locuste furon le vivande
che nodriro il Batista nel diserto;
per chelli è glorïoso e tanto grande
quanto per lo Vangelio vè aperto».
Purgatorio · Canto XXIII
Mentre che li occhi per la fronda verde
ficcava ïo sì come far suole
chi dietro a li uccellin sua vita perde,
lo più che padre mi dicea: «Figliuole,
vienne oramai, ché l tempo che nè imposto
più utilmente compartir si vuole».
Io volsi l viso, e l passo non men tosto,
appresso i savi, che parlavan sìe,
che landar mi facean di nullo costo.
Ed ecco piangere e cantar sudìe
Labïa mëa, Domine per modo
tal, che diletto e doglia parturìe.
«O dolce padre, che è quel chi odo?»,
comincia io; ed elli: «Ombre che vanno
forse di lor dover solvendo il nodo».
Sì come i peregrin pensosi fanno,
giugnendo per cammin gente non nota,
che si volgono ad essa e non restanno,
così di retro a noi, più tosto mota,
venendo e trapassando ci ammirava
danime turba tacita e devota.
Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,
palida ne la faccia, e tanto scema
che da lossa la pelle sinformava.
Non credo che così a buccia strema
Erisittone fosse fatto secco,
per digiunar, quando più nebbe tema.
Io dicea fra me stesso pensando: Ecco
la gente che perdé Ierusalemme,
quando Maria nel figlio diè di becco!
Parean locchiaie anella sanza gemme:
chi nel viso de li uomini legge omo
ben avria quivi conosciuta lemme.
Chi crederebbe che lodor dun pomo
sì governasse, generando brama,
e quel dunacqua, non sappiendo como?
Già era in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama,
ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi unombra e guardò fiso;
poi gridò forte: «Qual grazia mè questa?».
Mai non lavrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che laspetto in sé avea conquiso.
Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di Forese.
«Deh, non contendere a lasciutta scabbia
che mi scolora», pregava, «la pelle,
né a difetto di carne chio abbia;
ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
non rimaner che tu non mi favelle!».
«La faccia tua, chio lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia»,
rispuos io lui, «veggendola sì torta.
Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;
non mi far dir mentr io mi maraviglio,
ché mal può dir chi è pien daltra voglia».
Ed elli a me: «De letterno consiglio
cade vertù ne lacqua e ne la pianta
rimasa dietro ond io sì massottiglio.
Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e n sete qui si rifà santa.
Di bere e di mangiar naccende cura
lodor chesce del pomo e de lo sprazzo
che si distende su per sua verdura.
E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena, e dovria dir sollazzo,
ché quella voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire Elì,
quando ne liberò con la sua vena».
E io a lui: «Forese, da quel dì
nel qual mutasti mondo a miglior vita,
cinqu anni non son vòlti infino a qui.
Se prima fu la possa in te finita
di peccar più, che sovvenisse lora
del buon dolor cha Dio ne rimarita,
come se tu qua sù venuto ancora?
Io ti credea trovar là giù di sotto,
dove tempo per tempo si ristora».
Ond elli a me: «Sì tosto mha condotto
a ber lo dolce assenzo di martìri
la Nella mia con suo pianger dirotto.
Con suoi prieghi devoti e con sospiri
tratto mha de la costa ove saspetta,
e liberato mha de li altri giri.
Tanto è a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta;
ché la Barbagia di Sardigna assai
ne le femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov io la lasciai.
O dolce frate, che vuo tu chio dica?
Tempo futuro mè già nel cospetto,
cui non sarà quest ora molto antica,
nel qual sarà in pergamo interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
landar mostrando con le poppe il petto.
Quai barbare fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline?
Ma se le svergognate fosser certe
di quel che l ciel veloce loro ammanna,
già per urlare avrian le bocche aperte;
ché, se lantiveder qui non minganna,
prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna.
Deh, frate, or fa che più non mi ti celi!
vedi che non pur io, ma questa gente
tutta rimira là dove l sol veli».
Per chio a lui: «Se tu riduci a mente
qual fosti meco, e qual io teco fui,
ancor fia grave il memorar presente.
Di quella vita mi volse costui
che mi va innanzi, laltr ier, quando tonda
vi si mostrò la suora di colui»,
e l sol mostrai; «costui per la profonda
notte menato mha di veri morti
con questa vera carne che l seconda.
Indi mhan tratto sù li suoi conforti,
salendo e rigirando la montagna
che drizza voi che l mondo fece torti.
Tanto dice di farmi sua compagna
che io sarò là dove fia Beatrice;
quivi convien che sanza lui rimagna.
Virgilio è questi che così mi dice»,
e additalo; «e quest altro è quell ombra
per cuï scosse dianzi ogne pendice
lo vostro regno, che da sé lo sgombra».
Purgatorio · Canto XXIV
l dir landar, né landar lui più lento
facea, ma ragionando andavam forte,
sì come nave pinta da buon vento;
e lombre, che parean cose rimorte,
per le fosse de li occhi ammirazione
traean di me, di mio vivere accorte.
E io, continüando al mio sermone,
dissi: «Ella sen va sù forse più tarda
che non farebbe, per altrui cagione.
Ma dimmi, se tu sai, dov è Piccarda;
dimmi sio veggio da notar persona
tra questa gente che sì mi riguarda».
«La mia sorella, che tra bella e buona
non so qual fosse più, trïunfa lieta
ne lalto Olimpo già di sua corona».
Sì disse prima; e poi: «Qui non si vieta
di nominar ciascun, da chè sì munta
nostra sembianza via per la dïeta.
Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta,
Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
di là da lui più che laltre trapunta
ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:
dal Torso fu, e purga per digiuno
languille di Bolsena e la vernaccia».
Molti altri mi nomò ad uno ad uno;
e del nomar parean tutti contenti,
sì chio però non vidi un atto bruno.
Vidi per fame a vòto usar li denti
Ubaldin da la Pila e Bonifazio
che pasturò col rocco molte genti.
Vidi messer Marchese, chebbe spazio
già di bere a Forlì con men secchezza,
e sì fu tal, che non si sentì sazio.
Ma come fa chi guarda e poi sapprezza
più dun che daltro, fei a quel da Lucca,
che più parea di me aver contezza.
El mormorava; e non so che «Gentucca»
sentiv io là, ov el sentia la piaga
de la giustizia che sì li pilucca.
«O anima», diss io, «che par sì vaga
di parlar meco, fa sì chio tintenda,
e te e me col tuo parlare appaga».
«Femmina è nata, e non porta ancor benda»,
cominciò el, «che ti farà piacere
la mia città, come chom la riprenda.
Tu te nandrai con questo antivedere:
se nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti ancor le cose vere.
Ma dì si veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
Donne chavete intelletto damore».
E io a lui: «I mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
che ditta dentro vo significando».
«O frate, issa vegg io», diss elli, «il nodo
che l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo chi odo!
Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne;
e qual più a gradire oltre si mette,
non vede più da luno a laltro stilo»;
e, quasi contentato, si tacette.
Come li augei che vernan lungo l Nilo,
alcuna volta in aere fanno schiera,
poi volan più a fretta e vanno in filo,
così tutta la gente che lì era,
volgendo l viso, raffrettò suo passo,
e per magrezza e per voler leggera.
E come luom che di trottare è lasso,
lascia andar li compagni, e sì passeggia
fin che si sfoghi laffollar del casso,
sì lasciò trapassar la santa greggia
Forese, e dietro meco sen veniva,
dicendo: «Quando fia chio ti riveggia?».
«Non so», rispuos io lui, «quant io mi viva;
ma già non fïa il tornar mio tantosto,
chio non sia col voler prima a la riva;
però che l loco u fui a viver posto,
di giorno in giorno più di ben si spolpa,
e a trista ruina par disposto».
«Or va», diss el; «che quei che più nha colpa,
vegg ïo a coda duna bestia tratto
inver la valle ove mai non si scolpa.
La bestia ad ogne passo va più ratto,
crescendo sempre, fin chella il percuote,
e lascia il corpo vilmente disfatto.
Non hanno molto a volger quelle ruote»,
e drizzò li occhi al ciel, «che ti fia chiaro
ciò che l mio dir più dichiarar non puote.
Tu ti rimani omai; ché l tempo è caro
in questo regno, sì chio perdo troppo
venendo teco sì a paro a paro».
Qual esce alcuna volta di gualoppo
lo cavalier di schiera che cavalchi,
e va per farsi onor del primo intoppo,
tal si partì da noi con maggior valchi;
e io rimasi in via con esso i due
che fuor del mondo sì gran marescalchi.
E quando innanzi a noi intrato fue,
che li occhi miei si fero a lui seguaci,
come la mente a le parole sue,
parvermi i rami gravidi e vivaci
dun altro pomo, e non molto lontani
per esser pur allora vòlto in laci.
Vidi gente sott esso alzar le mani
e gridar non so che verso le fronde,
quasi bramosi fantolini e vani
che pregano, e l pregato non risponde,
ma, per fare esser ben la voglia acuta,
tien alto lor disio e nol nasconde.
Poi si partì sì come ricreduta;
e noi venimmo al grande arbore adesso,
che tanti prieghi e lagrime rifiuta.
«Trapassate oltre sanza farvi presso:
legno è più sù che fu morso da Eva,
e questa pianta si levò da esso».
Sì tra le frasche non so chi diceva;
per che Virgilio e Stazio e io, ristretti,
oltre andavam dal lato che si leva.
«Ricordivi», dicea, «di maladetti
nei nuvoli formati, che, satolli,
Tesëo combatter co doppi petti;
e de li Ebrei chal ber si mostrar molli,
per che no i volle Gedeon compagni,
quando inver Madïan discese i colli».
Sì accostati a lun di due vivagni
passammo, udendo colpe de la gola
seguite già da miseri guadagni.
Poi, rallargati per la strada sola,
ben mille passi e più ci portar oltre,
contemplando ciascun sanza parola.
«Che andate pensando sì voi sol tre?».
sùbita voce disse; ond io mi scossi
come fan bestie spaventate e poltre.
Drizzai la testa per veder chi fossi;
e già mai non si videro in fornace
vetri o metalli sì lucenti e rossi,
com io vidi un che dicea: «Sa voi piace
montare in sù, qui si convien dar volta;
quinci si va chi vuole andar per pace».
Laspetto suo mavea la vista tolta;
per chio mi volsi dietro a miei dottori,
com om che va secondo chelli ascolta.
E quale, annunziatrice de li albori,
laura di maggio movesi e olezza,
tutta impregnata da lerba e da fiori;
tal mi senti un vento dar per mezza
la fronte, e ben senti mover la piuma,
che fé sentir dambrosïa lorezza.
E senti dir: «Beati cui alluma
tanto di grazia, che lamor del gusto
nel petto lor troppo disir non fuma,
esurïendo sempre quanto è giusto!».
Purgatorio · Canto XXV
Ora era onde l salir non volea storpio;
ché l sole avëa il cerchio di merigge
lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:
per che, come fa luom che non saffigge
ma vassi a la via sua, che che li appaia,
se di bisogno stimolo il trafigge,
così intrammo noi per la callaia,
uno innanzi altro prendendo la scala
che per artezza i salitor dispaia.
E quale il cicognin che leva lala
per voglia di volare, e non sattenta
dabbandonar lo nido, e giù la cala;
tal era io con voglia accesa e spenta
di dimandar, venendo infino a latto
che fa colui cha dicer sargomenta.
Non lasciò, per landar che fosse ratto,
lo dolce padre mio, ma disse: «Scocca
larco del dir, che nfino al ferro hai tratto».
Allor sicuramente apri la bocca
e cominciai: «Come si può far magro
là dove luopo di nodrir non tocca?».
«Se tammentassi come Meleagro
si consumò al consumar dun stizzo,
non fora», disse, «a te questo sì agro;
e se pensassi come, al vostro guizzo,
guizza dentro a lo specchio vostra image,
ciò che par duro ti parrebbe vizzo.
Ma perché dentro a tuo voler tadage,
ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego
che sia or sanator de le tue piage».
«Se la veduta etterna li dislego»,
rispuose Stazio, «là dove tu sie,
discolpi me non potert io far nego».
Poi cominciò: «Se le parole mie,
figlio, la mente tua guarda e riceve,
lume ti fiero al come che tu die.
Sangue perfetto, che poi non si beve
da lassetate vene, e si rimane
quasi alimento che di mensa leve,
prende nel core a tutte membra umane
virtute informativa, come quello
cha farsi quelle per le vene vane.
Ancor digesto, scende ov è più bello
tacer che dire; e quindi poscia geme
sovr altrui sangue in natural vasello.
Ivi saccoglie luno e laltro insieme,
lun disposto a patire, e laltro a fare
per lo perfetto loco onde si preme;
e, giunto lui, comincia ad operare
coagulando prima, e poi avviva
ciò che per sua matera fé constare.
Anima fatta la virtute attiva
qual duna pianta, in tanto differente,
che questa è in via e quella è già a riva,
tanto ovra poi, che già si move e sente,
come spungo marino; e indi imprende
ad organar le posse ond è semente.
Or si spiega, figliuolo, or si distende
la virtù chè dal cor del generante,
dove natura a tutte membra intende.
Ma come danimal divegna fante,
non vedi tu ancor: quest è tal punto,
che più savio di te fé già errante,
sì che per sua dottrina fé disgiunto
da lanima il possibile intelletto,
perché da lui non vide organo assunto.
Apri a la verità che viene il petto;
e sappi che, sì tosto come al feto
larticular del cerebro è perfetto,
lo motor primo a lui si volge lieto
sovra tant arte di natura, e spira
spirito novo, di vertù repleto,
che ciò che trova attivo quivi, tira
in sua sustanzia, e fassi unalma sola,
che vive e sente e sé in sé rigira.
E perché meno ammiri la parola,
guarda il calor del sole che si fa vino,
giunto a lomor che de la vite cola.
Quando Làchesis non ha più del lino,
solvesi da la carne, e in virtute
ne porta seco e lumano e l divino:
laltre potenze tutte quante mute;
memoria, intelligenza e volontade
in atto molto più che prima agute.
Sanza restarsi, per sé stessa cade
mirabilmente a luna de le rive;
quivi conosce prima le sue strade.
Tosto che loco lì la circunscrive,
la virtù formativa raggia intorno
così e quanto ne le membra vive.
E come laere, quand è ben pïorno,
per laltrui raggio che n sé si reflette,
di diversi color diventa addorno;
così laere vicin quivi si mette
e in quella forma chè in lui suggella
virtüalmente lalma che ristette;
e simigliante poi a la fiammella
che segue il foco là vunque si muta,
segue lo spirto sua forma novella.
Però che quindi ha poscia sua paruta,
è chiamata ombra; e quindi organa poi
ciascun sentire infino a la veduta.
Quindi parliamo e quindi ridiam noi;
quindi facciam le lagrime e sospiri
che per lo monte aver sentiti puoi.
Secondo che ci affliggono i disiri
e li altri affetti, lombra si figura;
e quest è la cagion di che tu miri».
E già venuto a lultima tortura
sera per noi, e vòlto a la man destra,
ed eravamo attenti ad altra cura.
Quivi la ripa fiamma in fuor balestra,
e la cornice spira fiato in suso
che la reflette e via da lei sequestra;
ond ir ne convenia dal lato schiuso
ad uno ad uno; e io temëa l foco
quinci, e quindi temeva cader giuso.
Lo duca mio dicea: «Per questo loco
si vuol tenere a li occhi stretto il freno,
però cherrar potrebbesi per poco».
Summae Deus clementïae nel seno
al grande ardore allora udi cantando,
che di volger mi fé caler non meno;
e vidi spirti per la fiamma andando;
per chio guardava a loro e a miei passi
compartendo la vista a quando a quando.
Appresso il fine cha quell inno fassi,
gridavano alto: Virum non cognosco;
indi ricominciavan linno bassi.
Finitolo, anco gridavano: «Al bosco
si tenne Diana, ed Elice caccionne
che di Venere avea sentito il tòsco».
Indi al cantar tornavano; indi donne
gridavano e mariti che fuor casti
come virtute e matrimonio imponne.
E questo modo credo che lor basti
per tutto il tempo che l foco li abbruscia:
con tal cura conviene e con tai pasti
che la piaga da sezzo si ricuscia.
Purgatorio · Canto XXVI
Mentre che sì per lorlo, uno innanzi altro,
ce nandavamo, e spesso il buon maestro
diceami: «Guarda: giovi chio ti scaltro»;
feriami il sole in su lomero destro,
che già, raggiando, tutto loccidente
mutava in bianco aspetto di cilestro;
e io facea con lombra più rovente
parer la fiamma; e pur a tanto indizio
vidi molt ombre, andando, poner mente.
Questa fu la cagion che diede inizio
loro a parlar di me; e cominciarsi
a dir: «Colui non par corpo fittizio»;
poi verso me, quanto potëan farsi,
certi si fero, sempre con riguardo
di non uscir dove non fosser arsi.
«O tu che vai, non per esser più tardo,
ma forse reverente, a li altri dopo,
rispondi a me che n sete e n foco ardo.
Né solo a me la tua risposta è uopo;
ché tutti questi nhanno maggior sete
che dacqua fredda Indo o Etïopo.
Dinne com è che fai di te parete
al sol, pur come tu non fossi ancora
di morte intrato dentro da la rete».
Sì mi parlava un dessi; e io mi fora
già manifesto, sio non fossi atteso
ad altra novità chapparve allora;
ché per lo mezzo del cammino acceso
venne gente col viso incontro a questa,
la qual mi fece a rimirar sospeso.
Lì veggio dogne parte farsi presta
ciascun ombra e basciarsi una con una
sanza restar, contente a brieve festa;
così per entro loro schiera bruna
sammusa luna con laltra formica,
forse a spïar lor via e lor fortuna.
Tosto che parton laccoglienza amica,
prima che l primo passo lì trascorra,
sopragridar ciascuna saffatica:
la nova gente: «Soddoma e Gomorra»;
e laltra: «Ne la vacca entra Pasife,
perché l torello a sua lussuria corra».
Poi, come grue cha le montagne Rife
volasser parte, e parte inver larene,
queste del gel, quelle del sole schife,
luna gente sen va, laltra sen vene;
e tornan, lagrimando, a primi canti
e al gridar che più lor si convene;
e raccostansi a me, come davanti,
essi medesmi che mavean pregato,
attenti ad ascoltar ne lor sembianti.
Io, che due volte avea visto lor grato,
incominciai: «O anime sicure
daver, quando che sia, di pace stato,
non son rimase acerbe né mature
le membra mie di là, ma son qui meco
col sangue suo e con le sue giunture.
Quinci sù vo per non esser più cieco;
donna è di sopra che macquista grazia,
per che l mortal per vostro mondo reco.
Ma se la vostra maggior voglia sazia
tosto divegna, sì che l ciel valberghi
chè pien damore e più ampio si spazia,
ditemi, acciò chancor carte ne verghi,
chi siete voi, e chi è quella turba
che se ne va di retro a vostri terghi».
Non altrimenti stupido si turba
lo montanaro, e rimirando ammuta,
quando rozzo e salvatico sinurba,
che ciascun ombra fece in sua paruta;
ma poi che furon di stupore scarche,
lo qual ne li alti cuor tosto sattuta,
«Beato te, che de le nostre marche»,
ricominciò colei che pria minchiese,
«per morir meglio, esperïenza imbarche!
La gente che non vien con noi, offese
di ciò per che già Cesar, trïunfando,
“Regina” contra sé chiamar sintese:
però si parton “Soddoma” gridando,
rimproverando a sé com hai udito,
e aiutan larsura vergognando.
Nostro peccato fu ermafrodito;
ma perché non servammo umana legge,
seguendo come bestie lappetito,
in obbrobrio di noi, per noi si legge,
quando partinci, il nome di colei
che simbestiò ne le mbestiate schegge.
Or sai nostri atti e di che fummo rei:
se forse a nome vuo saper chi semo,
tempo non è di dire, e non saprei.
Farotti ben di me volere scemo:
son Guido Guinizzelli, e già mi purgo
per ben dolermi prima cha lo stremo».
Quali ne la tristizia di Ligurgo
si fer due figli a riveder la madre,
tal mi fec io, ma non a tanto insurgo,
quand io odo nomar sé stesso il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime damore usar dolci e leggiadre;
e sanza udire e dir pensoso andai
lunga fïata rimirando lui,
né, per lo foco, in là più mappressai.
Poi che di riguardar pasciuto fui,
tutto moffersi pronto al suo servigio
con laffermar che fa credere altrui.
Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio,
per quel chi odo, in me, e tanto chiaro,
che Letè nol può tòrre né far bigio.
Ma se le tue parole or ver giuraro,
dimmi che è cagion per che dimostri
nel dire e nel guardar davermi caro».
E io a lui: «Li dolci detti vostri,
che, quanto durerà luso moderno,
faranno cari ancora i loro incostri».
«O frate», disse, «questi chio ti cerno
col dito», e additò un spirto innanzi,
«fu miglior fabbro del parlar materno.
Versi damore e prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon chavanzi.
A voce più chal ver drizzan li volti,
e così ferman sua oppinïone
prima charte o ragion per lor sascolti.
Così fer molti antichi di Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che lha vinto il ver con più persone.
Or se tu hai sì ampio privilegio,
che licito ti sia landare al chiostro
nel quale è Cristo abate del collegio,
falli per me un dir dun paternostro,
quanto bisogna a noi di questo mondo,
dove poter peccar non è più nostro».
Poi, forse per dar luogo altrui secondo
che presso avea, disparve per lo foco,
come per lacqua il pesce andando al fondo.
Io mi fei al mostrato innanzi un poco,
e dissi chal suo nome il mio disire
apparecchiava grazïoso loco.
El cominciò liberamente a dire:
«Tan mabellis vostre cortes deman,
quieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi quesper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de lescalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!».
Poi sascose nel foco che li affina.
Purgatorio · Canto XXVII
Sì come quando i primi raggi vibra
là dove il suo fattor lo sangue sparse,
cadendo Ibero sotto lalta Libra,
e londe in Gange da nona rïarse,
sì stava il sole; onde l giorno sen giva,
come langel di Dio lieto ci apparse.
Fuor de la fiamma stava in su la riva,
e cantava Beati mundo corde!
in voce assai più che la nostra viva.
Poscia «Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
e al cantar di là non siate sorde»,
ci disse come noi li fummo presso;
per chio divenni tal, quando lo ntesi,
qual è colui che ne la fossa è messo.
In su le man commesse mi protesi,
guardando il foco e imaginando forte
umani corpi già veduti accesi.
Volsersi verso me le buone scorte;
e Virgilio mi disse: «Figliuol mio,
qui può esser tormento, ma non morte.
Ricorditi, ricorditi! E se io
sovresso Gerïon ti guidai salvo,
che farò ora presso più a Dio?
Credi per certo che se dentro a lalvo
di questa fiamma stessi ben mille anni,
non ti potrebbe far dun capel calvo.
E se tu forse credi chio tinganni,
fatti ver lei, e fatti far credenza
con le tue mani al lembo di tuoi panni.
Pon giù omai, pon giù ogne temenza;
volgiti in qua e vieni: entra sicuro!».
E io pur fermo e contra coscïenza.
Quando mi vide star pur fermo e duro,
turbato un poco disse: «Or vedi, figlio:
tra Bëatrice e te è questo muro».
Come al nome di Tisbe aperse il ciglio
Piramo in su la morte, e riguardolla,
allor che l gelso diventò vermiglio;
così, la mia durezza fatta solla,
mi volsi al savio duca, udendo il nome
che ne la mente sempre mi rampolla.
Ond ei crollò la fronte e disse: «Come!
volenci star di qua?»; indi sorrise
come al fanciul si fa chè vinto al pome.
Poi dentro al foco innanzi mi si mise,
pregando Stazio che venisse retro,
che pria per lunga strada ci divise.
Sì com fui dentro, in un bogliente vetro
gittato mi sarei per rinfrescarmi,
tant era ivi lo ncendio sanza metro.
Lo dolce padre mio, per confortarmi,
pur di Beatrice ragionando andava,
dicendo: «Li occhi suoi già veder parmi».
Guidavaci una voce che cantava
di là; e noi, attenti pur a lei,
venimmo fuor là ove si montava.
Venite, benedicti Patris mei,
sonò dentro a un lume che lì era,
tal che mi vinse e guardar nol potei.
«Lo sol sen va», soggiunse, «e vien la sera;
non varrestate, ma studiate il passo,
mentre che loccidente non si annera».
Dritta salia la via per entro l sasso
verso tal parte chio toglieva i raggi
dinanzi a me del sol chera già basso.
E di pochi scaglion levammo i saggi,
che l sol corcar, per lombra che si spense,
sentimmo dietro e io e li miei saggi.
E pria che n tutte le sue parti immense
fosse orizzonte fatto duno aspetto,
e notte avesse tutte sue dispense,
ciascun di noi dun grado fece letto;
ché la natura del monte ci affranse
la possa del salir più e l diletto.
Quali si stanno ruminando manse
le capre, state rapide e proterve
sovra le cime avante che sien pranse,
tacite a lombra, mentre che l sol ferve,
guardate dal pastor, che n su la verga
poggiato sè e lor di posa serve;
e quale il mandrïan che fori alberga,
lungo il pecuglio suo queto pernotta,
guardando perché fiera non lo sperga;
tali eravamo tutti e tre allotta,
io come capra, ed ei come pastori,
fasciati quinci e quindi dalta grotta.
Poco parer potea lì del di fori;
ma, per quel poco, vedea io le stelle
di lor solere e più chiare e maggiori.
Sì ruminando e sì mirando in quelle,
mi prese il sonno; il sonno che sovente,
anzi che l fatto sia, sa le novelle.
Ne lora, credo, che de lorïente
prima raggiò nel monte Citerea,
che di foco damor par sempre ardente,
giovane e bella in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea:
«Sappia qualunque il mio nome dimanda
chi mi son Lia, e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda.
Per piacermi a lo specchio, qui maddorno;
ma mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio, e siede tutto giorno.
Ell è di suoi belli occhi veder vaga
com io de laddornarmi con le mani;
lei lo vedere, e me lovrare appaga».
E già per li splendori antelucani,
che tanto a pellegrin surgon più grati,
quanto, tornando, albergan men lontani,
le tenebre fuggian da tutti lati,
e l sonno mio con esse; ond io levami,
veggendo i gran maestri già levati.
«Quel dolce pome che per tanti rami
cercando va la cura de mortali,
oggi porrà in pace le tue fami».
Virgilio inverso me queste cotali
parole usò; e mai non furo strenne
che fosser di piacere a queste iguali.
Tanto voler sopra voler mi venne
de lesser sù, chad ogne passo poi
al volo mi sentia crescer le penne.
Come la scala tutta sotto noi
fu corsa e fummo in su l grado superno,
in me ficcò Virgilio li occhi suoi,
e disse: «Il temporal foco e letterno
veduto hai, figlio; e se venuto in parte
dov io per me più oltre non discerno.
Tratto tho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se de lerte vie, fuor se de larte.
Vedi lo sol che n fronte ti riluce;
vedi lerbette, i fiori e li arbuscelli
che qui la terra sol da sé produce.
Mentre che vegnan lieti li occhi belli
che, lagrimando, a te venir mi fenno,
seder ti puoi e puoi andar tra elli.
Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per chio te sovra te corono e mitrio».
Purgatorio · Canto XXVIII
Vago già di cercar dentro e dintorno
la divina foresta spessa e viva,
cha li occhi temperava il novo giorno,
sanza più aspettar, lasciai la riva,
prendendo la campagna lento lento
su per lo suol che dogne parte auliva.
Unaura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte
non di più colpo che soave vento;
per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u la prim ombra gitta il santo monte;
non però dal loro esser dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser doperare ogne lor arte;
ma con piena letizia lore prime,
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone a le sue rime,
tal qual di ramo in ramo si raccoglie
per la pineta in su l lito di Chiassi,
quand Ëolo scilocco fuor discioglie.
Già mavean trasportato i lenti passi
dentro a la selva antica tanto, chio
non potea rivedere ond io mi ntrassi;
ed ecco più andar mi tolse un rio,
che nver sinistra con sue picciole onde
piegava lerba che n sua ripa uscìo.
Tutte lacque che son di qua più monde,
parrieno avere in sé mistura alcuna
verso di quella, che nulla nasconde,
avvegna che si mova bruna bruna
sotto lombra perpetüa, che mai
raggiar non lascia sole ivi né luna.
Coi piè ristetti e con li occhi passai
di là dal fiumicello, per mirare
la gran varïazion di freschi mai;
e là mapparve, sì com elli appare
subitamente cosa che disvia
per maraviglia tutto altro pensare,
una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond era pinta tutta la sua via.
«Deh, bella donna, che a raggi damore
ti scaldi, si vo credere a sembianti
che soglion esser testimon del core,
vegnati in voglia di trarreti avanti»,
diss io a lei, «verso questa rivera,
tanto chio possa intender che tu canti.
Tu mi fai rimembrar dove e qual era
Proserpina nel tempo che perdette
la madre lei, ed ella primavera».
Come si volge, con le piante strette
a terra e intra sé, donna che balli,
e piede innanzi piede a pena mette,
volsesi in su i vermigli e in su i gialli
fioretti verso me, non altrimenti
che vergine che li occhi onesti avvalli;
e fece i prieghi miei esser contenti,
sì appressando sé, che l dolce suono
veniva a me co suoi intendimenti.
Tosto che fu là dove lerbe sono
bagnate già da londe del bel fiume,
di levar li occhi suoi mi fece dono.
Non credo che splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere, trafitta
dal figlio fuor di tutto suo costume.
Ella ridea da laltra riva dritta,
trattando più color con le sue mani,
che lalta terra sanza seme gitta.
Tre passi ci facea il fiume lontani;
ma Elesponto, là ve passò Serse,
ancora freno a tutti orgogli umani,
più odio da Leandro non sofferse
per mareggiare intra Sesto e Abido,
che quel da me perch allor non saperse.
«Voi siete nuovi, e forse perch io rido»,
cominciò ella, «in questo luogo eletto
a lumana natura per suo nido,
maravigliando tienvi alcun sospetto;
ma luce rende il salmo Delectasti,
che puote disnebbiar vostro intelletto.
E tu che se dinanzi e mi pregasti,
dì saltro vuoli udir; chi venni presta
ad ogne tua question tanto che basti».
«Lacqua», diss io, «e l suon de la foresta
impugnan dentro a me novella fede
di cosa chio udi contraria a questa».
Ond ella: «Io dicerò come procede
per sua cagion ciò chammirar ti face,
e purgherò la nebbia che ti fiede.
Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace,
fé luom buono e a bene, e questo loco
diede per arr a lui detterna pace.
Per sua difalta qui dimorò poco;
per sua difalta in pianto e in affanno
cambiò onesto riso e dolce gioco.
Perché l turbar che sotto da sé fanno
lessalazion de lacqua e de la terra,
che quanto posson dietro al calor vanno,
a luomo non facesse alcuna guerra,
questo monte salìo verso l ciel tanto,
e libero nè dindi ove si serra.
Or perché in circuito tutto quanto
laere si volge con la prima volta,
se non li è rotto il cerchio dalcun canto,
in questa altezza chè tutta disciolta
ne laere vivo, tal moto percuote,
e fa sonar la selva perch è folta;
e la percossa pianta tanto puote,
che de la sua virtute laura impregna
e quella poi, girando, intorno scuote;
e laltra terra, secondo chè degna
per sé e per suo ciel, concepe e figlia
di diverse virtù diverse legna.
Non parrebbe di là poi maraviglia,
udito questo, quando alcuna pianta
sanza seme palese vi sappiglia.
E saper dei che la campagna santa
dove tu se, dogne semenza è piena,
e frutto ha in sé che di là non si schianta.
Lacqua che vedi non surge di vena
che ristori vapor che gel converta,
come fiume chacquista e perde lena;
ma esce di fontana salda e certa,
che tanto dal voler di Dio riprende,
quant ella versa da due parti aperta.
Da questa parte con virtù discende
che toglie altrui memoria del peccato;
da laltra dogne ben fatto la rende.
Quinci Letè; così da laltro lato
Eünoè si chiama, e non adopra
se quinci e quindi pria non è gustato:
a tutti altri sapori esto è di sopra.
E avvegna chassai possa esser sazia
la sete tua perch io più non ti scuopra,
darotti un corollario ancor per grazia;
né credo che l mio dir ti sia men caro,
se oltre promession teco si spazia.
Quelli chanticamente poetaro
letà de loro e suo stato felice,
forse in Parnaso esto loco sognaro.
Qui fu innocente lumana radice;
qui primavera sempre e ogne frutto;
nettare è questo di che ciascun dice».
Io mi rivolsi n dietro allora tutto
a miei poeti, e vidi che con riso
udito avëan lultimo costrutto;
poi a la bella donna torna il viso.
Purgatorio · Canto XXIX
Cantando come donna innamorata,
continüò col fin di sue parole:
Beati quorum tecta sunt peccata!.
E come ninfe che si givan sole
per le salvatiche ombre, disïando
qual di veder, qual di fuggir lo sole,
allor si mosse contra l fiume, andando
su per la riva; e io pari di lei,
picciol passo con picciol seguitando.
Non eran cento tra suoi passi e miei,
quando le ripe igualmente dier volta,
per modo cha levante mi rendei.
Né ancor fu così nostra via molta,
quando la donna tutta a me si torse,
dicendo: «Frate mio, guarda e ascolta».
Ed ecco un lustro sùbito trascorse
da tutte parti per la gran foresta,
tal che di balenar mi mise in forse.
Ma perché l balenar, come vien, resta,
e quel, durando, più e più splendeva,
nel mio pensier dicea: Che cosa è questa?.
E una melodia dolce correva
per laere luminoso; onde buon zelo
mi fé riprender lardimento dEva,
che là dove ubidia la terra e l cielo,
femmina, sola e pur testé formata,
non sofferse di star sotto alcun velo;
sotto l qual se divota fosse stata,
avrei quelle ineffabili delizie
sentite prima e più lunga fïata.
Mentr io mandava tra tante primizie
de letterno piacer tutto sospeso,
e disïoso ancora a più letizie,
dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,
ci si fé laere sotto i verdi rami;
e l dolce suon per canti era già inteso.
O sacrosante Vergini, se fami,
freddi o vigilie mai per voi soffersi,
cagion mi sprona chio mercé vi chiami.
Or convien che Elicona per me versi,
e Uranìe maiuti col suo coro
forti cose a pensar mettere in versi.
Poco più oltre, sette alberi doro
falsava nel parere il lungo tratto
del mezzo chera ancor tra noi e loro;
ma quand i fui sì presso di lor fatto,
che lobietto comun, che l senso inganna,
non perdea per distanza alcun suo atto,
la virtù cha ragion discorso ammanna,
sì com elli eran candelabri apprese,
e ne le voci del cantare Osanna.
Di sopra fiammeggiava il bello arnese
più chiaro assai che luna per sereno
di mezza notte nel suo mezzo mese.
Io mi rivolsi dammirazion pieno
al buon Virgilio, ed esso mi rispuose
con vista carca di stupor non meno.
Indi rendei laspetto a lalte cose
che si movieno incontr a noi sì tardi,
che foran vinte da novelle spose.
La donna mi sgridò: «Perché pur ardi
sì ne laffetto de le vive luci,
e ciò che vien di retro a lor non guardi?».
Genti vid io allor, come a lor duci,
venire appresso, vestite di bianco;
e tal candor di qua già mai non fuci.
Lacqua imprendëa dal sinistro fianco,
e rendea me la mia sinistra costa,
sio riguardava in lei, come specchio anco.
Quand io da la mia riva ebbi tal posta,
che solo il fiume mi facea distante,
per veder meglio ai passi diedi sosta,
e vidi le fiammelle andar davante,
lasciando dietro a sé laere dipinto,
e di tratti pennelli avean sembiante;
sì che lì sopra rimanea distinto
di sette liste, tutte in quei colori
onde fa larco il Sole e Delia il cinto.
Questi ostendali in dietro eran maggiori
che la mia vista; e, quanto a mio avviso,
diece passi distavan quei di fori.
Sotto così bel ciel com io diviso,
ventiquattro seniori, a due a due,
coronati venien di fiordaliso.
Tutti cantavan: «Benedicta tue
ne le figlie dAdamo, e benedette
sieno in etterno le bellezze tue!».
Poscia che i fiori e laltre fresche erbette
a rimpetto di me da laltra sponda
libere fuor da quelle genti elette,
sì come luce luce in ciel seconda,
vennero appresso lor quattro animali,
coronati ciascun di verde fronda.
Ognuno era pennuto di sei ali;
le penne piene docchi; e li occhi dArgo,
se fosser vivi, sarebber cotali.
A descriver lor forme più non spargo
rime, lettor; chaltra spesa mi strigne,
tanto cha questa non posso esser largo;
ma leggi Ezechïel, che li dipigne
come li vide da la fredda parte
venir con vento e con nube e con igne;
e quali i troverai ne le sue carte,
tali eran quivi, salvo cha le penne
Giovanni è meco e da lui si diparte.
Lo spazio dentro a lor quattro contenne
un carro, in su due rote, trïunfale,
chal collo dun grifon tirato venne.
Esso tendeva in sù luna e laltra ale
tra la mezzana e le tre e tre liste,
sì cha nulla, fendendo, facea male.
Tanto salivan che non eran viste;
le membra doro avea quant era uccello,
e bianche laltre, di vermiglio miste.
Non che Roma di carro così bello
rallegrasse Affricano, o vero Augusto,
ma quel del Sol saria pover con ello;
quel del Sol che, svïando, fu combusto
per lorazion de la Terra devota,
quando fu Giove arcanamente giusto.
Tre donne in giro da la destra rota
venian danzando; luna tanto rossa
cha pena fora dentro al foco nota;
laltr era come se le carni e lossa
fossero state di smeraldo fatte;
la terza parea neve testé mossa;
e or parëan da la bianca tratte,
or da la rossa; e dal canto di questa
laltre toglien landare e tarde e ratte.
Da la sinistra quattro facean festa,
in porpore vestite, dietro al modo
duna di lor chavea tre occhi in testa.
Appresso tutto il pertrattato nodo
vidi due vecchi in abito dispari,
ma pari in atto e onesto e sodo.
Lun si mostrava alcun de famigliari
di quel sommo Ipocràte che natura
a li animali fé chell ha più cari;
mostrava laltro la contraria cura
con una spada lucida e aguta,
tal che di qua dal rio mi fé paura.
Poi vidi quattro in umile paruta;
e di retro da tutti un vecchio solo
venir, dormendo, con la faccia arguta.
E questi sette col primaio stuolo
erano abitüati, ma di gigli
dintorno al capo non facëan brolo,
anzi di rose e daltri fior vermigli;
giurato avria poco lontano aspetto
che tutti ardesser di sopra da cigli.
E quando il carro a me fu a rimpetto,
un tuon sudì, e quelle genti degne
parvero aver landar più interdetto,
fermandosi ivi con le prime insegne.
Purgatorio · Canto XXX
Quando il settentrïon del primo cielo,
che né occaso mai seppe né orto
né daltra nebbia che di colpa velo,
e che faceva lì ciascun accorto
di suo dover, come l più basso face
qual temon gira per venire a porto,
fermo saffisse: la gente verace,
venuta prima tra l grifone ed esso,
al carro volse sé come a sua pace;
e un di loro, quasi da ciel messo,
Veni, sponsa, de Libano cantando
gridò tre volte, e tutti li altri appresso.
Quali i beati al novissimo bando
surgeran presti ognun di sua caverna,
la revestita voce alleluiando,
cotali in su la divina basterna
si levar cento, ad vocem tanti senis,
ministri e messaggier di vita etterna.
Tutti dicean: Benedictus qui venis!,
e fior gittando e di sopra e dintorno,
Manibus, oh, date lilïa plenis!.
Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte orïental tutta rosata,
e laltro ciel di bel sereno addorno;
e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che per temperanza di vapori
locchio la sostenea lunga fïata:
così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido vel cinta duliva
donna mapparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.
E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato cha la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
dantico amor sentì la gran potenza.
Tosto che ne la vista mi percosse
lalta virtù che già mavea trafitto
prima chio fuor di püerizia fosse,
volsimi a la sinistra col respitto
col quale il fantolin corre a la mamma
quando ha paura o quando elli è afflitto,
per dicere a Virgilio: Men che dramma
di sangue mè rimaso che non tremi:
conosco i segni de lantica fiamma.
Ma Virgilio navea lasciati scemi
di sé, Virgilio dolcissimo patre,
Virgilio a cui per mia salute diemi;
né quantunque perdeo lantica matre,
valse a le guance nette di rugiada,
che, lagrimando, non tornasser atre.
«Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora;
ché pianger ti conven per altra spada».
Quasi ammiraglio che in poppa e in prora
viene a veder la gente che ministra
per li altri legni, e a ben far lincora;
in su la sponda del carro sinistra,
quando mi volsi al suon del nome mio,
che di necessità qui si registra,
vidi la donna che pria mappario
velata sotto langelica festa,
drizzar li occhi ver me di qua dal rio.
Tutto che l vel che le scendea di testa,
cerchiato de le fronde di Minerva,
non la lasciasse parer manifesta,
regalmente ne latto ancor proterva
continüò come colui che dice
e l più caldo parlar dietro reserva:
«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti daccedere al monte?
non sapei tu che qui è luom felice?».
Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a lerba,
tanta vergogna mi gravò la fronte.
Così la madre al figlio par superba,
com ella parve a me; perché damaro
sente il sapor de la pietade acerba.
Ella si tacque; e li angeli cantaro
di sùbito In te, Domine, speravi;
ma oltre pedes meos non passaro.
Sì come neve tra le vive travi
per lo dosso dItalia si congela,
soffiata e stretta da li venti schiavi,
poi, liquefatta, in sé stessa trapela,
pur che la terra che perde ombra spiri,
sì che par foco fonder la candela;
così fui sanza lagrime e sospiri
anzi l cantar di quei che notan sempre
dietro a le note de li etterni giri;
ma poi che ntesi ne le dolci tempre
lor compatire a me, par che se detto
avesser: Donna, perché sì lo stempre?,
lo gel che mera intorno al cor ristretto,
spirito e acqua fessi, e con angoscia
de la bocca e de li occhi uscì del petto.
Ella, pur ferma in su la detta coscia
del carro stando, a le sustanze pie
volse le sue parole così poscia:
«Voi vigilate ne letterno die,
sì che notte né sonno a voi non fura
passo che faccia il secol per sue vie;
onde la mia risposta è con più cura
che mintenda colui che di là piagne,
perché sia colpa e duol duna misura.
Non pur per ovra de le rote magne,
che drizzan ciascun seme ad alcun fine
secondo che le stelle son compagne,
ma per larghezza di grazie divine,
che sì alti vapori hanno a lor piova,
che nostre viste là non van vicine,
questi fu tal ne la sua vita nova
virtüalmente, chogne abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova.
Ma tanto più maligno e più silvestro
si fa l terren col mal seme e non cólto,
quant elli ha più di buon vigor terrestro.
Alcun tempo il sostenni col mio volto:
mostrando li occhi giovanetti a lui,
meco il menava in dritta parte vòlto.
Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui.
Quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta mera,
fu io a lui men cara e men gradita;
e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false,
che nulla promession rendono intera.
Né limpetrare ispirazion mi valse,
con le quali e in sogno e altrimenti
lo rivocai: sì poco a lui ne calse!
Tanto giù cadde, che tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti.
Per questo visitai luscio di morti,
e a colui che lha qua sù condotto,
li prieghi miei, piangendo, furon porti.
Alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Letè si passasse e tal vivanda
fosse gustata sanza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda».
Purgatorio · Canto XXXI
«O tu che se di là dal fiume sacro»,
volgendo suo parlare a me per punta,
che pur per taglio mera paruto acro,
ricominciò, seguendo sanza cunta,
«dì, dì se questo è vero: a tanta accusa
tua confession conviene esser congiunta».
Era la mia virtù tanto confusa,
che la voce si mosse, e pria si spense
che da li organi suoi fosse dischiusa.
Poco sofferse; poi disse: «Che pense?
Rispondi a me; ché le memorie triste
in te non sono ancor da lacqua offense».
Confusione e paura insieme miste
mi pinsero un tal «sì» fuor de la bocca,
al quale intender fuor mestier le viste.
Come balestro frange, quando scocca
da troppa tesa, la sua corda e larco,
e con men foga lasta il segno tocca,
sì scoppia io sottesso grave carco,
fuori sgorgando lagrime e sospiri,
e la voce allentò per lo suo varco.
Ond ella a me: «Per entro i mie disiri,
che ti menavano ad amar lo bene
di là dal qual non è a che saspiri,
quai fossi attraversati o quai catene
trovasti, per che del passare innanzi
dovessiti così spogliar la spene?
E quali agevolezze o quali avanzi
ne la fronte de li altri si mostraro,
per che dovessi lor passeggiare anzi?».
Dopo la tratta dun sospiro amaro,
a pena ebbi la voce che rispuose,
e le labbra a fatica la formaro.
Piangendo dissi: «Le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che l vostro viso si nascose».
Ed ella: «Se tacessi o se negassi
ciò che confessi, non fora men nota
la colpa tua: da tal giudice sassi!
Ma quando scoppia de la propria gota
laccusa del peccato, in nostra corte
rivolge sé contra l taglio la rota.
Tuttavia, perché mo vergogna porte
del tuo errore, e perché altra volta,
udendo le serene, sie più forte,
pon giù il seme del piangere e ascolta:
sì udirai come in contraria parte
mover dovieti mia carne sepolta.
Mai non tappresentò natura o arte
piacer, quanto le belle membra in chio
rinchiusa fui, e che so n terra sparte;
e se l sommo piacer sì ti fallio
per la mia morte, qual cosa mortale
dovea poi trarre te nel suo disio?
Ben ti dovevi, per lo primo strale
de le cose fallaci, levar suso
di retro a me che non era più tale.
Non ti dovea gravar le penne in giuso,
ad aspettar più colpo, o pargoletta
o altra novità con sì breve uso.
Novo augelletto due o tre aspetta;
ma dinanzi da li occhi di pennuti
rete si spiega indarno o si saetta».
Quali fanciulli, vergognando, muti
con li occhi a terra stannosi, ascoltando
e sé riconoscendo e ripentuti,
tal mi stav io; ed ella disse: «Quando
per udir se dolente, alza la barba,
e prenderai più doglia riguardando».
Con men di resistenza si dibarba
robusto cerro, o vero al nostral vento
o vero a quel de la terra di Iarba,
chio non levai al suo comando il mento;
e quando per la barba il viso chiese,
ben conobbi il velen de largomento.
E come la mia faccia si distese,
posarsi quelle prime creature
da loro aspersïon locchio comprese;
e le mie luci, ancor poco sicure,
vider Beatrice volta in su la fiera
chè sola una persona in due nature.
Sotto l suo velo e oltre la rivera
vincer pariemi più sé stessa antica,
vincer che laltre qui, quand ella cera.
Di penter sì mi punse ivi lortica,
che di tutte altre cose qual mi torse
più nel suo amor, più mi si fé nemica.
Tanta riconoscenza il cor mi morse,
chio caddi vinto; e quale allora femmi,
salsi colei che la cagion mi porse.
Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi,
la donna chio avea trovata sola
sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!».
Tratto mavea nel fiume infin la gola,
e tirandosi me dietro sen giva
sovresso lacqua lieve come scola.
Quando fui presso a la beata riva,
Asperges me sì dolcemente udissi,
che nol so rimembrar, non chio lo scriva.
La bella donna ne le braccia aprissi;
abbracciommi la testa e mi sommerse
ove convenne chio lacqua inghiottissi.
Indi mi tolse, e bagnato mofferse
dentro a la danza de le quattro belle;
e ciascuna del braccio mi coperse.
«Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle;
pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo
lume chè dentro aguzzeranno i tuoi
le tre di là, che miran più profondo».
Così cantando cominciaro; e poi
al petto del grifon seco menarmi,
ove Beatrice stava volta a noi.
Disser: «Fa che le viste non risparmi;
posto tavem dinanzi a li smeraldi
ond Amor già ti trasse le sue armi».
Mille disiri più che fiamma caldi
strinsermi li occhi a li occhi rilucenti,
che pur sopra l grifone stavan saldi.
Come in lo specchio il sol, non altrimenti
la doppia fiera dentro vi raggiava,
or con altri, or con altri reggimenti.
Pensa, lettor, sio mi maravigliava,
quando vedea la cosa in sé star queta,
e ne lidolo suo si trasmutava.
Mentre che piena di stupore e lieta
lanima mia gustava di quel cibo
che, saziando di sé, di sé asseta,
sé dimostrando di più alto tribo
ne li atti, laltre tre si fero avanti,
danzando al loro angelico caribo.
«Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi»,
era la sua canzone, «al tuo fedele
che, per vederti, ha mossi passi tanti!
Per grazia fa noi grazia che disvele
a lui la bocca tua, sì che discerna
la seconda bellezza che tu cele».
O isplendor di viva luce etterna,
chi palido si fece sotto lombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel tadombra,
quando ne laere aperto ti solvesti?
Purgatorio · Canto XXXII
Tant eran li occhi miei fissi e attenti
a disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi meran tutti spenti.
Ed essi quinci e quindi avien parete
di non caler—così lo santo riso
a sé traéli con lantica rete!—;
quando per forza mi fu vòlto il viso
ver la sinistra mia da quelle dee,
perch io udi da loro un «Troppo fiso!»;
e la disposizion cha veder èe
ne li occhi pur testé dal sol percossi,
sanza la vista alquanto esser mi fée.
Ma poi chal poco il viso riformossi
(e dico al poco per rispetto al molto
sensibile onde a forza mi rimossi),
vidi n sul braccio destro esser rivolto
lo glorïoso essercito, e tornarsi
col sole e con le sette fiamme al volto.
Come sotto li scudi per salvarsi
volgesi schiera, e sé gira col segno,
prima che possa tutta in sé mutarsi;
quella milizia del celeste regno
che procedeva, tutta trapassonne
pria che piegasse il carro il primo legno.
Indi a le rote si tornar le donne,
e l grifon mosse il benedetto carco
sì, che però nulla penna crollonne.
La bella donna che mi trasse al varco
e Stazio e io seguitavam la rota
che fé lorbita sua con minore arco.
Sì passeggiando lalta selva vòta,
colpa di quella chal serpente crese,
temprava i passi unangelica nota.
Forse in tre voli tanto spazio prese
disfrenata saetta, quanto eramo
rimossi, quando Bëatrice scese.
Io senti mormorare a tutti «Adamo»;
poi cerchiaro una pianta dispogliata
di foglie e daltra fronda in ciascun ramo.
La coma sua, che tanto si dilata
più quanto più è sù, fora da lIndi
ne boschi lor per altezza ammirata.
«Beato se, grifon, che non discindi
col becco desto legno dolce al gusto,
poscia che mal si torce il ventre quindi».
Così dintorno a lalbero robusto
gridaron li altri; e lanimal binato:
«Sì si conserva il seme dogne giusto».
E vòlto al temo chelli avea tirato,
trasselo al piè de la vedova frasca,
e quel di lei a lei lasciò legato.
Come le nostre piante, quando casca
giù la gran luce mischiata con quella
che raggia dietro a la celeste lasca,
turgide fansi, e poi si rinovella
di suo color ciascuna, pria che l sole
giunga li suoi corsier sotto altra stella;
men che di rose e più che di vïole
colore aprendo, sinnovò la pianta,
che prima avea le ramora sì sole.
Io non lo ntesi, né qui non si canta
linno che quella gente allor cantaro,
né la nota soffersi tutta quanta.
Sio potessi ritrar come assonnaro
li occhi spietati udendo di Siringa,
li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;
come pintor che con essempro pinga,
disegnerei com io maddormentai;
ma qual vuol sia che lassonnar ben finga.
Però trascorro a quando mi svegliai,
e dico chun splendor mi squarciò l velo
del sonno, e un chiamar: «Surgi: che fai?».
Quali a veder de fioretti del melo
che del suo pome li angeli fa ghiotti
e perpetüe nozze fa nel cielo,
Pietro e Giovanni e Iacopo condotti
e vinti, ritornaro a la parola
da la qual furon maggior sonni rotti,
e videro scemata loro scuola
così di Moïsè come dElia,
e al maestro suo cangiata stola;
tal torna io, e vidi quella pia
sovra me starsi che conducitrice
fu de miei passi lungo l fiume pria.
E tutto in dubbio dissi: «Ov è Beatrice?».
Ond ella: «Vedi lei sotto la fronda
nova sedere in su la sua radice.
Vedi la compagnia che la circonda:
li altri dopo l grifon sen vanno suso
con più dolce canzone e più profonda».
E se più fu lo suo parlar diffuso,
non so, però che già ne li occhi mera
quella chad altro intender mavea chiuso.
Sola sedeasi in su la terra vera,
come guardia lasciata lì del plaustro
che legar vidi a la biforme fera.
In cerchio le facevan di sé claustro
le sette ninfe, con quei lumi in mano
che son sicuri dAquilone e dAustro.
«Qui sarai tu poco tempo silvano;
e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano.
Però, in pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive».
Così Beatrice; e io, che tutto ai piedi
di suoi comandamenti era divoto,
la mente e li occhi ov ella volle diedi.
Non scese mai con sì veloce moto
foco di spessa nube, quando piove
da quel confine che più va remoto,
com io vidi calar luccel di Giove
per lalber giù, rompendo de la scorza,
non che di fiori e de le foglie nove;
e ferì l carro di tutta sua forza;
ond el piegò come nave in fortuna,
vinta da londa, or da poggia, or da orza.
Poscia vidi avventarsi ne la cuna
del trïunfal veiculo una volpe
che dogne pasto buon parea digiuna;
ma, riprendendo lei di laide colpe,
la donna mia la volse in tanta futa
quanto sofferser lossa sanza polpe.
Poscia per indi ond era pria venuta,
laguglia vidi scender giù ne larca
del carro e lasciar lei di sé pennuta;
e qual esce di cuor che si rammarca,
tal voce uscì del cielo e cotal disse:
«O navicella mia, com mal se carca!».
Poi parve a me che la terra saprisse
trambo le ruote, e vidi uscirne un drago
che per lo carro sù la coda fisse;
e come vespa che ritragge lago,
a sé traendo la coda maligna,
trasse del fondo, e gissen vago vago.
Quel che rimase, come da gramigna
vivace terra, da la piuma, offerta
forse con intenzion sana e benigna,
si ricoperse, e funne ricoperta
e luna e laltra rota e l temo, in tanto
che più tiene un sospir la bocca aperta.
Trasformato così l dificio santo
mise fuor teste per le parti sue,
tre sovra l temo e una in ciascun canto.
Le prime eran cornute come bue,
ma le quattro un sol corno avean per fronte:
simile mostro visto ancor non fue.
Sicura, quasi rocca in alto monte,
seder sovresso una puttana sciolta
mapparve con le ciglia intorno pronte;
e come perché non li fosse tolta,
vidi di costa a lei dritto un gigante;
e basciavansi insieme alcuna volta.
Ma perché locchio cupido e vagante
a me rivolse, quel feroce drudo
la flagellò dal capo infin le piante;
poi, di sospetto pieno e dira crudo,
disciolse il mostro, e trassel per la selva,
tanto che sol di lei mi fece scudo
a la puttana e a la nova belva.
Purgatorio · Canto XXXIII
Deus, venerunt gentes, alternando
or tre or quattro dolce salmodia,
le donne incominciaro, e lagrimando;
e Bëatrice, sospirosa e pia,
quelle ascoltava sì fatta, che poco
più a la croce si cambiò Maria.
Ma poi che laltre vergini dier loco
a lei di dir, levata dritta in pè,
rispuose, colorata come foco:
Modicum, et non videbitis me;
et iterum, sorelle mie dilette,
modicum, et vos videbitis me.
Poi le si mise innanzi tutte e sette,
e dopo sé, solo accennando, mosse
me e la donna e l savio che ristette.
Così sen giva; e non credo che fosse
lo decimo suo passo in terra posto,
quando con li occhi li occhi mi percosse;
e con tranquillo aspetto «Vien più tosto»,
mi disse, «tanto che, sio parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie ben disposto».
Sì com io fui, com io dovëa, seco,
dissemi: «Frate, perché non tattenti
a domandarmi omai venendo meco?».
Come a color che troppo reverenti
dinanzi a suo maggior parlando sono,
che non traggon la voce viva ai denti,
avvenne a me, che sanza intero suono
incominciai: «Madonna, mia bisogna
voi conoscete, e ciò chad essa è buono».
Ed ella a me: «Da tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe,
sì che non parli più com om che sogna.
Sappi che l vaso che l serpente ruppe,
fu e non è; ma chi nha colpa, creda
che vendetta di Dio non teme suppe.
Non sarà tutto tempo sanza reda
laguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;
chio veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure dogn intoppo e dogne sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.
E forse che la mia narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
perch a lor modo lo ntelletto attuia;
ma tosto fier li fatti le Naiade,
che solveranno questo enigma forte
sanza danno di pecore o di biade.
Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a vivi
del viver chè un correre a la morte.
E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
chè or due volte dirubata quivi.
Qualunque ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
che solo a luso suo la creò santa.
Per morder quella, in pena e in disio
cinquemilia anni e più lanima prima
bramò colui che l morso in sé punio.
Dorme lo ngegno tuo, se non estima
per singular cagione esser eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima.
E se stati non fossero acqua dElsa
li pensier vani intorno a la tua mente,
e l piacer loro un Piramo a la gelsa,
per tante circostanze solamente
la giustizia di Dio, ne linterdetto,
conosceresti a larbor moralmente.
Ma perch io veggio te ne lo ntelletto
fatto di pietra e, impetrato, tinto,
sì che tabbaglia il lume del mio detto,
voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,
che l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto».
E io: «Sì come cera da suggello,
che la figura impressa non trasmuta,
segnato è or da voi lo mio cervello.
Ma perché tanto sovra mia veduta
vostra parola disïata vola,
che più la perde quanto più saiuta?».
«Perché conoschi», disse, «quella scuola
chai seguitata, e veggi sua dottrina
come può seguitar la mia parola;
e veggi vostra via da la divina
distar cotanto, quanto si discorda
da terra il ciel che più alto festina».
Ond io rispuosi lei: «Non mi ricorda
chi stranïasse me già mai da voi,
né honne coscïenza che rimorda».
«E se tu ricordar non te ne puoi»,
sorridendo rispuose, «or ti rammenta
come bevesti di Letè ancoi;
e se dal fummo foco sargomenta,
cotesta oblivïon chiaro conchiude
colpa ne la tua voglia altrove attenta.
Veramente oramai saranno nude
le mie parole, quanto converrassi
quelle scovrire a la tua vista rude».
E più corusco e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge,
che qua e là, come li aspetti, fassi,
quando saffisser, sì come saffigge
chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sue vestigge,
le sette donne al fin dunombra smorta,
qual sotto foglie verdi e rami nigri
sovra suoi freddi rivi lalpe porta.
Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigri
veder mi parve uscir duna fontana,
e, quasi amici, dipartirsi pigri.
«O luce, o gloria de la gente umana,
che acqua è questa che qui si dispiega
da un principio e sé da sé lontana?».
Per cotal priego detto mi fu: «Priega
Matelda che l ti dica». E qui rispuose,
come fa chi da colpa si dislega,
la bella donna: «Questo e altre cose
dette li son per me; e son sicura
che lacqua di Letè non gliel nascose».
E Bëatrice: «Forse maggior cura,
che spesse volte la memoria priva,
fatt ha la mente sua ne li occhi oscura.
Ma vedi Eünoè che là diriva:
menalo ad esso, e come tu se usa,
la tramortita sua virtù ravviva».
Come anima gentil, che non fa scusa,
ma fa sua voglia de la voglia altrui
tosto che è per segno fuor dischiusa;
così, poi che da essa preso fui,
la bella donna mossesi, e a Stazio
donnescamente disse: «Vien con lui».
Sio avessi, lettor, più lungo spazio
da scrivere, i pur cantere in parte
lo dolce ber che mai non mavria sazio;
ma perché piene son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,
non mi lascia più ir lo fren de larte.
Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle.
PARADISO
Paradiso · Canto I
La gloria di colui che tutto move
per luniverso penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
Veramente quant io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.
O buono Appollo, a lultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar lamato alloro.
Infino a qui lun giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
mè uopo intrar ne laringo rimaso.
Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue.
O divina virtù, se mi ti presti
tanto che lombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
vedrami al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.
Sì rade volte, padre, se ne coglie
per trïunfare o cesare o poeta,
colpa e vergogna de lumane voglie,
che parturir letizia in su la lieta
delfica deïtà dovria la fronda
peneia, quando alcun di sé asseta.
Poca favilla gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda.
Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,
con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.
Fatto avea di là mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
quello emisperio, e laltra parte nera,
quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aguglia sì non li saffisse unquanco.
E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole,
così de latto suo, per li occhi infuso
ne limagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr uso.
Molto è licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercé del loco
fatto per proprio de lumana spece.
Io nol soffersi molto, né sì poco,
chio nol vedessi sfavillar dintorno,
com ferro che bogliente esce del foco;
e di sùbito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel dun altro sole addorno.
Beatrice tutta ne letterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de lerba
che l fé consorto in mar de li altri dèi.
Trasumanar significar per verba
non si poria; però lessemplo basti
a cui esperïenza grazia serba.
Si era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che l ciel governi,
tu l sai, che col tuo lume mi levasti.
Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con larmonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
La novità del suono e l grande lume
di lor cagion maccesero un disio
mai non sentito di cotanto acume.
Ond ella, che vedea me sì com io,
a quïetarmi lanimo commosso,
pria chio a dimandar, la bocca aprio
e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se lavessi scosso.
Tu non se in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
non corse come tu chad esso riedi».
Sio fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
dentro ad un nuovo più fu inretito
e dissi: «Già contento requïevi
di grande ammirazion; ma ora ammiro
com io trascenda questi corpi levi».
Ond ella, appresso dun pïo sospiro,
li occhi drizzò ver me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro,
e cominciò: «Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che luniverso a Dio fa simigliante.
Qui veggion lalte creature lorma
de letterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
Ne lordine chio dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de lessere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.
Questi ne porta il foco inver la luna;
questi ne cor mortali è permotore;
questi la terra in sé stringe e aduna;
né pur le creature che son fore
dintelligenza quest arco saetta,
ma quelle channo intelletto e amore.
La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa l ciel sempre quïeto
nel qual si volge quel cha maggior fretta;
e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto.
Vero è che, come forma non saccorda
molte fïate a lintenzion de larte,
perch a risponder la materia è sorda,
così da questo corso si diparte
talor la creatura, cha podere
di piegar, così pinta, in altra parte;
e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì limpeto primo
latterra torto da falso piacere.
Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come dun rivo
se dalto monte scende giuso ad imo.
Maraviglia sarebbe in te se, privo
dimpedimento, giù ti fossi assiso,
com a terra quïete in foco vivo».
Quinci rivolse inver lo cielo il viso.
Paradiso · Canto II
O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi dascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.
Lacqua chio prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Appollo,
e nove Muse mi dimostran lOrse.
Voialtri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,
metter potete ben per lalto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a lacqua che ritorna equale.
Que glorïosi che passaro al Colco
non sammiraron come voi farete,
quando Iasón vider fatto bifolco.
La concreata e perpetüa sete
del deïforme regno cen portava
veloci quasi come l ciel vedete.
Beatrice in suso, e io in lei guardava;
e forse in tanto in quanto un quadrel posa
e vola e da la noce si dischiava,
giunto mi vidi ove mirabil cosa
mi torse il viso a sé; e però quella
cui non potea mia cura essere ascosa,
volta ver me, sì lieta come bella,
«Drizza la mente in Dio grata», mi disse,
«che nha congiunti con la prima stella».
Parev a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse.
Per entro sé letterna margarita
ne ricevette, com acqua recepe
raggio di luce permanendo unita.
Sio era corpo, e qui non si concepe
com una dimensione altra patio,
chesser convien se corpo in corpo repe,
accender ne dovria più il disio
di veder quella essenza in che si vede
come nostra natura e Dio sunio.
Lì si vedrà ciò che tenem per fede,
non dimostrato, ma fia per sé noto
a guisa del ver primo che luom crede.
Io rispuosi: «Madonna, sì devoto
com esser posso più, ringrazio lui
lo qual dal mortal mondo mha remoto.
Ma ditemi: che son li segni bui
di questo corpo, che là giuso in terra
fan di Cain favoleggiare altrui?».
Ella sorrise alquanto, e poi «Selli erra
loppinïon», mi disse, «di mortali
dove chiave di senso non diserra,
certo non ti dovrien punger li strali
dammirazione omai, poi dietro ai sensi
vedi che la ragione ha corte lali.
Ma dimmi quel che tu da te ne pensi».
E io: «Ciò che nappar qua sù diverso
credo che fanno i corpi rari e densi».
Ed ella: «Certo assai vedrai sommerso
nel falso il creder tuo, se bene ascolti
largomentar chio li farò avverso.
La spera ottava vi dimostra molti
lumi, li quali e nel quale e nel quanto
notar si posson di diversi volti.
Se raro e denso ciò facesser tanto,
una sola virtù sarebbe in tutti,
più e men distributa e altrettanto.
Virtù diverse esser convegnon frutti
di princìpi formali, e quei, for chuno,
seguiterieno a tua ragion distrutti.
Ancor, se raro fosse di quel bruno
cagion che tu dimandi, o doltre in parte
fora di sua materia sì digiuno
esto pianeto, o, sì come comparte
lo grasso e l magro un corpo, così questo
nel suo volume cangerebbe carte.
Se l primo fosse, fora manifesto
ne leclissi del sol, per trasparere
lo lume come in altro raro ingesto.
Questo non è: però è da vedere
de laltro; e selli avvien chio laltro cassi,
falsificato fia lo tuo parere.
Selli è che questo raro non trapassi,
esser conviene un termine da onde
lo suo contrario più passar non lassi;
e indi laltrui raggio si rifonde
così come color torna per vetro
lo qual di retro a sé piombo nasconde.
Or dirai tu chel si dimostra tetro
ivi lo raggio più che in altre parti,
per esser lì refratto più a retro.
Da questa instanza può deliberarti
esperïenza, se già mai la provi,
chesser suol fonte ai rivi di vostr arti.
Tre specchi prenderai; e i due rimovi
da te dun modo, e laltro, più rimosso,
trambo li primi li occhi tuoi ritrovi.
Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso
ti stea un lume che i tre specchi accenda
e torni a te da tutti ripercosso.
Ben che nel quanto tanto non si stenda
la vista più lontana, lì vedrai
come convien chigualmente risplenda.
Or, come ai colpi de li caldi rai
de la neve riman nudo il suggetto
e dal colore e dal freddo primai,
così rimaso te ne lintelletto
voglio informar di luce sì vivace,
che ti tremolerà nel suo aspetto.
Dentro dal ciel de la divina pace
si gira un corpo ne la cui virtute
lesser di tutto suo contento giace.
Lo ciel seguente, cha tante vedute,
quell esser parte per diverse essenze,
da lui distratte e da lui contenute.
Li altri giron per varie differenze
le distinzion che dentro da sé hanno
dispongono a lor fini e lor semenze.
Questi organi del mondo così vanno,
come tu vedi omai, di grado in grado,
che di sù prendono e di sotto fanno.
Riguarda bene omai sì com io vado
per questo loco al vero che disiri,
sì che poi sappi sol tener lo guado.
Lo moto e la virtù di santi giri,
come dal fabbro larte del martello,
da beati motor convien che spiri;
e l ciel cui tanti lumi fanno bello,
de la mente profonda che lui volve
prende limage e fassene suggello.
E come lalma dentro a vostra polve
per differenti membra e conformate
a diverse potenze si risolve,
così lintelligenza sua bontate
multiplicata per le stelle spiega,
girando sé sovra sua unitate.
Virtù diversa fa diversa lega
col prezïoso corpo chella avviva,
nel qual, sì come vita in voi, si lega.
Per la natura lieta onde deriva,
la virtù mista per lo corpo luce
come letizia per pupilla viva.
Da essa vien ciò che da luce a luce
par differente, non da denso e raro;
essa è formal principio che produce,
conforme a sua bontà, lo turbo e l chiaro».
Paradiso · Canto III
Quel sol che pria damor mi scaldò l petto,
di bella verità mavea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;
e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva il capo a proferer più erto;
ma visïone apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.
Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,
tornan di nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille;
tali vid io più facce a parlar pronte;
per chio dentro a lerror contrario corsi
a quel chaccese amor tra lomo e l fonte.
Sùbito sì com io di lor maccorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;
e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.
«Non ti maravigliar perch io sorrida»,
mi disse, «appresso il tuo püeril coto,
poi sopra l vero ancor lo piè non fida,
ma te rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi,
qui rilegate per manco di voto.
Però parla con esse e odi e credi;
ché la verace luce che le appaga
da sé non lascia lor torcer li piedi».
E io a lombra che parea più vaga
di ragionar, drizzami, e cominciai,
quasi com uom cui troppa voglia smaga:
«O ben creato spirito, che a rai
di vita etterna la dolcezza senti
che, non gustata, non sintende mai,
grazïoso mi fia se mi contenti
del nome tuo e de la vostra sorte».
Ond ella, pronta e con occhi ridenti:
«La nostra carità non serra porte
a giusta voglia, se non come quella
che vuol simile a sé tutta sua corte.
I fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà lesser più bella,
ma riconoscerai chi son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.
Li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati.
E questa sorte che par giù cotanto,
però nè data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto».
Ond io a lei: «Ne mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da primi concetti:
però non fui a rimembrar festino;
ma or maiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar mè più latino.
Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?».
Con quelle altr ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
charder parea damor nel primo foco:
«Frate, la nostra volontà quïeta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel chavemo, e daltro non ci asseta.
Se disïassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne;
che vedrai non capere in questi giri,
sessere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri.
Anzi è formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per chuna fansi nostre voglie stesse;
sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com a lo re che n suo voler ne nvoglia.
E n la sua volontade è nostra pace:
ell è quel mare al qual tutto si move
ciò chella crïa o che natura face».
Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben dun modo non vi piove.
Ma sì com elli avvien, sun cibo sazia
e dun altro rimane ancor la gola,
che quel si chere e di quel si ringrazia,
così fec io con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela
onde non trasse infino a co la spuola.
«Perfetta vita e alto merto inciela
donna più sù», mi disse, «a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo chogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.
Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggimi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta.
Uomini poi, a mal più cha bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi.
E quest altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che saccende
di tutto il lume de la spera nostra,
ciò chio dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo lombra de le sacre bende.
Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta.
Quest è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò l terzo e lultima possanza».
Così parlommi, e poi cominciò Ave,
Maria cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
La vista mia, che tanto lei seguio
quanto possibil fu, poi che la perse,
volsesi al segno di maggior disio,
e a Beatrice tutta si converse;
ma quella folgorò nel mïo sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;
e ciò mi fece a dimandar più tardo.
Paradiso · Canto IV
Intra due cibi, distanti e moventi
dun modo, prima si morria di fame,
che liber omo lun recasse ai denti;
sì si starebbe un agno intra due brame
di fieri lupi, igualmente temendo;
sì si starebbe un cane intra due dame:
per che, si mi tacea, me non riprendo,
da li miei dubbi dun modo sospinto,
poi chera necessario, né commendo.
Io mi tacea, ma l mio disir dipinto
mera nel viso, e l dimandar con ello,
più caldo assai che per parlar distinto.
Fé sì Beatrice qual fé Danïello,
Nabuccodonosor levando dira,
che lavea fatto ingiustamente fello;
e disse: «Io veggio ben come ti tira
uno e altro disio, sì che tua cura
sé stessa lega sì che fuor non spira.
Tu argomenti: “Se l buon voler dura,
la vïolenza altrui per qual ragione
di meritar mi scema la misura?”.
Ancor di dubitar ti dà cagione
parer tornarsi lanime a le stelle,
secondo la sentenza di Platone.
Queste son le question che nel tuo velle
pontano igualmente; e però pria
tratterò quella che più ha di felle.
Di Serafin colui che più sindia,
Moïsè, Samuel, e quel Giovanni
che prender vuoli, io dico, non Maria,
non hanno in altro cielo i loro scanni
che questi spirti che mo tappariro,
né hanno a lesser lor più o meno anni;
ma tutti fanno bello il primo giro,
e differentemente han dolce vita
per sentir più e men letterno spiro.
Qui si mostraro, non perché sortita
sia questa spera lor, ma per far segno
de la celestïal cha men salita.
Così parlar conviensi al vostro ingegno,
però che solo da sensato apprende
ciò che fa poscia dintelletto degno.
Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultate, e piedi e mano
attribuisce a Dio e altro intende;
e Santa Chiesa con aspetto umano
Gabrïel e Michel vi rappresenta,
e laltro che Tobia rifece sano.
Quel che Timeo de lanime argomenta
non è simile a ciò che qui si vede,
però che, come dice, par che senta.
Dice che lalma a la sua stella riede,
credendo quella quindi esser decisa
quando natura per forma la diede;
e forse sua sentenza è daltra guisa
che la voce non suona, ed esser puote
con intenzion da non esser derisa.
Selli intende tornare a queste ruote
lonor de la influenza e l biasmo, forse
in alcun vero suo arco percuote.
Questo principio, male inteso, torse
già tutto il mondo quasi, sì che Giove,
Mercurio e Marte a nominar trascorse.
Laltra dubitazion che ti commove
ha men velen, però che sua malizia
non ti poria menar da me altrove.
Parere ingiusta la nostra giustizia
ne li occhi di mortali, è argomento
di fede e non deretica nequizia.
Ma perché puote vostro accorgimento
ben penetrare a questa veritate,
come disiri, ti farò contento.
Se vïolenza è quando quel che pate
nïente conferisce a quel che sforza,
non fuor quest alme per essa scusate:
ché volontà, se non vuol, non sammorza,
ma fa come natura face in foco,
se mille volte vïolenza il torza.
Per che, sella si piega assai o poco,
segue la forza; e così queste fero
possendo rifuggir nel santo loco.
Se fosse stato lor volere intero,
come tenne Lorenzo in su la grada,
e fece Muzio a la sua man severo,
così lavria ripinte per la strada
ond eran tratte, come fuoro sciolte;
ma così salda voglia è troppo rada.
E per queste parole, se ricolte
lhai come dei, è largomento casso
che tavria fatto noia ancor più volte.
Ma or ti sattraversa un altro passo
dinanzi a li occhi, tal che per te stesso
non usciresti: pria saresti lasso.
Io tho per certo ne la mente messo
chalma beata non poria mentire,
però chè sempre al primo vero appresso;
e poi potesti da Piccarda udire
che laffezion del vel Costanza tenne;
sì chella par qui meco contradire.
Molte fïate già, frate, addivenne
che, per fuggir periglio, contra grato
si fé di quel che far non si convenne;
come Almeone, che, di ciò pregato
dal padre suo, la propria madre spense,
per non perder pietà si fé spietato.
A questo punto voglio che tu pense
che la forza al voler si mischia, e fanno
sì che scusar non si posson loffense.
Voglia assoluta non consente al danno;
ma consentevi in tanto in quanto teme,
se si ritrae, cadere in più affanno.
Però, quando Piccarda quello spreme,
de la voglia assoluta intende, e io
de laltra; sì che ver diciamo insieme».
Cotal fu londeggiar del santo rio
chuscì del fonte ond ogne ver deriva;
tal puose in pace uno e altro disio.
«O amanza del primo amante, o diva»,
diss io appresso, «il cui parlar minonda
e scalda sì, che più e più mavviva,
non è laffezion mia tanto profonda,
che basti a render voi grazia per grazia;
ma quei che vede e puote a ciò risponda.
Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se l ver non lo illustra
di fuor dal qual nessun vero si spazia.
Posasi in esso, come fera in lustra,
tosto che giunto lha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.
Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
chal sommo pinge noi di collo in collo.
Questo minvita, questo massicura
con reverenza, donna, a dimandarvi
dunaltra verità che mè oscura.
Io vo saper se luom può sodisfarvi
ai voti manchi sì con altri beni,
cha la vostra statera non sien parvi».
Beatrice mi guardò con li occhi pieni
di faville damor così divini,
che, vinta, mia virtute diè le reni,
e quasi mi perdei con li occhi chini.
Paradiso · Canto V
«Sio ti fiammeggio nel caldo damore
di là dal modo che n terra si vede,
sì che del viso tuo vinco il valore,
non ti maravigliar, ché ciò procede
da perfetto veder, che, come apprende,
così nel bene appreso move il piede.
Io veggio ben sì come già resplende
ne lintelletto tuo letterna luce,
che, vista, sola e sempre amore accende;
e saltra cosa vostro amor seduce,
non è se non di quella alcun vestigio,
mal conosciuto, che quivi traluce.
Tu vuo saper se con altro servigio,
per manco voto, si può render tanto
che lanima sicuri di letigio».
Sì cominciò Beatrice questo canto;
e sì com uom che suo parlar non spezza,
continüò così l processo santo:
«Lo maggior don che Dio per sua larghezza
fesse creando, e a la sua bontate
più conformato, e quel che più apprezza,
fu de la volontà la libertate;
di che le creature intelligenti,
e tutte e sole, fuoro e son dotate.
Or ti parrà, se tu quinci argomenti,
lalto valor del voto, sè sì fatto
che Dio consenta quando tu consenti;
ché, nel fermar tra Dio e lomo il patto,
vittima fassi di questo tesoro,
tal quale io dico; e fassi col suo atto.
Dunque che render puossi per ristoro?
Se credi bene usar quel chai offerto,
di maltolletto vuo far buon lavoro.
Tu se omai del maggior punto certo;
ma perché Santa Chiesa in ciò dispensa,
che par contra lo ver chi tho scoverto,
convienti ancor sedere un poco a mensa,
però che l cibo rigido chai preso,
richiede ancora aiuto a tua dispensa.
Apri la mente a quel chio ti paleso
e fermalvi entro; ché non fa scïenza,
sanza lo ritenere, avere inteso.
Due cose si convegnono a lessenza
di questo sacrificio: luna è quella
di che si fa; laltr è la convenenza.
Quest ultima già mai non si cancella
se non servata; e intorno di lei
sì preciso di sopra si favella:
però necessitato fu a li Ebrei
pur lofferere, ancor chalcuna offerta
sì permutasse, come saver dei.
Laltra, che per materia tè aperta,
puote ben esser tal, che non si falla
se con altra materia si converta.
Ma non trasmuti carco a la sua spalla
per suo arbitrio alcun, sanza la volta
e de la chiave bianca e de la gialla;
e ogne permutanza credi stolta,
se la cosa dimessa in la sorpresa
come l quattro nel sei non è raccolta.
Però qualunque cosa tanto pesa
per suo valor che tragga ogne bilancia,
sodisfar non si può con altra spesa.
Non prendan li mortali il voto a ciancia;
siate fedeli, e a ciò far non bieci,
come Ieptè a la sua prima mancia;
cui più si convenia dicer Mal feci,
che, servando, far peggio; e così stolto
ritrovar puoi il gran duca de Greci,
onde pianse Efigènia il suo bel volto,
e fé pianger di sé i folli e i savi
chudir parlar di così fatto cólto.
Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:
non siate come penna ad ogne vento,
e non crediate chogne acqua vi lavi.
Avete il novo e l vecchio Testamento,
e l pastor de la Chiesa che vi guida;
questo vi basti a vostro salvamento.
Se mala cupidigia altro vi grida,
uomini siate, e non pecore matte,
sì che l Giudeo di voi tra voi non rida!
Non fate com agnel che lascia il latte
de la sua madre, e semplice e lascivo
seco medesmo a suo piacer combatte!».
Così Beatrice a me com ïo scrivo;
poi si rivolse tutta disïante
a quella parte ove l mondo è più vivo.
Lo suo tacere e l trasmutar sembiante
puoser silenzio al mio cupido ingegno,
che già nuove questioni avea davante;
e sì come saetta che nel segno
percuote pria che sia la corda queta,
così corremmo nel secondo regno.
Quivi la donna mia vid io sì lieta,
come nel lume di quel ciel si mise,
che più lucente se ne fé l pianeta.
E se la stella si cambiò e rise,
qual mi fec io che pur da mia natura
trasmutabile son per tutte guise!
Come n peschiera chè tranquilla e pura
traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
per modo che lo stimin lor pastura,
sì vid io ben più di mille splendori
trarsi ver noi, e in ciascun sudia:
«Ecco chi crescerà li nostri amori».
E sì come ciascuno a noi venìa,
vedeasi lombra piena di letizia
nel folgór chiaro che di lei uscia.
Pensa, lettor, se quel che qui sinizia
non procedesse, come tu avresti
di più savere angosciosa carizia;
e per te vederai come da questi
mera in disio dudir lor condizioni,
sì come a li occhi mi fur manifesti.
«O bene nato a cui veder li troni
del trïunfo etternal concede grazia
prima che la milizia sabbandoni,
del lume che per tutto il ciel si spazia
noi semo accesi; e però, se disii
di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia».
Così da un di quelli spirti pii
detto mi fu; e da Beatrice: «Dì, dì
sicuramente, e credi come a dii».
«Io veggio ben sì come tu tannidi
nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,
perch e corusca sì come tu ridi;
ma non so chi tu se, né perché aggi,
anima degna, il grado de la spera
che si vela a mortai con altrui raggi».
Questo diss io diritto a la lumera
che pria mavea parlato; ond ella fessi
lucente più assai di quel chell era.
Sì come il sol che si cela elli stessi
per troppa luce, come l caldo ha róse
le temperanze di vapori spessi,
per più letizia sì mi si nascose
dentro al suo raggio la figura santa;
e così chiusa chiusa mi rispuose
nel modo che l seguente canto canta.
Paradiso · Canto VI
«Poscia che Costantin laquila volse
contr al corso del ciel, chella seguio
dietro a lantico che Lavina tolse,
cento e cent anni e più luccel di Dio
ne lo stremo dEuropa si ritenne,
vicino a monti de quai prima uscìo;
e sotto lombra de le sacre penne
governò l mondo lì di mano in mano,
e, sì cangiando, in su la mia pervenne.
Cesare fui e son Iustinïano,
che, per voler del primo amor chi sento,
dentro le leggi trassi il troppo e l vano.
E prima chio a lovra fossi attento,
una natura in Cristo esser, non piùe,
credea, e di tal fede era contento;
ma l benedetto Agapito, che fue
sommo pastore, a la fede sincera
mi dirizzò con le parole sue.
Io li credetti; e ciò che n sua fede era,
vegg io or chiaro sì, come tu vedi
ogni contradizione e falsa e vera.
Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
a Dio per grazia piacque di spirarmi
lalto lavoro, e tutto n lui mi diedi;
e al mio Belisar commendai larmi,
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
che segno fu chi dovessi posarmi.
Or qui a la question prima sappunta
la mia risposta; ma sua condizione
mi stringe a seguitare alcuna giunta,
perché tu veggi con quanta ragione
si move contr al sacrosanto segno
e chi l sappropria e chi a lui soppone.
Vedi quanta virtù lha fatto degno
di reverenza; e cominciò da lora
che Pallante morì per darli regno.
Tu sai chel fece in Alba sua dimora
per trecento anni e oltre, infino al fine
che i tre a tre pugnar per lui ancora.
E sai chel fé dal mal de le Sabine
al dolor di Lucrezia in sette regi,
vincendo intorno le genti vicine.
Sai quel chel fé portato da li egregi
Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,
incontro a li altri principi e collegi;
onde Torquato e Quinzio, che dal cirro
negletto fu nomato, i Deci e Fabi
ebber la fama che volontier mirro.
Esso atterrò lorgoglio de li Aràbi
che di retro ad Anibale passaro
lalpestre rocce, Po, di che tu labi.
Sott esso giovanetti trïunfaro
Scipïone e Pompeo; e a quel colle
sotto l qual tu nascesti parve amaro.
Poi, presso al tempo che tutto l ciel volle
redur lo mondo a suo modo sereno,
Cesare per voler di Roma il tolle.
E quel che fé da Varo infino a Reno,
Isara vide ed Era e vide Senna
e ogne valle onde Rodano è pieno.
Quel che fé poi chelli uscì di Ravenna
e saltò Rubicon, fu di tal volo,
che nol seguiteria lingua né penna.
Inver la Spagna rivolse lo stuolo,
poi ver Durazzo, e Farsalia percosse
sì chal Nil caldo si sentì del duolo.
Antandro e Simeonta, onde si mosse,
rivide e là dov Ettore si cuba;
e mal per Tolomeo poscia si scosse.
Da indi scese folgorando a Iuba;
onde si volse nel vostro occidente,
ove sentia la pompeana tuba.
Di quel che fé col baiulo seguente,
Bruto con Cassio ne linferno latra,
e Modena e Perugia fu dolente.
Piangene ancor la trista Cleopatra,
che, fuggendoli innanzi, dal colubro
la morte prese subitana e atra.
Con costui corse infino al lito rubro;
con costui puose il mondo in tanta pace,
che fu serrato a Giano il suo delubro.
Ma ciò che l segno che parlar mi face
fatto avea prima e poi era fatturo
per lo regno mortal cha lui soggiace,
diventa in apparenza poco e scuro,
se in mano al terzo Cesare si mira
con occhio chiaro e con affetto puro;
ché la viva giustizia che mi spira,
li concedette, in mano a quel chi dico,
gloria di far vendetta a la sua ira.
Or qui tammira in ciò chio ti replìco:
poscia con Tito a far vendetta corse
de la vendetta del peccato antico.
E quando il dente longobardo morse
la Santa Chiesa, sotto le sue ali
Carlo Magno, vincendo, la soccorse.
Omai puoi giudicar di quei cotali
chio accusai di sopra e di lor falli,
che son cagion di tutti vostri mali.
Luno al pubblico segno i gigli gialli
oppone, e laltro appropria quello a parte,
sì chè forte a veder chi più si falli.
Faccian li Ghibellin, faccian lor arte
sott altro segno, ché mal segue quello
sempre chi la giustizia e lui diparte;
e non labbatta esto Carlo novello
coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli
cha più alto leon trasser lo vello.
Molte fïate già pianser li figli
per la colpa del padre, e non si creda
che Dio trasmuti larmi per suoi gigli!
Questa picciola stella si correda
di buoni spirti che son stati attivi
perché onore e fama li succeda:
e quando li disiri poggian quivi,
sì disvïando, pur convien che i raggi
del vero amore in sù poggin men vivi.
Ma nel commensurar di nostri gaggi
col merto è parte di nostra letizia,
perché non li vedem minor né maggi.
Quindi addolcisce la viva giustizia
in noi laffetto sì, che non si puote
torcer già mai ad alcuna nequizia.
Diverse voci fanno dolci note;
così diversi scanni in nostra vita
rendon dolce armonia tra queste rote.
E dentro a la presente margarita
luce la luce di Romeo, di cui
fu lovra grande e bella mal gradita.
Ma i Provenzai che fecer contra lui
non hanno riso; e però mal cammina
qual si fa danno del ben fare altrui.
Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,
Ramondo Beringhiere, e ciò li fece
Romeo, persona umìle e peregrina.
E poi il mosser le parole biece
a dimandar ragione a questo giusto,
che li assegnò sette e cinque per diece,
indi partissi povero e vetusto;
e se l mondo sapesse il cor chelli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto,
assai lo loda, e più lo loderebbe».
Paradiso · Canto VII
«Osanna, sanctus Deus sabaòth,
superillustrans claritate tua
felices ignes horum malacòth!».
Così, volgendosi a la nota sua,
fu viso a me cantare essa sustanza,
sopra la qual doppio lume saddua;
ed essa e laltre mossero a sua danza,
e quasi velocissime faville
mi si velar di sùbita distanza.
Io dubitava e dicea Dille, dille!
fra me, dille dicea, a la mia donna
che mi diseta con le dolci stille.
Ma quella reverenza che sindonna
di tutto me, pur per Be e per ice,
mi richinava come luom chassonna.
Poco sofferse me cotal Beatrice
e cominciò, raggiandomi dun riso
tal, che nel foco faria luom felice:
«Secondo mio infallibile avviso,
come giusta vendetta giustamente
punita fosse, tha in pensier miso;
ma io ti solverò tosto la mente;
e tu ascolta, ché le mie parole
di gran sentenza ti faran presente.
Per non soffrire a la virtù che vole
freno a suo prode, quell uom che non nacque,
dannando sé, dannò tutta sua prole;
onde lumana specie inferma giacque
giù per secoli molti in grande errore,
fin chal Verbo di Dio discender piacque
u la natura, che dal suo fattore
sera allungata, unì a sé in persona
con latto sol del suo etterno amore.
Or drizza il viso a quel chor si ragiona:
questa natura al suo fattore unita,
qual fu creata, fu sincera e buona;
ma per sé stessa pur fu ella sbandita
di paradiso, però che si torse
da via di verità e da sua vita.
La pena dunque che la croce porse
sa la natura assunta si misura,
nulla già mai sì giustamente morse;
e così nulla fu di tanta ingiura,
guardando a la persona che sofferse,
in che era contratta tal natura.
Però dun atto uscir cose diverse:
cha Dio e a Giudei piacque una morte;
per lei tremò la terra e l ciel saperse.
Non ti dee oramai parer più forte,
quando si dice che giusta vendetta
poscia vengiata fu da giusta corte.
Ma io veggi or la tua mente ristretta
di pensiero in pensier dentro ad un nodo,
del qual con gran disio solver saspetta.
Tu dici: “Ben discerno ciò chi odo;
ma perché Dio volesse, mè occulto,
a nostra redenzion pur questo modo”.
Questo decreto, frate, sta sepulto
a li occhi di ciascuno il cui ingegno
ne la fiamma damor non è adulto.
Veramente, però cha questo segno
molto si mira e poco si discerne,
dirò perché tal modo fu più degno.
La divina bontà, che da sé sperne
ogne livore, ardendo in sé, sfavilla
sì che dispiega le bellezze etterne.
Ciò che da lei sanza mezzo distilla
non ha poi fine, perché non si move
la sua imprenta quand ella sigilla.
Ciò che da essa sanza mezzo piove
libero è tutto, perché non soggiace
a la virtute de le cose nove.
Più lè conforme, e però più le piace;
ché lardor santo chogne cosa raggia,
ne la più somigliante è più vivace.
Di tutte queste dote savvantaggia
lumana creatura, e suna manca,
di sua nobilità convien che caggia.
Solo il peccato è quel che la disfranca
e falla dissimìle al sommo bene,
per che del lume suo poco simbianca;
e in sua dignità mai non rivene,
se non rïempie, dove colpa vòta,
contra mal dilettar con giuste pene.
Vostra natura, quando peccò tota
nel seme suo, da queste dignitadi,
come di paradiso, fu remota;
né ricovrar potiensi, se tu badi
ben sottilmente, per alcuna via,
sanza passar per un di questi guadi:
o che Dio solo per sua cortesia
dimesso avesse, o che luom per sé isso
avesse sodisfatto a sua follia.
Ficca mo locchio per entro labisso
de letterno consiglio, quanto puoi
al mio parlar distrettamente fisso.
Non potea luomo ne termini suoi
mai sodisfar, per non potere ir giuso
con umiltate obedïendo poi,
quanto disobediendo intese ir suso;
e questa è la cagion per che luom fue
da poter sodisfar per sé dischiuso.
Dunque a Dio convenia con le vie sue
riparar lomo a sua intera vita,
dico con luna, o ver con amendue.
Ma perché lovra tanto è più gradita
da loperante, quanto più appresenta
de la bontà del core ond ell è uscita,
la divina bontà che l mondo imprenta,
di proceder per tutte le sue vie,
a rilevarvi suso, fu contenta.
Né tra lultima notte e l primo die
sì alto o sì magnifico processo,
o per luna o per laltra, fu o fie:
ché più largo fu Dio a dar sé stesso
per far luom sufficiente a rilevarsi,
che selli avesse sol da sé dimesso;
e tutti li altri modi erano scarsi
a la giustizia, se l Figliuol di Dio
non fosse umilïato ad incarnarsi.
Or per empierti bene ogne disio,
ritorno a dichiararti in alcun loco,
perché tu veggi lì così com io.
Tu dici: “Io veggio lacqua, io veggio il foco,
laere e la terra e tutte lor misture
venire a corruzione, e durar poco;
e queste cose pur furon creature;
per che, se ciò chè detto è stato vero,
esser dovrien da corruzion sicure”.
Li angeli, frate, e l paese sincero
nel qual tu se, dir si posson creati,
sì come sono, in loro essere intero;
ma li alimenti che tu hai nomati
e quelle cose che di lor si fanno
da creata virtù sono informati.
Creata fu la materia chelli hanno;
creata fu la virtù informante
in queste stelle che ntorno a lor vanno.
Lanima dogne bruto e de le piante
di complession potenzïata tira
lo raggio e l moto de le luci sante;
ma vostra vita sanza mezzo spira
la somma beninanza, e la innamora
di sé sì che poi sempre la disira.
E quinci puoi argomentare ancora
vostra resurrezion, se tu ripensi
come lumana carne fessi allora
che li primi parenti intrambo fensi».
Paradiso · Canto VIII
Solea creder lo mondo in suo periclo
che la bella Ciprigna il folle amore
raggiasse, volta nel terzo epiciclo;
per che non pur a lei faceano onore
di sacrificio e di votivo grido
le genti antiche ne lantico errore;
ma Dïone onoravano e Cupido,
quella per madre sua, questo per figlio,
e dicean chel sedette in grembo a Dido;
e da costei ond io principio piglio
pigliavano il vocabol de la stella
che l sol vagheggia or da coppa or da ciglio.
Io non maccorsi del salire in ella;
ma desservi entro mi fé assai fede
la donna mia chi vidi far più bella.
E come in fiamma favilla si vede,
e come in voce voce si discerne,
quand una è ferma e altra va e riede,
vid io in essa luce altre lucerne
muoversi in giro più e men correnti,
al modo, credo, di lor viste interne.
Di fredda nube non disceser venti,
o visibili o no, tanto festini,
che non paressero impediti e lenti
a chi avesse quei lumi divini
veduti a noi venir, lasciando il giro
pria cominciato in li alti Serafini;
e dentro a quei che più innanzi appariro
sonava Osanna sì, che unque poi
di rïudir non fui sanza disiro.
Indi si fece lun più presso a noi
e solo incominciò: «Tutti sem presti
al tuo piacer, perché di noi ti gioi.
Noi ci volgiam coi principi celesti
dun giro e dun girare e duna sete,
ai quali tu del mondo già dicesti:
Voi che ntendendo il terzo ciel movete;
e sem sì pien damor, che, per piacerti,
non fia men dolce un poco di quïete».
Poscia che li occhi miei si fuoro offerti
a la mia donna reverenti, ed essa
fatti li avea di sé contenti e certi,
rivolsersi a la luce che promessa
tanto savea, e «Deh, chi siete?» fue
la voce mia di grande affetto impressa.
E quanta e quale vid io lei far piùe
per allegrezza nova che saccrebbe,
quando parlai, a lallegrezze sue!
Così fatta, mi disse: «Il mondo mebbe
giù poco tempo; e se più fosse stato,
molto sarà di mal, che non sarebbe.
La mia letizia mi ti tien celato
che mi raggia dintorno e mi nasconde
quasi animal di sua seta fasciato.
Assai mamasti, e avesti ben onde;
che sio fossi giù stato, io ti mostrava
di mio amor più oltre che le fronde.
Quella sinistra riva che si lava
di Rodano poi chè misto con Sorga,
per suo segnore a tempo maspettava,
e quel corno dAusonia che simborga
di Bari e di Gaeta e di Catona,
da ove Tronto e Verde in mare sgorga.
Fulgeami già in fronte la corona
di quella terra che l Danubio riga
poi che le ripe tedesche abbandona.
E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo,
attesi avrebbe li suoi regi ancora,
nati per me di Carlo e di Ridolfo,
se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”.
E se mio frate questo antivedesse,
lavara povertà di Catalogna
già fuggeria, perché non li offendesse;
ché veramente proveder bisogna
per lui, o per altrui, sì cha sua barca
carcata più dincarco non si pogna.
La sua natura, che di larga parca
discese, avria mestier di tal milizia
che non curasse di mettere in arca».
«Però chi credo che lalta letizia
che l tuo parlar minfonde, segnor mio,
ve ogne ben si termina e sinizia,
per te si veggia come la vegg io,
grata mè più; e anco quest ho caro
perché l discerni rimirando in Dio.
Fatto mhai lieto, e così mi fa chiaro,
poi che, parlando, a dubitar mhai mosso
com esser può, di dolce seme, amaro».
Questo io a lui; ed elli a me: «Sio posso
mostrarti un vero, a quel che tu dimandi
terrai lo viso come tien lo dosso.
Lo ben che tutto il regno che tu scandi
volge e contenta, fa esser virtute
sua provedenza in questi corpi grandi.
E non pur le nature provedute
sono in la mente chè da sé perfetta,
ma esse insieme con la lor salute:
per che quantunque quest arco saetta
disposto cade a proveduto fine,
sì come cosa in suo segno diretta.
Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine
producerebbe sì li suoi effetti,
che non sarebbero arti, ma ruine;
e ciò esser non può, se li ntelletti
che muovon queste stelle non son manchi,
e manco il primo, che non li ha perfetti.
Vuo tu che questo ver più ti simbianchi?».
E io: «Non già; ché impossibil veggio
che la natura, in quel chè uopo, stanchi».
Ond elli ancora: «Or dì: sarebbe il peggio
per lomo in terra, se non fosse cive?».
«Sì», rispuos io; «e qui ragion non cheggio».
«E puot elli esser, se giù non si vive
diversamente per diversi offici?
Non, se l maestro vostro ben vi scrive».
Sì venne deducendo infino a quici;
poscia conchiuse: «Dunque esser diverse
convien di vostri effetti le radici:
per chun nasce Solone e altro Serse,
altro Melchisedèch e altro quello
che, volando per laere, il figlio perse.
La circular natura, chè suggello
a la cera mortal, fa ben sua arte,
ma non distingue lun da laltro ostello.
Quinci addivien chEsaù si diparte
per seme da Iacòb; e vien Quirino
da sì vil padre, che si rende a Marte.
Natura generata il suo cammino
simil farebbe sempre a generanti,
se non vincesse il proveder divino.
Or quel che tera dietro tè davanti:
ma perché sappi che di te mi giova,
un corollario voglio che tammanti.
Sempre natura, se fortuna trova
discorde a sé, com ogne altra semente
fuor di sua regïon, fa mala prova.
E se l mondo là giù ponesse mente
al fondamento che natura pone,
seguendo lui, avria buona la gente.
Ma voi torcete a la religïone
tal che fia nato a cignersi la spada,
e fate re di tal chè da sermone;
onde la traccia vostra è fuor di strada».
Paradiso · Canto IX
Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza,
mebbe chiarito, mi narrò li nganni
che ricever dovea la sua semenza;
ma disse: «Taci e lascia muover li anni»;
sì chio non posso dir se non che pianto
giusto verrà di retro ai vostri danni.
E già la vita di quel lume santo
rivolta sera al Sol che la rïempie
come quel ben cha ogne cosa è tanto.
Ahi anime ingannate e fatture empie,
che da sì fatto ben torcete i cuori,
drizzando in vanità le vostre tempie!
Ed ecco un altro di quelli splendori
ver me si fece, e l suo voler piacermi
significava nel chiarir di fori.
Li occhi di Bëatrice, cheran fermi
sovra me, come pria, di caro assenso
al mio disio certificato fermi.
«Deh, metti al mio voler tosto compenso,
beato spirto», dissi, «e fammi prova
chi possa in te refletter quel chio penso!».
Onde la luce che mera ancor nova,
del suo profondo, ond ella pria cantava,
seguette come a cui di ben far giova:
«In quella parte de la terra prava
italica che siede tra Rïalto
e le fontane di Brenta e di Piava,
si leva un colle, e non surge molt alto,
là onde scese già una facella
che fece a la contrada un grande assalto.
Duna radice nacqui e io ed ella:
Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
perché mi vinse il lume desta stella;
ma lietamente a me medesma indulgo
la cagion di mia sorte, e non mi noia;
che parria forse forte al vostro vulgo.
Di questa luculenta e cara gioia
del nostro cielo che più mè propinqua,
grande fama rimase; e pria che moia,
questo centesimo anno ancor sincinqua:
vedi se far si dee lomo eccellente,
sì chaltra vita la prima relinqua.
E ciò non pensa la turba presente
che Tagliamento e Adice richiude,
né per esser battuta ancor si pente;
ma tosto fia che Padova al palude
cangerà lacqua che Vincenza bagna,
per essere al dover le genti crude;
e dove Sile e Cagnan saccompagna,
tal signoreggia e va con la testa alta,
che già per lui carpir si fa la ragna.
Piangerà Feltro ancora la difalta
de lempio suo pastor, che sarà sconcia
sì, che per simil non sentrò in malta.
Troppo sarebbe larga la bigoncia
che ricevesse il sangue ferrarese,
e stanco chi l pesasse a oncia a oncia,
che donerà questo prete cortese
per mostrarsi di parte; e cotai doni
conformi fieno al viver del paese.
Sù sono specchi, voi dicete Troni,
onde refulge a noi Dio giudicante;
sì che questi parlar ne paion buoni».
Qui si tacette; e fecemi sembiante
che fosse ad altro volta, per la rota
in che si mise com era davante.
Laltra letizia, che mera già nota
per cara cosa, mi si fece in vista
qual fin balasso in che lo sol percuota.
Per letiziar là sù fulgor sacquista,
sì come riso qui; ma giù sabbuia
lombra di fuor, come la mente è trista.
«Dio vede tutto, e tuo veder sinluia»,
diss io, «beato spirto, sì che nulla
voglia di sé a te puot esser fuia.
Dunque la voce tua, che l ciel trastulla
sempre col canto di quei fuochi pii
che di sei ali facen la coculla,
perché non satisface a miei disii?
Già non attendere io tua dimanda,
sio mintuassi, come tu tinmii».
«La maggior valle in che lacqua si spanda»,
incominciaro allor le sue parole,
«fuor di quel mar che la terra inghirlanda,
tra discordanti liti contra l sole
tanto sen va, che fa meridïano
là dove lorizzonte pria far suole.
Di quella valle fu io litorano
tra Ebro e Macra, che per cammin corto
parte lo Genovese dal Toscano.
Ad un occaso quasi e ad un orto
Buggea siede e la terra ond io fui,
che fé del sangue suo già caldo il porto.
Folco mi disse quella gente a cui
fu noto il nome mio; e questo cielo
di me simprenta, com io fe di lui;
ché più non arse la figlia di Belo,
noiando e a Sicheo e a Creusa,
di me, infin che si convenne al pelo;
né quella Rodopëa che delusa
fu da Demofoonte, né Alcide
quando Iole nel core ebbe rinchiusa.
Non però qui si pente, ma si ride,
non de la colpa, cha mente non torna,
ma del valor chordinò e provide.
Qui si rimira ne larte chaddorna
cotanto affetto, e discernesi l bene
per che l mondo di sù quel di giù torna.
Ma perché tutte le tue voglie piene
ten porti che son nate in questa spera,
proceder ancor oltre mi convene.
Tu vuo saper chi è in questa lumera
che qui appresso me così scintilla
come raggio di sole in acqua mera.
Or sappi che là entro si tranquilla
Raab; e a nostr ordine congiunta,
di lei nel sommo grado si sigilla.
Da questo cielo, in cui lombra sappunta
che l vostro mondo face, pria chaltr alma
del trïunfo di Cristo fu assunta.
Ben si convenne lei lasciar per palma
in alcun cielo de lalta vittoria
che sacquistò con luna e laltra palma,
perch ella favorò la prima gloria
di Iosüè in su la Terra Santa,
che poco tocca al papa la memoria.
La tua città, che di colui è pianta
che pria volse le spalle al suo fattore
e di cui è la nvidia tanto pianta,
produce e spande il maladetto fiore
cha disvïate le pecore e li agni,
però che fatto ha lupo del pastore.
Per questo lEvangelio e i dottor magni
son derelitti, e solo ai Decretali
si studia, sì che pare a lor vivagni.
A questo intende il papa e cardinali;
non vanno i lor pensieri a Nazarette,
là dove Gabrïello aperse lali.
Ma Vaticano e laltre parti elette
di Roma che son state cimitero
a la milizia che Pietro seguette,
tosto libere fien de lavoltero».
Paradiso · Canto X
Guardando nel suo Figlio con lAmore
che luno e laltro etternalmente spira,
lo primo e ineffabile Valore
quanto per mente e per loco si gira
con tant ordine fé, chesser non puote
sanza gustar di lui chi ciò rimira.
Leva dunque, lettore, a lalte rote
meco la vista, dritto a quella parte
dove lun moto e laltro si percuote;
e lì comincia a vagheggiar ne larte
di quel maestro che dentro a sé lama,
tanto che mai da lei locchio non parte.
Vedi come da indi si dirama
loblico cerchio che i pianeti porta,
per sodisfare al mondo che li chiama.
Che se la strada lor non fosse torta,
molta virtù nel ciel sarebbe in vano,
e quasi ogne potenza qua giù morta;
e se dal dritto più o men lontano
fosse l partire, assai sarebbe manco
e giù e sù de lordine mondano.
Or ti riman, lettor, sovra l tuo banco,
dietro pensando a ciò che si preliba,
sesser vuoi lieto assai prima che stanco.
Messo tho innanzi: omai per te ti ciba;
ché a sé torce tutta la mia cura
quella materia ond io son fatto scriba.
Lo ministro maggior de la natura,
che del valor del ciel lo mondo imprenta
e col suo lume il tempo ne misura,
con quella parte che sù si rammenta
congiunto, si girava per le spire
in che più tosto ognora sappresenta;
e io era con lui; ma del salire
non maccors io, se non com uom saccorge,
anzi l primo pensier, del suo venire.
È Bëatrice quella che sì scorge
di bene in meglio, sì subitamente
che latto suo per tempo non si sporge.
Quant esser convenia da sé lucente
quel chera dentro al sol dov io entrami,
non per color, ma per lume parvente!
Perch io lo ngegno e larte e luso chiami,
sì nol direi che mai simaginasse;
ma creder puossi e di veder si brami.
E se le fantasie nostre son basse
a tanta altezza, non è maraviglia;
ché sopra l sol non fu occhio chandasse.
Tal era quivi la quarta famiglia
de lalto Padre, che sempre la sazia,
mostrando come spira e come figlia.
E Bëatrice cominciò: «Ringrazia,
ringrazia il Sol de li angeli, cha questo
sensibil tha levato per sua grazia».
Cor di mortal non fu mai sì digesto
a divozione e a rendersi a Dio
con tutto l suo gradir cotanto presto,
come a quelle parole mi fec io;
e sì tutto l mio amore in lui si mise,
che Bëatrice eclissò ne loblio.
Non le dispiacque; ma sì se ne rise,
che lo splendor de li occhi suoi ridenti
mia mente unita in più cose divise.
Io vidi più folgór vivi e vincenti
far di noi centro e di sé far corona,
più dolci in voce che in vista lucenti:
così cinger la figlia di Latona
vedem talvolta, quando laere è pregno,
sì che ritenga il fil che fa la zona.
Ne la corte del cielo, ond io rivegno,
si trovan molte gioie care e belle
tanto che non si posson trar del regno;
e l canto di quei lumi era di quelle;
chi non simpenna sì che là sù voli,
dal muto aspetti quindi le novelle.
Poi, sì cantando, quelli ardenti soli
si fuor girati intorno a noi tre volte,
come stelle vicine a fermi poli,
donne mi parver, non da ballo sciolte,
ma che sarrestin tacite, ascoltando
fin che le nove note hanno ricolte.
E dentro a lun senti cominciar: «Quando
lo raggio de la grazia, onde saccende
verace amore e che poi cresce amando,
multiplicato in te tanto resplende,
che ti conduce su per quella scala
u sanza risalir nessun discende;
qual ti negasse il vin de la sua fiala
per la tua sete, in libertà non fora
se non com acqua chal mar non si cala.
Tu vuo saper di quai piante sinfiora
questa ghirlanda che ntorno vagheggia
la bella donna chal ciel tavvalora.
Io fui de li agni de la santa greggia
che Domenico mena per cammino
u ben simpingua se non si vaneggia.
Questi che mè a destra più vicino,
frate e maestro fummi, ed esso Alberto
è di Cologna, e io Thomas dAquino.
Se sì di tutti li altri esser vuo certo,
di retro al mio parlar ten vien col viso
girando su per lo beato serto.
Quell altro fiammeggiare esce del riso
di Grazïan, che luno e laltro foro
aiutò sì che piace in paradiso.
Laltro chappresso addorna il nostro coro,
quel Pietro fu che con la poverella
offerse a Santa Chiesa suo tesoro.
La quinta luce, chè tra noi più bella,
spira di tale amor, che tutto l mondo
là giù ne gola di saper novella:
entro vè lalta mente u sì profondo
saver fu messo, che, se l vero è vero,
a veder tanto non surse il secondo.
Appresso vedi il lume di quel cero
che giù in carne più a dentro vide
langelica natura e l ministero.
Ne laltra piccioletta luce ride
quello avvocato de tempi cristiani
del cui latino Augustin si provide.
Or se tu locchio de la mente trani
di luce in luce dietro a le mie lode,
già de lottava con sete rimani.
Per vedere ogne ben dentro vi gode
lanima santa che l mondo fallace
fa manifesto a chi di lei ben ode.
Lo corpo ond ella fu cacciata giace
giuso in Cieldauro; ed essa da martiro
e da essilio venne a questa pace.
Vedi oltre fiammeggiar lardente spiro
dIsidoro, di Beda e di Riccardo,
che a considerar fu più che viro.
Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,
è l lume duno spirto che n pensieri
gravi a morir li parve venir tardo:
essa è la luce etterna di Sigieri,
che, leggendo nel Vico de li Strami,
silogizzò invidïosi veri».
Indi, come orologio che ne chiami
ne lora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perché lami,
che luna parte e laltra tira e urge,
tin tin sonando con sì dolce nota,
che l ben disposto spirto damor turge;
così vid ïo la gloriosa rota
muoversi e render voce a voce in tempra
e in dolcezza chesser non pò nota
se non colà dove gioir sinsempra.
Paradiso · Canto XI
O insensata cura de mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter lali!
Chi dietro a iura e chi ad amforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi rubare e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
saffaticava e chi si dava a lozio,
quando, da tutte queste cose sciolto,
con Bëatrice mera suso in cielo
cotanto glorïosamente accolto.
Poi che ciascuno fu tornato ne lo
punto del cerchio in che avanti sera,
fermossi, come a candellier candelo.
E io senti dentro a quella lumera
che pria mavea parlato, sorridendo
incominciar, faccendosi più mera:
«Così com io del suo raggio resplendo,
sì, riguardando ne la luce etterna,
li tuoi pensieri onde cagioni apprendo.
Tu dubbi, e hai voler che si ricerna
in sì aperta e n sì distesa lingua
lo dicer mio, chal tuo sentir si sterna,
ove dinanzi dissi: “U ben simpingua”,
e là u dissi: “Non nacque il secondo”;
e qui è uopo che ben si distingua.
La provedenza, che governa il mondo
con quel consiglio nel quale ogne aspetto
creato è vinto pria che vada al fondo,
però che andasse ver lo suo diletto
la sposa di colui chad alte grida
disposò lei col sangue benedetto,
in sé sicura e anche a lui più fida,
due principi ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida.
Lun fu tutto serafico in ardore;
laltro per sapïenza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.
De lun dirò, però che damendue
si dice lun pregiando, qual chom prende,
perch ad un fine fur lopere sue.
Intra Tupino e lacqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa dalto monte pende,
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.
Di questa costa, là dov ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.
Però chi desso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole.
Non era ancor molto lontan da lorto,
chel cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto;
ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra;
e dinanzi a la sua spirital corte
et coram patre le si fece unito;
poscia di dì in dì lamò più forte.
Questa, privata del primo marito,
millecent anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito;
né valse udir che la trovò sicura
con Amiclate, al suon de la sua voce,
colui cha tutto l mondo fé paura;
né valse esser costante né feroce,
sì che, dove Maria rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce.
Ma perch io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.
La lor concordia e i lor lieti sembianti,
amore e maraviglia e dolce sguardo
facieno esser cagion di pensier santi;
tanto che l venerabile Bernardo
si scalzò prima, e dietro a tanta pace
corse e, correndo, li parve esser tardo.
Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!
Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
dietro a lo sposo, sì la sposa piace.
Indi sen va quel padre e quel maestro
con la sua donna e con quella famiglia
che già legava lumile capestro.
Né li gravò viltà di cuor le ciglia
per esser fi di Pietro Bernardone,
né per parer dispetto a maraviglia;
ma regalmente sua dura intenzione
ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
primo sigillo a sua religïone.
Poi che la gente poverella crebbe
dietro a costui, la cui mirabil vita
meglio in gloria del ciel si canterebbe,
di seconda corona redimita
fu per Onorio da lEtterno Spiro
la santa voglia desto archimandrita.
E poi che, per la sete del martiro,
ne la presenza del Soldan superba
predicò Cristo e li altri che l seguiro,
e per trovare a conversione acerba
troppo la gente e per non stare indarno,
redissi al frutto de litalica erba,
nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese lultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.
Quando a colui cha tanto ben sortillo
piacque di trarlo suso a la mercede
chel meritò nel suo farsi pusillo,
a frati suoi, sì com a giuste rede,
raccomandò la donna sua più cara,
e comandò che lamassero a fede;
e del suo grembo lanima preclara
mover si volle, tornando al suo regno,
e al suo corpo non volle altra bara.
Pensa oramai qual fu colui che degno
collega fu a mantener la barca
di Pietro in alto mar per dritto segno;
e questo fu il nostro patrïarca;
per che qual segue lui, com el comanda,
discerner puoi che buone merce carca.
Ma l suo pecuglio di nova vivanda
è fatto ghiotto, sì chesser non puote
che per diversi salti non si spanda;
e quanto le sue pecore remote
e vagabunde più da esso vanno,
più tornano a lovil di latte vòte.
Ben son di quelle che temono l danno
e stringonsi al pastor; ma son sì poche,
che le cappe fornisce poco panno.
Or, se le mie parole non son fioche,
se la tua audïenza è stata attenta,
se ciò chè detto a la mente revoche,
in parte fia la tua voglia contenta,
perché vedrai la pianta onde si scheggia,
e vedra il corrègger che argomenta
“U ben simpingua, se non si vaneggia”».
Paradiso · Canto XII
Sì tosto come lultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse,
a rotar cominciò la santa mola;
e nel suo giro tutta non si volse
prima chunaltra di cerchio la chiuse,
e moto a moto e canto a canto colse;
canto che tanto vince nostre muse,
nostre serene in quelle dolci tube,
quanto primo splendor quel che refuse.
Come si volgon per tenera nube
due archi paralelli e concolori,
quando Iunone a sua ancella iube,
nascendo di quel dentro quel di fori,
a guisa del parlar di quella vaga
chamor consunse come sol vapori,
e fanno qui la gente esser presaga,
per lo patto che Dio con Noè puose,
del mondo che già mai più non sallaga:
così di quelle sempiterne rose
volgiensi circa noi le due ghirlande,
e sì lestrema a lintima rispuose.
Poi che l tripudio e laltra festa grande,
sì del cantare e sì del fiammeggiarsi
luce con luce gaudïose e blande,
insieme a punto e a voler quetarsi,
pur come li occhi chal piacer che i move
conviene insieme chiudere e levarsi;
del cor de luna de le luci nove
si mosse voce, che lago a la stella
parer mi fece in volgermi al suo dove;
e cominciò: «Lamor che mi fa bella
mi tragge a ragionar de laltro duca
per cui del mio sì ben ci si favella.
Degno è che, dov è lun, laltro sinduca:
sì che, com elli ad una militaro,
così la gloria loro insieme luca.
Lessercito di Cristo, che sì caro
costò a rïarmar, dietro a la nsegna
si movea tardo, sospeccioso e raro,
quando lo mperador che sempre regna
provide a la milizia, chera in forse,
per sola grazia, non per esser degna;
e, come è detto, a sua sposa soccorse
con due campioni, al cui fare, al cui dire
lo popol disvïato si raccorse.
In quella parte ove surge ad aprire
Zefiro dolce le novelle fronde
di che si vede Europa rivestire,
non molto lungi al percuoter de londe
dietro a le quali, per la lunga foga,
lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde,
siede la fortunata Calaroga
sotto la protezion del grande scudo
in che soggiace il leone e soggioga:
dentro vi nacque lamoroso drudo
de la fede cristiana, il santo atleta
benigno a suoi e a nemici crudo;
e come fu creata, fu repleta
sì la sua mente di viva vertute
che, ne la madre, lei fece profeta.
Poi che le sponsalizie fuor compiute
al sacro fonte intra lui e la Fede,
u si dotar di mutüa salute,
la donna che per lui lassenso diede,
vide nel sonno il mirabile frutto
chuscir dovea di lui e de le rede;
e perché fosse qual era in costrutto,
quinci si mosse spirito a nomarlo
del possessivo di cui era tutto.
Domenico fu detto; e io ne parlo
sì come de lagricola che Cristo
elesse a lorto suo per aiutarlo.
Ben parve messo e famigliar di Cristo:
che l primo amor che n lui fu manifesto,
fu al primo consiglio che diè Cristo.
Spesse fïate fu tacito e desto
trovato in terra da la sua nutrice,
come dicesse: Io son venuto a questo.
Oh padre suo veramente Felice!
oh madre sua veramente Giovanna,
se, interpretata, val come si dice!
Non per lo mondo, per cui mo saffanna
di retro ad Ostïense e a Taddeo,
ma per amor de la verace manna
in picciol tempo gran dottor si feo;
tal che si mise a circüir la vigna
che tosto imbianca, se l vignaio è reo.
E a la sedia che fu già benigna
più a poveri giusti, non per lei,
ma per colui che siede, che traligna,
non dispensare o due o tre per sei,
non la fortuna di prima vacante,
non decimas, quae sunt pauperum Dei,
addimandò, ma contro al mondo errante
licenza di combatter per lo seme
del qual ti fascian ventiquattro piante.
Poi, con dottrina e con volere insieme,
con lofficio appostolico si mosse
quasi torrente chalta vena preme;
e ne li sterpi eretici percosse
limpeto suo, più vivamente quivi
dove le resistenze eran più grosse.
Di lui si fecer poi diversi rivi
onde lorto catolico si riga,
sì che i suoi arbuscelli stan più vivi.
Se tal fu luna rota de la biga
in che la Santa Chiesa si difese
e vinse in campo la sua civil briga,
ben ti dovrebbe assai esser palese
leccellenza de laltra, di cui Tomma
dinanzi al mio venir fu sì cortese.
Ma lorbita che fé la parte somma
di sua circunferenza, è derelitta,
sì chè la muffa dov era la gromma.
La sua famiglia, che si mosse dritta
coi piedi a le sue orme, è tanto volta,
che quel dinanzi a quel di retro gitta;
e tosto si vedrà de la ricolta
de la mala coltura, quando il loglio
si lagnerà che larca li sia tolta.
Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio
nostro volume, ancor troveria carta
u leggerebbe “I mi son quel chi soglio”;
ma non fia da Casal né dAcquasparta,
là onde vegnon tali a la scrittura,
chuno la fugge e altro la coarta.
Io son la vita di Bonaventura
da Bagnoregio, che ne grandi offici
sempre pospuosi la sinistra cura.
Illuminato e Augustin son quici,
che fuor de primi scalzi poverelli
che nel capestro a Dio si fero amici.
Ugo da San Vittore è qui con elli,
e Pietro Mangiadore e Pietro Spano,
lo qual giù luce in dodici libelli;
Natàn profeta e l metropolitano
Crisostomo e Anselmo e quel Donato
cha la prim arte degnò porre mano.
Rabano è qui, e lucemi dallato
il calavrese abate Giovacchino
di spirito profetico dotato.
Ad inveggiar cotanto paladino
mi mosse linfiammata cortesia
di fra Tommaso e l discreto latino;
e mosse meco questa compagnia».
Paradiso · Canto XIII
Imagini, chi bene intender cupe
quel chi or vidi—e ritegna limage,
mentre chio dico, come ferma rupe—,
quindici stelle che n diverse plage
lo ciel avvivan di tanto sereno
che soperchia de laere ogne compage;
imagini quel carro a cu il seno
basta del nostro cielo e notte e giorno,
sì chal volger del temo non vien meno;
imagini la bocca di quel corno
che si comincia in punta de lo stelo
a cui la prima rota va dintorno,
aver fatto di sé due segni in cielo,
qual fece la figliuola di Minoi
allora che sentì di morte il gelo;
e lun ne laltro aver li raggi suoi,
e amendue girarsi per maniera
che luno andasse al primo e laltro al poi;
e avrà quasi lombra de la vera
costellazione e de la doppia danza
che circulava il punto dov io era:
poi chè tanto di là da nostra usanza,
quanto di là dal mover de la Chiana
si move il ciel che tutti li altri avanza.
Lì si cantò non Bacco, non Peana,
ma tre persone in divina natura,
e in una persona essa e lumana.
Compié l cantare e l volger sua misura;
e attesersi a noi quei santi lumi,
felicitando sé di cura in cura.
Ruppe il silenzio ne concordi numi
poscia la luce in che mirabil vita
del poverel di Dio narrata fumi,
e disse: «Quando luna paglia è trita,
quando la sua semenza è già riposta,
a batter laltra dolce amor minvita.
Tu credi che nel petto onde la costa
si trasse per formar la bella guancia
il cui palato a tutto l mondo costa,
e in quel che, forato da la lancia,
e prima e poscia tanto sodisfece,
che dogne colpa vince la bilancia,
quantunque a la natura umana lece
aver di lume, tutto fosse infuso
da quel valor che luno e laltro fece;
e però miri a ciò chio dissi suso,
quando narrai che non ebbe l secondo
lo ben che ne la quinta luce è chiuso.
Or apri li occhi a quel chio ti rispondo,
e vedräi il tuo credere e l mio dire
nel vero farsi come centro in tondo.
Ciò che non more e ciò che può morire
non è se non splendor di quella idea
che partorisce, amando, il nostro Sire;
ché quella viva luce che sì mea
dal suo lucente, che non si disuna
da lui né da lamor cha lor sintrea,
per sua bontate il suo raggiare aduna,
quasi specchiato, in nove sussistenze,
etternalmente rimanendosi una.
Quindi discende a lultime potenze
giù datto in atto, tanto divenendo,
che più non fa che brevi contingenze;
e queste contingenze essere intendo
le cose generate, che produce
con seme e sanza seme il ciel movendo.
La cera di costoro e chi la duce
non sta dun modo; e però sotto l segno
idëale poi più e men traluce.
Ond elli avvien chun medesimo legno,
secondo specie, meglio e peggio frutta;
e voi nascete con diverso ingegno.
Se fosse a punto la cera dedutta
e fosse il cielo in sua virtù supprema,
la luce del suggel parrebbe tutta;
ma la natura la dà sempre scema,
similemente operando a lartista
cha labito de larte ha man che trema.
Però se l caldo amor la chiara vista
de la prima virtù dispone e segna,
tutta la perfezion quivi sacquista.
Così fu fatta già la terra degna
di tutta lanimal perfezïone;
così fu fatta la Vergine pregna;
sì chio commendo tua oppinïone,
che lumana natura mai non fue
né fia qual fu in quelle due persone.
Or si non procedesse avanti piùe,
Dunque, come costui fu sanza pare?
comincerebber le parole tue.
Ma perché paia ben ciò che non pare,
pensa chi era, e la cagion che l mosse,
quando fu detto “Chiedi”, a dimandare.
Non ho parlato sì, che tu non posse
ben veder chel fu re, che chiese senno
acciò che re sufficïente fosse;
non per sapere il numero in che enno
li motor di qua sù, o se necesse
con contingente mai necesse fenno;
non si est dare primum motum esse,
o se del mezzo cerchio far si puote
trïangol sì chun retto non avesse.
Onde, se ciò chio dissi e questo note,
regal prudenza è quel vedere impari
in che lo stral di mia intenzion percuote;
e se al “surse” drizzi li occhi chiari,
vedrai aver solamente respetto
ai regi, che son molti, e buon son rari.
Con questa distinzion prendi l mio detto;
e così puote star con quel che credi
del primo padre e del nostro Diletto.
E questo ti sia sempre piombo a piedi,
per farti mover lento com uom lasso
e al sì e al no che tu non vedi:
ché quelli è tra li stolti bene a basso,
che sanza distinzione afferma e nega
ne lun così come ne laltro passo;
perch elli ncontra che più volte piega
loppinïon corrente in falsa parte,
e poi laffetto lintelletto lega.
Vie più che ndarno da riva si parte,
perché non torna tal qual e si move,
chi pesca per lo vero e non ha larte.
E di ciò sono al mondo aperte prove
Parmenide, Melisso e Brisso e molti,
li quali andaro e non sapëan dove;
sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti
che furon come spade a le Scritture
in render torti li diritti volti.
Non sien le genti, ancor, troppo sicure
a giudicar, sì come quei che stima
le biade in campo pria che sien mature;
chi ho veduto tutto l verno prima
lo prun mostrarsi rigido e feroce,
poscia portar la rosa in su la cima;
e legno vidi già dritto e veloce
correr lo mar per tutto suo cammino,
perire al fine a lintrar de la foce.
Non creda donna Berta e ser Martino,
per vedere un furare, altro offerere,
vederli dentro al consiglio divino;
ché quel può surgere, e quel può cadere».
Paradiso · Canto XIV
Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro
movesi lacqua in un ritondo vaso,
secondo chè percosso fuori o dentro:
ne la mia mente fé sùbito caso
questo chio dico, sì come si tacque
la glorïosa vita di Tommaso,
per la similitudine che nacque
del suo parlare e di quel di Beatrice,
a cui sì cominciar, dopo lui, piacque:
«A costui fa mestieri, e nol vi dice
né con la voce né pensando ancora,
dun altro vero andare a la radice.
Diteli se la luce onde sinfiora
vostra sustanza, rimarrà con voi
etternalmente sì com ell è ora;
e se rimane, dite come, poi
che sarete visibili rifatti,
esser porà chal veder non vi nòi».
Come, da più letizia pinti e tratti,
a la fïata quei che vanno a rota
levan la voce e rallegrano li atti,
così, a lorazion pronta e divota,
li santi cerchi mostrar nova gioia
nel torneare e ne la mira nota.
Qual si lamenta perché qui si moia
per viver colà sù, non vide quive
lo refrigerio de letterna ploia.
Quell uno e due e tre che sempre vive
e regna sempre in tre e n due e n uno,
non circunscritto, e tutto circunscrive,
tre volte era cantato da ciascuno
di quelli spirti con tal melodia,
chad ogne merto saria giusto muno.
E io udi ne la luce più dia
del minor cerchio una voce modesta,
forse qual fu da langelo a Maria,
risponder: «Quanto fia lunga la festa
di paradiso, tanto il nostro amore
si raggerà dintorno cotal vesta.
La sua chiarezza séguita lardore;
lardor la visïone, e quella è tanta,
quant ha di grazia sovra suo valore.
Come la carne glorïosa e santa
fia rivestita, la nostra persona
più grata fia per esser tutta quanta;
per che saccrescerà ciò che ne dona
di gratüito lume il sommo bene,
lume cha lui veder ne condiziona;
onde la visïon crescer convene,
crescer lardor che di quella saccende,
crescer lo raggio che da esso vene.
Ma sì come carbon che fiamma rende,
e per vivo candor quella soverchia,
sì che la sua parvenza si difende;
così questo folgór che già ne cerchia
fia vinto in apparenza da la carne
che tutto dì la terra ricoperchia;
né potrà tanta luce affaticarne:
ché li organi del corpo saran forti
a tutto ciò che potrà dilettarne».
Tanto mi parver sùbiti e accorti
e luno e laltro coro a dicer «Amme!»,
che ben mostrar disio di corpi morti:
forse non pur per lor, ma per le mamme,
per li padri e per li altri che fuor cari
anzi che fosser sempiterne fiamme.
Ed ecco intorno, di chiarezza pari,
nascere un lustro sopra quel che vera,
per guisa dorizzonte che rischiari.
E sì come al salir di prima sera
comincian per lo ciel nove parvenze,
sì che la vista pare e non par vera,
parvemi lì novelle sussistenze
cominciare a vedere, e fare un giro
di fuor da laltre due circunferenze.
Oh vero sfavillar del Santo Spiro!
come si fece sùbito e candente
a li occhi miei che, vinti, nol soffriro!
Ma Bëatrice sì bella e ridente
mi si mostrò, che tra quelle vedute
si vuol lasciar che non seguir la mente.
Quindi ripreser li occhi miei virtute
a rilevarsi; e vidimi translato
sol con mia donna in più alta salute.
Ben maccors io chio era più levato,
per laffocato riso de la stella,
che mi parea più roggio che lusato.
Con tutto l core e con quella favella
chè una in tutti, a Dio feci olocausto,
qual conveniesi a la grazia novella.
E non er anco del mio petto essausto
lardor del sacrificio, chio conobbi
esso litare stato accetto e fausto;
ché con tanto lucore e tanto robbi
mapparvero splendor dentro a due raggi,
chio dissi: «O Elïòs che sì li addobbi!».
Come distinta da minori e maggi
lumi biancheggia tra poli del mondo
Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;
sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno
che fan giunture di quadranti in tondo.
Qui vince la memoria mia lo ngegno;
ché quella croce lampeggiava Cristo,
sì chio non so trovare essempro degno;
ma chi prende sua croce e segue Cristo,
ancor mi scuserà di quel chio lasso,
vedendo in quell albor balenar Cristo.
Di corno in corno e tra la cima e l basso
si movien lumi, scintillando forte
nel congiugnersi insieme e nel trapasso:
così si veggion qui diritte e torte,
veloci e tarde, rinovando vista,
le minuzie di corpi, lunghe e corte,
moversi per lo raggio onde si lista
talvolta lombra che, per sua difesa,
la gente con ingegno e arte acquista.
E come giga e arpa, in tempra tesa
di molte corde, fa dolce tintinno
a tal da cui la nota non è intesa,
così da lumi che lì mapparinno
saccogliea per la croce una melode
che mi rapiva, sanza intender linno.
Ben maccors io chelli era dalte lode,
però cha me venìa «Resurgi» e «Vinci»
come a colui che non intende e ode.
Ïo minnamorava tanto quinci,
che nfino a lì non fu alcuna cosa
che mi legasse con sì dolci vinci.
Forse la mia parola par troppo osa,
posponendo il piacer de li occhi belli,
ne quai mirando mio disio ha posa;
ma chi savvede che i vivi suggelli
dogne bellezza più fanno più suso,
e chio non mera lì rivolto a quelli,
escusar puommi di quel chio maccuso
per escusarmi, e vedermi dir vero:
ché l piacer santo non è qui dischiuso,
perché si fa, montando, più sincero.
Paradiso · Canto XV
Benigna volontade in che si liqua
sempre lamor che drittamente spira,
come cupidità fa ne la iniqua,
silenzio puose a quella dolce lira,
e fece quïetar le sante corde
che la destra del cielo allenta e tira.
Come saranno a giusti preghi sorde
quelle sustanze che, per darmi voglia
chio le pregassi, a tacer fur concorde?
Bene è che sanza termine si doglia
chi, per amor di cosa che non duri
etternalmente, quello amor si spoglia.
Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri,
e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond e saccende
nulla sen perde, ed esso dura poco:
tale dal corno che n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì resplende;
né si partì la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radïal trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro.
Sì pïa lombra dAnchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio saccorse.
«O sanguis meus, o superinfusa
gratïa Deï, sicut tibi cui
bis unquam celi ianüa reclusa?».
Così quel lume: ond io mattesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui;
ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, chio pensai co miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso.
Indi, a udire e a veder giocondo,
giunse lo spirto al suo principio cose,
chio non lo ntesi, sì parlò profondo;
né per elezïon mi si nascose,
ma per necessità, ché l suo concetto
al segno di mortal si soprapuose.
E quando larco de lardente affetto
fu sì sfogato, che l parlar discese
inver lo segno del nostro intelletto,
la prima cosa che per me sintese,
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,
che nel mio seme se tanto cortese!».
E seguì: «Grato e lontano digiuno,
tratto leggendo del magno volume
du non si muta mai bianco né bruno,
solvuto hai, figlio, dentro a questo lume
in chio ti parlo, mercè di colei
cha lalto volo ti vestì le piume.
Tu credi che a me tuo pensier mei
da quel chè primo, così come raia
da lun, se si conosce, il cinque e l sei;
e però chio mi sia e perch io paia
più gaudïoso a te, non mi domandi,
che alcun altro in questa turba gaia.
Tu credi l vero; ché i minori e grandi
di questa vita miran ne lo speglio
in che, prima che pensi, il pensier pandi;
ma perché l sacro amore in che io veglio
con perpetüa vista e che masseta
di dolce disïar, sadempia meglio,
la voce tua sicura, balda e lieta
suoni la volontà, suoni l disio,
a che la mia risposta è già decreta!».
Io mi volsi a Beatrice, e quella udio
pria chio parlassi, e arrisemi un cenno
che fece crescer lali al voler mio.
Poi cominciai così: «Laffetto e l senno,
come la prima equalità vapparse,
dun peso per ciascun di voi si fenno,
però che l sol che vallumò e arse,
col caldo e con la luce è sì iguali,
che tutte simiglianze sono scarse.
Ma voglia e argomento ne mortali,
per la cagion cha voi è manifesta,
diversamente son pennuti in ali;
ond io, che son mortal, mi sento in questa
disagguaglianza, e però non ringrazio
se non col core a la paterna festa.
Ben supplico io a te, vivo topazio
che questa gioia prezïosa ingemmi,
perché mi facci del tuo nome sazio».
«O fronda mia in che io compiacemmi
pur aspettando, io fui la tua radice»:
cotal principio, rispondendo, femmi.
Poscia mi disse: «Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent anni e piùe
girato ha l monte in la prima cornice,
mio figlio fu e tuo bisavol fue:
ben si convien che la lunga fatica
tu li raccorci con lopere tue.
Fiorenza dentro da la cerchia antica,
ond ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.
Non avea catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona.
Non faceva, nascendo, ancor paura
la figlia al padre, che l tempo e la dote
non fuggien quinci e quindi la misura.
Non avea case di famiglia vòte;
non vera giunto ancor Sardanapalo
a mostrar ciò che n camera si puote.
Non era vinto ancora Montemalo
dal vostro Uccellatoio, che, com è vinto
nel montar sù, così sarà nel calo.
Bellincion Berti vid io andar cinto
di cuoio e dosso, e venir da lo specchio
la donna sua sanza l viso dipinto;
e vidi quel di Nerli e quel del Vecchio
esser contenti a la pelle scoperta,
e le sue donne al fuso e al pennecchio.
Oh fortunate! ciascuna era certa
de la sua sepultura, e ancor nulla
era per Francia nel letto diserta.
Luna vegghiava a studio de la culla,
e, consolando, usava lidïoma
che prima i padri e le madri trastulla;
laltra, traendo a la rocca la chioma,
favoleggiava con la sua famiglia
di Troiani, di Fiesole e di Roma.
Saria tenuta allor tal maraviglia
una Cianghella, un Lapo Salterello,
qual or saria Cincinnato e Corniglia.
A così riposato, a così bello
viver di cittadini, a così fida
cittadinanza, a così dolce ostello,
Maria mi diè, chiamata in alte grida;
e ne lantico vostro Batisteo
insieme fui cristiano e Cacciaguida.
Moronto fu mio frate ed Eliseo;
mia donna venne a me di val di Pado,
e quindi il sopranome tuo si feo.
Poi seguitai lo mperador Currado;
ed el mi cinse de la sua milizia,
tanto per bene ovrar li venni in grado.
Dietro li andai incontro a la nequizia
di quella legge il cui popolo usurpa,
per colpa di pastor, vostra giustizia.
Quivi fu io da quella gente turpa
disviluppato dal mondo fallace,
lo cui amor molt anime deturpa;
e venni dal martiro a questa pace».
Paradiso · Canto XVI
O poca nostra nobiltà di sangue,
se glorïar di te la gente fai
qua giù dove laffetto nostro langue,
mirabil cosa non mi sarà mai:
ché là dove appetito non si torce,
dico nel cielo, io me ne gloriai.
Ben se tu manto che tosto raccorce:
sì che, se non sappon di dì in die,
lo tempo va dintorno con le force.
Dal voi che prima a Roma sofferie,
in che la sua famiglia men persevra,
ricominciaron le parole mie;
onde Beatrice, chera un poco scevra,
ridendo, parve quella che tossio
al primo fallo scritto di Ginevra.
Io cominciai: «Voi siete il padre mio;
voi mi date a parlar tutta baldezza;
voi mi levate sì, chi son più chio.
Per tanti rivi sempie dallegrezza
la mente mia, che di sé fa letizia
perché può sostener che non si spezza.
Ditemi dunque, cara mia primizia,
quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni
che si segnaro in vostra püerizia;
ditemi de lovil di San Giovanni
quanto era allora, e chi eran le genti
tra esso degne di più alti scanni».
Come savviva a lo spirar di venti
carbone in fiamma, così vid io quella
luce risplendere a miei blandimenti;
e come a li occhi miei si fé più bella,
così con voce più dolce e soave,
ma non con questa moderna favella,
dissemi: «Da quel dì che fu detto Ave
al parto in che mia madre, chè or santa,
sallevïò di me ond era grave,
al suo Leon cinquecento cinquanta
e trenta fiate venne questo foco
a rinfiammarsi sotto la sua pianta.
Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria lultimo sesto
da quei che corre il vostro annüal gioco.
Basti di miei maggiori udirne questo:
chi ei si fosser e onde venner quivi,
più è tacer che ragionare onesto.
Tutti color cha quel tempo eran ivi
da poter arme tra Marte e l Batista,
eran il quinto di quei chor son vivi.
Ma la cittadinanza, chè or mista
di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
pura vediesi ne lultimo artista.
Oh quanto fora meglio esser vicine
quelle genti chio dico, e al Galluzzo
e a Trespiano aver vostro confine,
che averle dentro e sostener lo puzzo
del villan dAguglion, di quel da Signa,
che già per barattare ha locchio aguzzo!
Se la gente chal mondo più traligna
non fosse stata a Cesare noverca,
ma come madre a suo figlio benigna,
tal fatto è fiorentino e cambia e merca,
che si sarebbe vòlto a Simifonti,
là dove andava lavolo a la cerca;
sariesi Montemurlo ancor de Conti;
sarieno i Cerchi nel piovier dAcone,
e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.
Sempre la confusion de le persone
principio fu del mal de la cittade,
come del vostro il cibo che sappone;
e cieco toro più avaccio cade
che cieco agnello; e molte volte taglia
più e meglio una che le cinque spade.
Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
come sono ite, e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,
udir come le schiatte si disfanno
non ti parrà nova cosa né forte,
poscia che le cittadi termine hanno.
Le vostre cose tutte hanno lor morte,
sì come voi; ma celasi in alcuna
che dura molto, e le vite son corte.
E come l volger del ciel de la luna
cuopre e discuopre i liti sanza posa,
così fa di Fiorenza la Fortuna:
per che non dee parer mirabil cosa
ciò chio dirò de li alti Fiorentini
onde è la fama nel tempo nascosa.
Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,
Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,
già nel calare, illustri cittadini;
e vidi così grandi come antichi,
con quel de la Sannella, quel de lArca,
e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.
Sovra la porta chal presente è carca
di nova fellonia di tanto peso
che tosto fia iattura de la barca,
erano i Ravignani, ond è disceso
il conte Guido e qualunque del nome
de lalto Bellincione ha poscia preso.
Quel de la Pressa sapeva già come
regger si vuole, e avea Galigaio
dorata in casa sua già lelsa e l pome.
Grand era già la colonna del Vaio,
Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci
e Galli e quei charrossan per lo staio.
Lo ceppo di che nacquero i Calfucci
era già grande, e già eran tratti
a le curule Sizii e Arrigucci.
Oh quali io vidi quei che son disfatti
per lor superbia! e le palle de loro
fiorian Fiorenza in tutt i suoi gran fatti.
Così facieno i padri di coloro
che, sempre che la vostra chiesa vaca,
si fanno grassi stando a consistoro.
Loltracotata schiatta che sindraca
dietro a chi fugge, e a chi mostra l dente
o ver la borsa, com agnel si placa,
già venìa sù, ma di picciola gente;
sì che non piacque ad Ubertin Donato
che poï il suocero il fé lor parente.
Già era l Caponsacco nel mercato
disceso giù da Fiesole, e già era
buon cittadino Giuda e Infangato.
Io dirò cosa incredibile e vera:
nel picciol cerchio sentrava per porta
che si nomava da quei de la Pera.
Ciascun che de la bella insegna porta
del gran barone il cui nome e l cui pregio
la festa di Tommaso riconforta,
da esso ebbe milizia e privilegio;
avvegna che con popol si rauni
oggi colui che la fascia col fregio.
Già eran Gualterotti e Importuni;
e ancor saria Borgo più quïeto,
se di novi vicin fosser digiuni.
La casa di che nacque il vostro fleto,
per lo giusto disdegno che vha morti
e puose fine al vostro viver lieto,
era onorata, essa e suoi consorti:
o Buondelmonte, quanto mal fuggisti
le nozze süe per li altrui conforti!
Molti sarebber lieti, che son tristi,
se Dio tavesse conceduto ad Ema
la prima volta cha città venisti.
Ma conveniesi a quella pietra scema
che guarda l ponte, che Fiorenza fesse
vittima ne la sua pace postrema.
Con queste genti, e con altre con esse,
vid io Fiorenza in sì fatto riposo,
che non avea cagione onde piangesse.
Con queste genti vidio glorïoso
e giusto il popol suo, tanto che l giglio
non era ad asta mai posto a ritroso,
né per divisïon fatto vermiglio».
Paradiso · Canto XVII
Qual venne a Climenè, per accertarsi
di ciò chavëa incontro a sé udito,
quei chancor fa li padri ai figli scarsi;
tal era io, e tal era sentito
e da Beatrice e da la santa lampa
che pria per me avea mutato sito.
Per che mia donna «Manda fuor la vampa
del tuo disio», mi disse, «sì chella esca
segnata bene de la interna stampa:
non perché nostra conoscenza cresca
per tuo parlare, ma perché tausi
a dir la sete, sì che luom ti mesca».
«O cara piota mia che sì tinsusi,
che, come veggion le terrene menti
non capere in trïangol due ottusi,
così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti;
mentre chio era a Virgilio congiunto
su per lo monte che lanime cura
e discendendo nel mondo defunto,
dette mi fuor di mia vita futura
parole gravi, avvegna chio mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura;
per che la voglia mia saria contenta
dintender qual fortuna mi sappressa:
ché saetta previsa vien più lenta».
Così diss io a quella luce stessa
che pria mavea parlato; e come volle
Beatrice, fu la mia voglia confessa.
Né per ambage, in che la gente folle
già sinviscava pria che fosse anciso
lAgnel di Dio che le peccata tolle,
ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
chiuso e parvente del suo proprio riso:
«La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno;
necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende.
Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti sapparecchia.
Qual si partio Ipolito dAtene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.
Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca.
La colpa seguirà la parte offensa
in grido, come suol; ma la vendetta
fia testimonio al ver che la dispensa.
Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che larco de lo essilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e l salir per laltrui scale.
E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle;
che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr a te; ma, poco appresso,
ella, non tu, navrà rossa la tempia.
Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì cha te fia bello
averti fatta parte per te stesso.
Lo primo tuo refugio e l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che n su la scala porta il santo uccello;
chin te avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra li altri è più tardo.
Con lui vedrai colui che mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier lopere sue.
Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte;
ma pria che l Guasco lalto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
in non curar dargento né daffanni.
Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute.
A lui taspetta e a suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;
e porterane scritto ne la mente
di lui, e nol dirai»; e disse cose
incredibili a quei che fier presente.
Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose
di quel che ti fu detto; ecco le nsidie
che dietro a pochi giri son nascose.
Non vo però cha tuoi vicini invidie,
poscia che sinfutura la tua vita
vie più là che l punir di lor perfidie».
Poi che, tacendo, si mostrò spedita
lanima santa di metter la trama
in quella tela chio le porsi ordita,
io cominciai, come colui che brama,
dubitando, consiglio da persona
che vede e vuol dirittamente e ama:
«Ben veggio, padre mio, sì come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, chè più grave a chi più sabbandona;
per che di provedenza è buon chio marmi,
sì che, se loco mè tolto più caro,
io non perdessi li altri per miei carmi.
Giù per lo mondo sanza fine amaro,
e per lo monte del cui bel cacume
li occhi de la mia donna mi levaro,
e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che sio ridico,
a molti fia sapor di forte agrume;
e sio al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico».
La luce in che rideva il mio tesoro
chio trovai lì, si fé prima corusca,
quale a raggio di sole specchio doro;
indi rispuose: «Coscïenza fusca
o de la propria o de laltrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov è la rogna.
Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa donor poco argomento.
Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur lanime che son di fama note,
che lanimo di quel chode, non posa
né ferma fede per essempro chaia
la sua radice incognita e ascosa,
né per altro argomento che non paia».
Paradiso · Canto XVIII
Già si godeva solo del suo verbo
quello specchio beato, e io gustava
lo mio, temprando col dolce lacerbo;
e quella donna cha Dio mi menava
disse: «Muta pensier; pensa chi sono
presso a colui chogne torto disgrava».
Io mi rivolsi a lamoroso suono
del mio conforto; e qual io allor vidi
ne li occhi santi amor, qui labbandono:
non perch io pur del mio parlar diffidi,
ma per la mente che non può redire
sovra sé tanto, saltri non la guidi.
Tanto poss io di quel punto ridire,
che, rimirando lei, lo mio affetto
libero fu da ogne altro disire,
fin che l piacere etterno, che diretto
raggiava in Bëatrice, dal bel viso
mi contentava col secondo aspetto.
Vincendo me col lume dun sorriso,
ella mi disse: «Volgiti e ascolta;
ché non pur ne miei occhi è paradiso».
Come si vede qui alcuna volta
laffetto ne la vista, selli è tanto,
che da lui sia tutta lanima tolta,
così nel fiammeggiar del folgór santo,
a chio mi volsi, conobbi la voglia
in lui di ragionarmi ancora alquanto.
El cominciò: «In questa quinta soglia
de lalbero che vive de la cima
e frutta sempre e mai non perde foglia,
spiriti son beati, che giù, prima
che venissero al ciel, fuor di gran voce,
sì chogne musa ne sarebbe opima.
Però mira ne corni de la croce:
quello chio nomerò, lì farà latto
che fa in nube il suo foco veloce».
Io vidi per la croce un lume tratto
dal nomar Iosuè, com el si feo;
né mi fu noto il dir prima che l fatto.
E al nome de lalto Macabeo
vidi moversi un altro roteando,
e letizia era ferza del paleo.
Così per Carlo Magno e per Orlando
due ne seguì lo mio attento sguardo,
com occhio segue suo falcon volando.
Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo
e l duca Gottifredi la mia vista
per quella croce, e Ruberto Guiscardo.
Indi, tra laltre luci mota e mista,
mostrommi lalma che mavea parlato
qual era tra i cantor del cielo artista.
Io mi rivolsi dal mio destro lato
per vedere in Beatrice il mio dovere,
o per parlare o per atto, segnato;
e vidi le sue luci tanto mere,
tanto gioconde, che la sua sembianza
vinceva li altri e lultimo solere.
E come, per sentir più dilettanza
bene operando, luom di giorno in giorno
saccorge che la sua virtute avanza,
sì maccors io che l mio girare intorno
col cielo insieme avea cresciuto larco,
veggendo quel miracol più addorno.
E qual è l trasmutare in picciol varco
di tempo in bianca donna, quando l volto
suo si discarchi di vergogna il carco,
tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto,
per lo candor de la temprata stella
sesta, che dentro a sé mavea ricolto.
Io vidi in quella giovïal facella
lo sfavillar de lamor che lì era
segnare a li occhi miei nostra favella.
E come augelli surti di rivera,
quasi congratulando a lor pasture,
fanno di sé or tonda or altra schiera,
sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.
Prima, cantando, a sua nota moviensi;
poi, diventando lun di questi segni,
un poco sarrestavano e taciensi.
O diva Pegasëa che li ngegni
fai glorïosi e rendili longevi,
ed essi teco le cittadi e regni,
illustrami di te, sì chio rilevi
le lor figure com io lho concette:
paia tua possa in questi versi brevi!
Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.
DILIGITE IUSTITIAM, primai
fur verbo e nome di tutto l dipinto;
QUI IUDICATIS TERRAM, fur sezzai.
Poscia ne lemme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sì che Giove
pareva argento lì doro distinto.
E vidi scendere altre luci dove
era il colmo de lemme, e lì quetarsi
cantando, credo, il ben cha sé le move.
Poi, come nel percuoter di ciocchi arsi
surgono innumerabili faville,
onde li stolti sogliono agurarsi,
resurger parver quindi più di mille
luci e salir, qual assai e qual poco,
sì come l sol che laccende sortille;
e quïetata ciascuna in suo loco,
la testa e l collo dunaguglia vidi
rappresentare a quel distinto foco.
Quei che dipinge lì, non ha chi l guidi;
ma esso guida, e da lui si rammenta
quella virtù chè forma per li nidi.
Laltra bëatitudo, che contenta
pareva prima dingigliarsi a lemme,
con poco moto seguitò la mprenta.
O dolce stella, quali e quante gemme
mi dimostraro che nostra giustizia
effetto sia del ciel che tu ingemme!
Per chio prego la mente in che sinizia
tuo moto e tua virtute, che rimiri
ond esce il fummo che l tuo raggio vizia;
sì chunaltra fïata omai sadiri
del comperare e vender dentro al templo
che si murò di segni e di martìri.
O milizia del ciel cu io contemplo,
adora per color che sono in terra
tutti svïati dietro al malo essemplo!
Già si solea con le spade far guerra;
ma or si fa togliendo or qui or quivi
lo pan che l pïo Padre a nessun serra.
Ma tu che sol per cancellare scrivi,
pensa che Pietro e Paulo, che moriro
per la vigna che guasti, ancor son vivi.
Ben puoi tu dire: «I ho fermo l disiro
sì a colui che volle viver solo
e che per salti fu tratto al martiro,
chio non conosco il pescator né Polo».
Paradiso · Canto XIX
Parea dinanzi a me con lali aperte
la bella image che nel dolce frui
liete facevan lanime conserte;
parea ciascuna rubinetto in cui
raggio di sole ardesse sì acceso,
che ne miei occhi rifrangesse lui.
E quel che mi convien ritrar testeso,
non portò voce mai, né scrisse incostro,
né fu per fantasia già mai compreso;
chio vidi e anche udi parlar lo rostro,
e sonar ne la voce e «io» e «mio»,
quand era nel concetto e noi e nostro.
E cominciò: «Per esser giusto e pio
son io qui essaltato a quella gloria
che non si lascia vincere a disio;
e in terra lasciai la mia memoria
sì fatta, che le genti lì malvage
commendan lei, ma non seguon la storia».
Così un sol calor di molte brage
si fa sentir, come di molti amori
usciva solo un suon di quella image.
Ond io appresso: «O perpetüi fiori
de letterna letizia, che pur uno
parer mi fate tutti vostri odori,
solvetemi, spirando, il gran digiuno
che lungamente mha tenuto in fame,
non trovandoli in terra cibo alcuno.
Ben so io che, se n cielo altro reame
la divina giustizia fa suo specchio,
che l vostro non lapprende con velame.
Sapete come attento io mapparecchio
ad ascoltar; sapete qual è quello
dubbio che mè digiun cotanto vecchio».
Quasi falcone chesce del cappello,
move la testa e con lali si plaude,
voglia mostrando e faccendosi bello,
vid io farsi quel segno, che di laude
de la divina grazia era contesto,
con canti quai si sa chi là sù gaude.
Poi cominciò: «Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto,
non poté suo valor sì fare impresso
in tutto luniverso, che l suo verbo
non rimanesse in infinito eccesso.
E ciò fa certo che l primo superbo,
che fu la somma dogne creatura,
per non aspettar lume, cadde acerbo;
e quinci appar chogne minor natura
è corto recettacolo a quel bene
che non ha fine e sé con sé misura.
Dunque vostra veduta, che convene
esser alcun de raggi de la mente
di che tutte le cose son ripiene,
non pò da sua natura esser possente
tanto, che suo principio discerna
molto di là da quel che lè parvente.
Però ne la giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo,
com occhio per lo mare, entro sinterna;
che, ben che da la proda veggia il fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
èli, ma cela lui lesser profondo.
Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai; anzi è tenèbra
od ombra de la carne o suo veleno.
Assai tè mo aperta la latebra
che tascondeva la giustizia viva,
di che facei question cotanto crebra;
ché tu dicevi: “Un uom nasce a la riva
de lIndo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva;
e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni.
Muore non battezzato e sanza fede:
ov è questa giustizia che l condanna?
ov è la colpa sua, se ei non crede?”.
Or tu chi se, che vuo sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta duna spanna?
Certo a colui che meco sassottiglia,
se la Scrittura sovra voi non fosse,
da dubitar sarebbe a maraviglia.
Oh terreni animali! oh menti grosse!
La prima volontà, chè da sé buona,
da sé, chè sommo ben, mai non si mosse.
Cotanto è giusto quanto a lei consuona:
nullo creato bene a sé la tira,
ma essa, radïando, lui cagiona».
Quale sovresso il nido si rigira
poi cha pasciuti la cicogna i figli,
e come quel chè pasto la rimira;
cotal si fece, e sì leväi i cigli,
la benedetta imagine, che lali
movea sospinte da tanti consigli.
Roteando cantava, e dicea: «Quali
son le mie note a te, che non le ntendi,
tal è il giudicio etterno a voi mortali».
Poi si quetaro quei lucenti incendi
de lo Spirito Santo ancor nel segno
che fé i Romani al mondo reverendi,
esso ricominciò: «A questo regno
non salì mai chi non credette n Cristo,
né pria né poi chel si chiavasse al legno.
Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”,
che saranno in giudicio assai men prope
a lui, che tal che non conosce Cristo;
e tai Cristian dannerà lEtïòpe,
quando si partiranno i due collegi,
luno in etterno ricco e laltro inòpe.
Che poran dir li Perse a vostri regi,
come vedranno quel volume aperto
nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?
Lì si vedrà, tra lopere dAlberto,
quella che tosto moverà la penna,
per che l regno di Praga fia diserto.
Lì si vedrà il duol che sovra Senna
induce, falseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotenna.
Lì si vedrà la superbia chasseta,
che fa lo Scotto e lInghilese folle,
sì che non può soffrir dentro a sua meta.
Vedrassi la lussuria e l viver molle
di quel di Spagna e di quel di Boemme,
che mai valor non conobbe né volle.
Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme
segnata con un i la sua bontate,
quando l contrario segnerà un emme.
Vedrassi lavarizia e la viltate
di quei che guarda lisola del foco,
ove Anchise finì la lunga etate;
e a dare ad intender quanto è poco,
la sua scrittura fian lettere mozze,
che noteranno molto in parvo loco.
E parranno a ciascun lopere sozze
del barba e del fratel, che tanto egregia
nazione e due corone han fatte bozze.
E quel di Portogallo e di Norvegia
lì si conosceranno, e quel di Rascia
che male ha visto il conio di Vinegia.
Oh beata Ungheria, se non si lascia
più malmenare! e beata Navarra,
se sarmasse del monte che la fascia!
E creder de ciascun che già, per arra
di questo, Niccosïa e Famagosta
per la lor bestia si lamenti e garra,
che dal fianco de laltre non si scosta».
Paradiso · Canto XX
Quando colui che tutto l mondo alluma
de lemisperio nostro sì discende,
che l giorno dogne parte si consuma,
lo ciel, che sol di lui prima saccende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una risplende;
e questo atto del ciel mi venne a mente,
come l segno del mondo e de suoi duci
nel benedetto rostro fu tacente;
però che tutte quelle vive luci,
vie più lucendo, cominciaron canti
da mia memoria labili e caduci.
O dolce amor che di riso tammanti,
quanto parevi ardente in que flailli,
chavieno spirto sol di pensier santi!
Poscia che i cari e lucidi lapilli
ond io vidi ingemmato il sesto lume
puoser silenzio a li angelici squilli,
udir mi parve un mormorar di fiume
che scende chiaro giù di pietra in pietra,
mostrando lubertà del suo cacume.
E come suono al collo de la cetra
prende sua forma, e sì com al pertugio
de la sampogna vento che penètra,
così, rimosso daspettare indugio,
quel mormorar de laguglia salissi
su per lo collo, come fosse bugio.
Fecesi voce quivi, e quindi uscissi
per lo suo becco in forma di parole,
quali aspettava il core ov io le scrissi.
«La parte in me che vede e pate il sole
ne laguglie mortali», incominciommi,
«or fisamente riguardar si vole,
perché di fuochi ond io figura fommi,
quelli onde locchio in testa mi scintilla,
e di tutti lor gradi son li sommi.
Colui che luce in mezzo per pupilla,
fu il cantor de lo Spirito Santo,
che larca traslatò di villa in villa:
ora conosce il merto del suo canto,
in quanto effetto fu del suo consiglio,
per lo remunerar chè altrettanto.
Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
colui che più al becco mi saccosta,
la vedovella consolò del figlio:
ora conosce quanto caro costa
non seguir Cristo, per lesperïenza
di questa dolce vita e de lopposta.
E quel che segue in la circunferenza
di che ragiono, per larco superno,
morte indugiò per vera penitenza:
ora conosce che l giudicio etterno
non si trasmuta, quando degno preco
fa crastino là giù de lodïerno.
Laltro che segue, con le leggi e meco,
sotto buona intenzion che fé mal frutto,
per cedere al pastor si fece greco:
ora conosce come il mal dedutto
dal suo bene operar non li è nocivo,
avvegna che sia l mondo indi distrutto.
E quel che vedi ne larco declivo,
Guiglielmo fu, cui quella terra plora
che piagne Carlo e Federigo vivo:
ora conosce come sinnamora
lo ciel del giusto rege, e al sembiante
del suo fulgore il fa vedere ancora.
Chi crederebbe giù nel mondo errante
che Rifëo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante?
Ora conosce assai di quel che l mondo
veder non può de la divina grazia,
ben che sua vista non discerna il fondo».
Quale allodetta che n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
de lultima dolcezza che la sazia,
tal mi sembiò limago de la mprenta
de letterno piacere, al cui disio
ciascuna cosa qual ell è diventa.
E avvegna chio fossi al dubbiar mio
lì quasi vetro a lo color chel veste,
tempo aspettar tacendo non patio,
ma de la bocca, «Che cose son queste?»,
mi pinse con la forza del suo peso:
per chio di coruscar vidi gran feste.
Poi appresso, con locchio più acceso,
lo benedetto segno mi rispuose
per non tenermi in ammirar sospeso:
«Io veggio che tu credi queste cose
perch io le dico, ma non vedi come;
sì che, se son credute, sono ascose.
Fai come quei che la cosa per nome
apprende ben, ma la sua quiditate
veder non può se altri non la prome.
Regnum celorum vïolenza pate
da caldo amore e da viva speranza,
che vince la divina volontate:
non a guisa che lomo a lom sobranza,
ma vince lei perché vuole esser vinta,
e, vinta, vince con sua beninanza.
La prima vita del ciglio e la quinta
ti fa maravigliar, perché ne vedi
la regïon de li angeli dipinta.
Di corpi suoi non uscir, come credi,
Gentili, ma Cristiani, in ferma fede
quel di passuri e quel di passi piedi.
Ché luna de lo nferno, u non si riede
già mai a buon voler, tornò a lossa;
e ciò di viva spene fu mercede:
di viva spene, che mise la possa
ne prieghi fatti a Dio per suscitarla,
sì che potesse sua voglia esser mossa.
Lanima glorïosa onde si parla,
tornata ne la carne, in che fu poco,
credette in lui che potëa aiutarla;
e credendo saccese in tanto foco
di vero amor, cha la morte seconda
fu degna di venire a questo gioco.
Laltra, per grazia che da sì profonda
fontana stilla, che mai creatura
non pinse locchio infino a la prima onda,
tutto suo amor là giù pose a drittura:
per che, di grazia in grazia, Dio li aperse
locchio a la nostra redenzion futura;
ond ei credette in quella, e non sofferse
da indi il puzzo più del paganesmo;
e riprendiene le genti perverse.
Quelle tre donne li fur per battesmo
che tu vedesti da la destra rota,
dinanzi al battezzar più dun millesmo.
O predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli aspetti
che la prima cagion non veggion tota!
E voi, mortali, tenetevi stretti
a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,
non conosciamo ancor tutti li eletti;
ed ènne dolce così fatto scemo,
perché il ben nostro in questo ben saffina,
che quel che vole Iddio, e noi volemo».
Così da quella imagine divina,
per farmi chiara la mia corta vista,
data mi fu soave medicina.
E come a buon cantor buon citarista
fa seguitar lo guizzo de la corda,
in che più di piacer lo canto acquista,
sì, mentre che parlò, sì mi ricorda
chio vidi le due luci benedette,
pur come batter docchi si concorda,
con le parole mover le fiammette.
Paradiso · Canto XXI
Già eran li occhi miei rifissi al volto
de la mia donna, e lanimo con essi,
e da ogne altro intento sera tolto.
E quella non ridea; ma «Sio ridessi»,
mi cominciò, «tu ti faresti quale
fu Semelè quando di cener fessi:
ché la bellezza mia, che per le scale
de letterno palazzo più saccende,
com hai veduto, quanto più si sale,
se non si temperasse, tanto splende,
che l tuo mortal podere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende.
Noi sem levati al settimo splendore,
che sotto l petto del Leone ardente
raggia mo misto giù del suo valore.
Ficca di retro a li occhi tuoi la mente,
e fa di quelli specchi a la figura
che n questo specchio ti sarà parvente».
Qual savesse qual era la pastura
del viso mio ne laspetto beato
quand io mi trasmutai ad altra cura,
conoscerebbe quanto mera a grato
ubidire a la mia celeste scorta,
contrapesando lun con laltro lato.
Dentro al cristallo che l vocabol porta,
cerchiando il mondo, del suo caro duce
sotto cui giacque ogne malizia morta,
di color doro in che raggio traluce
vid io uno scaleo eretto in suso
tanto, che nol seguiva la mia luce.
Vidi anche per li gradi scender giuso
tanti splendor, chio pensai chogne lume
che par nel ciel, quindi fosse diffuso.
E come, per lo natural costume,
le pole insieme, al cominciar del giorno,
si movono a scaldar le fredde piume;
poi altre vanno via sanza ritorno,
altre rivolgon sé onde son mosse,
e altre roteando fan soggiorno;
tal modo parve me che quivi fosse
in quello sfavillar che nsieme venne,
sì come in certo grado si percosse.
E quel che presso più ci si ritenne,
si fé sì chiaro, chio dicea pensando:
Io veggio ben lamor che tu maccenne.
Ma quella ond io aspetto il come e l quando
del dire e del tacer, si sta; ond io,
contra l disio, fo ben chio non dimando.
Per chella, che vedëa il tacer mio
nel veder di colui che tutto vede,
mi disse: «Solvi il tuo caldo disio».
E io incominciai: «La mia mercede
non mi fa degno de la tua risposta;
ma per colei che l chieder mi concede,
vita beata che ti stai nascosta
dentro a la tua letizia, fammi nota
la cagion che sì presso mi tha posta;
e dì perché si tace in questa rota
la dolce sinfonia di paradiso,
che giù per laltre suona sì divota».
«Tu hai ludir mortal sì come il viso»,
rispuose a me; «onde qui non si canta
per quel che Bëatrice non ha riso.
Giù per li gradi de la scala santa
discesi tanto sol per farti festa
col dire e con la luce che mi ammanta;
né più amor mi fece esser più presta,
ché più e tanto amor quinci sù ferve,
sì come il fiammeggiar ti manifesta.
Ma lalta carità, che ci fa serve
pronte al consiglio che l mondo governa,
sorteggia qui sì come tu osserve».
«Io veggio ben», diss io, «sacra lucerna,
come libero amore in questa corte
basta a seguir la provedenza etterna;
ma questo è quel cha cerner mi par forte,
perché predestinata fosti sola
a questo officio tra le tue consorte».
Né venni prima a lultima parola,
che del suo mezzo fece il lume centro,
girando sé come veloce mola;
poi rispuose lamor che vera dentro:
«Luce divina sopra me sappunta,
penetrando per questa in chio minventro,
la cui virtù, col mio veder congiunta,
mi leva sopra me tanto, chi veggio
la somma essenza de la quale è munta.
Quinci vien lallegrezza ond io fiammeggio;
per cha la vista mia, quant ella è chiara,
la chiarità de la fiamma pareggio.
Ma quell alma nel ciel che più si schiara,
quel serafin che n Dio più locchio ha fisso,
a la dimanda tua non satisfara,
però che sì sinnoltra ne lo abisso
de letterno statuto quel che chiedi,
che da ogne creata vista è scisso.
E al mondo mortal, quando tu riedi,
questo rapporta, sì che non presumma
a tanto segno più mover li piedi.
La mente, che qui luce, in terra fumma;
onde riguarda come può là giùe
quel che non pote perché l ciel lassumma».
Sì mi prescrisser le parole sue,
chio lasciai la quistione e mi ritrassi
a dimandarla umilmente chi fue.
«Tra due liti dItalia surgon sassi,
e non molto distanti a la tua patria,
tanto che troni assai suonan più bassi,
e fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consecrato un ermo,
che suole esser disposto a sola latria».
Così ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continüando, disse: «Quivi
al servigio di Dio mi fe sì fermo,
che pur con cibi di liquor dulivi
lievemente passava caldi e geli,
contento ne pensier contemplativi.
Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano,
sì che tosto convien che si riveli.
In quel loco fu io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fu ne la casa
di Nostra Donna in sul lito adriano.
Poca vita mortal mera rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
che pur di male in peggio si travasa.
Venne Cefàs e venne il gran vasello
de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
prendendo il cibo da qualunque ostello.
Or voglion quinci e quindi chi rincalzi
li moderni pastori e chi li meni,
tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.
Cuopron di manti loro i palafreni,
sì che due bestie van sott una pelle:
oh pazïenza che tanto sostieni!».
A questa voce vid io più fiammelle
di grado in grado scendere e girarsi,
e ogne giro le facea più belle.
Dintorno a questa vennero e fermarsi,
e fero un grido di sì alto suono,
che non potrebbe qui assomigliarsi;
né io lo ntesi, sì mi vinse il tuono.
Paradiso · Canto XXII
Oppresso di stupore, a la mia guida
mi volsi, come parvol che ricorre
sempre colà dove più si confida;
e quella, come madre che soccorre
sùbito al figlio palido e anelo
con la sua voce, che l suol ben disporre,
mi disse: «Non sai tu che tu se in cielo?
e non sai tu che l cielo è tutto santo,
e ciò che ci si fa vien da buon zelo?
Come tavrebbe trasmutato il canto,
e io ridendo, mo pensar lo puoi,
poscia che l grido tha mosso cotanto;
nel qual, se nteso avessi i prieghi suoi,
già ti sarebbe nota la vendetta
che tu vedrai innanzi che tu muoi.
La spada di qua sù non taglia in fretta
né tardo, ma chal parer di colui
che disïando o temendo laspetta.
Ma rivolgiti omai inverso altrui;
chassai illustri spiriti vedrai,
se com io dico laspetto redui».
Come a lei piacque, li occhi ritornai,
e vidi cento sperule che nsieme
più sabbellivan con mutüi rai.
Io stava come quei che n sé repreme
la punta del disio, e non sattenta
di domandar, sì del troppo si teme;
e la maggiore e la più luculenta
di quelle margherite innanzi fessi,
per far di sé la mia voglia contenta.
Poi dentro a lei udi: «Se tu vedessi
com io la carità che tra noi arde,
li tuoi concetti sarebbero espressi.
Ma perché tu, aspettando, non tarde
a lalto fine, io ti farò risposta
pur al pensier, da che sì ti riguarde.
Quel monte a cui Cassino è ne la costa
fu frequentato già in su la cima
da la gente ingannata e mal disposta;
e quel son io che sù vi portai prima
lo nome di colui che n terra addusse
la verità che tanto ci soblima;
e tanta grazia sopra me relusse,
chio ritrassi le ville circunstanti
da lempio cólto che l mondo sedusse.
Questi altri fuochi tutti contemplanti
uomini fuoro, accesi di quel caldo
che fa nascere i fiori e frutti santi.
Qui è Maccario, qui è Romoaldo,
qui son li frati miei che dentro ai chiostri
fermar li piedi e tennero il cor saldo».
E io a lui: «Laffetto che dimostri
meco parlando, e la buona sembianza
chio veggio e noto in tutti li ardor vostri,
così mha dilatata mia fidanza,
come l sol fa la rosa quando aperta
tanto divien quant ell ha di possanza.
Però ti priego, e tu, padre, maccerta
sio posso prender tanta grazia, chio
ti veggia con imagine scoverta».
Ond elli: «Frate, il tuo alto disio
sadempierà in su lultima spera,
ove sadempion tutti li altri e l mio.
Ivi è perfetta, matura e intera
ciascuna disïanza; in quella sola
è ogne parte là ove sempr era,
perché non è in loco e non simpola;
e nostra scala infino ad essa varca,
onde così dal viso ti sinvola.
Infin là sù la vide il patriarca
Iacobbe porger la superna parte,
quando li apparve dangeli sì carca.
Ma, per salirla, mo nessun diparte
da terra i piedi, e la regola mia
rimasa è per danno de le carte.
Le mura che solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle
sacca son piene di farina ria.
Ma grave usura tanto non si tolle
contra l piacer di Dio, quanto quel frutto
che fa il cor de monaci sì folle;
ché quantunque la Chiesa guarda, tutto
è de la gente che per Dio dimanda;
non di parenti né daltro più brutto.
La carne di mortali è tanto blanda,
che giù non basta buon cominciamento
dal nascer de la quercia al far la ghianda.
Pier cominciò sanz oro e sanz argento,
e io con orazione e con digiuno,
e Francesco umilmente il suo convento;
e se guardi l principio di ciascuno,
poscia riguardi là dov è trascorso,
tu vederai del bianco fatto bruno.
Veramente Iordan vòlto retrorso
più fu, e l mar fuggir, quando Dio volse,
mirabile a veder che qui l soccorso».
Così mi disse, e indi si raccolse
al suo collegio, e l collegio si strinse;
poi, come turbo, in sù tutto savvolse.
La dolce donna dietro a lor mi pinse
con un sol cenno su per quella scala,
sì sua virtù la mia natura vinse;
né mai qua giù dove si monta e cala
naturalmente, fu sì ratto moto
chagguagliar si potesse a la mia ala.
Sio torni mai, lettore, a quel divoto
trïunfo per lo quale io piango spesso
le mie peccata e l petto mi percuoto,
tu non avresti in tanto tratto e messo
nel foco il dito, in quant io vidi l segno
che segue il Tauro e fui dentro da esso.
O glorïose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,
con voi nasceva e sascondeva vosco
quelli chè padre dogne mortal vita,
quand io senti di prima laere tosco;
e poi, quando mi fu grazia largita
dentrar ne lalta rota che vi gira,
la vostra regïon mi fu sortita.
A voi divotamente ora sospira
lanima mia, per acquistar virtute
al passo forte che a sé la tira.
«Tu se sì presso a lultima salute»,
cominciò Bëatrice, «che tu dei
aver le luci tue chiare e acute;
e però, prima che tu più tinlei,
rimira in giù, e vedi quanto mondo
sotto li piedi già esser ti fei;
sì che l tuo cor, quantunque può, giocondo
sappresenti a la turba trïunfante
che lieta vien per questo etera tondo».
Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, chio sorrisi del suo vil sembiante;
e quel consiglio per migliore approbo
che lha per meno; e chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo.
Vidi la figlia di Latona incensa
sanza quell ombra che mi fu cagione
per che già la credetti rara e densa.
Laspetto del tuo nato, Iperïone,
quivi sostenni, e vidi com si move
circa e vicino a lui Maia e Dïone.
Quindi mapparve il temperar di Giove
tra l padre e l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove;
e tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi e quanto son veloci
e come sono in distante riparo.
Laiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom io con li etterni Gemelli,
tutta mapparve da colli a le foci;
poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.
Paradiso · Canto XXIII
Come laugello, intra lamate fronde,
posato al nido de suoi dolci nati
la notte che le cose ci nasconde,
che, per veder li aspetti disïati
e per trovar lo cibo onde li pasca,
in che gravi labor li sono aggrati,
previene il tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che lalba nasca;
così la donna mïa stava eretta
e attenta, rivolta inver la plaga
sotto la quale il sol mostra men fretta:
sì che, veggendola io sospesa e vaga,
fecimi qual è quei che disïando
altro vorria, e sperando sappaga.
Ma poco fu tra uno e altro quando,
del mio attender, dico, e del vedere
lo ciel venir più e più rischiarando;
e Bëatrice disse: «Ecco le schiere
del trïunfo di Cristo e tutto l frutto
ricolto del girar di queste spere!».
Pariemi che l suo viso ardesse tutto,
e li occhi avea di letizia sì pieni,
che passarmen convien sanza costrutto.
Quale ne plenilunïi sereni
Trivïa ride tra le ninfe etterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni,
vid i sopra migliaia di lucerne
un sol che tutte quante laccendea,
come fa l nostro le viste superne;
e per la viva luce trasparea
la lucente sustanza tanto chiara
nel viso mio, che non la sostenea.
Oh Bëatrice, dolce guida e cara!
Ella mi disse: «Quel che ti sobranza
è virtù da cui nulla si ripara.
Quivi è la sapïenza e la possanza
chaprì le strade tra l cielo e la terra,
onde fu già sì lunga disïanza».
Come foco di nube si diserra
per dilatarsi sì che non vi cape,
e fuor di sua natura in giù satterra,
la mente mia così, tra quelle dape
fatta più grande, di sé stessa uscìo,
e che si fesse rimembrar non sape.
«Apri li occhi e riguarda qual son io;
tu hai vedute cose, che possente
se fatto a sostener lo riso mio».
Io era come quei che si risente
di visïone oblita e che singegna
indarno di ridurlasi a la mente,
quand io udi questa proferta, degna
di tanto grato, che mai non si stingue
del libro che l preterito rassegna.
Se mo sonasser tutte quelle lingue
che Polimnïa con le suore fero
del latte lor dolcissimo più pingue,
per aiutarmi, al millesmo del vero
non si verria, cantando il santo riso
e quanto il santo aspetto facea mero;
e così, figurando il paradiso,
convien saltar lo sacrato poema,
come chi trova suo cammin riciso.
Ma chi pensasse il ponderoso tema
e lomero mortal che se ne carca,
nol biasmerebbe se sott esso trema:
non è pareggio da picciola barca
quel che fendendo va lardita prora,
né da nocchier cha sé medesmo parca.
«Perché la faccia mia sì tinnamora,
che tu non ti rivolgi al bel giardino
che sotto i raggi di Cristo sinfiora?
Quivi è la rosa in che l verbo divino
carne si fece; quivi son li gigli
al cui odor si prese il buon cammino».
Così Beatrice; e io, che a suoi consigli
tutto era pronto, ancora mi rendei
a la battaglia de debili cigli.
Come a raggio di sol, che puro mei
per fratta nube, già prato di fiori
vider, coverti dombra, li occhi miei;
vid io così più turbe di splendori,
folgorate di sù da raggi ardenti,
sanza veder principio di folgóri.
O benigna vertù che sì li mprenti,
sù tessaltasti, per largirmi loco
a li occhi lì che non teran possenti.
Il nome del bel fior chio sempre invoco
e mane e sera, tutto mi ristrinse
lanimo ad avvisar lo maggior foco;
e come ambo le luci mi dipinse
il quale e il quanto de la viva stella
che là sù vince come qua giù vinse,
per entro il cielo scese una facella,
formata in cerchio a guisa di corona,
e cinsela e girossi intorno ad ella.
Qualunque melodia più dolce suona
qua giù e più a sé lanima tira,
parrebbe nube che squarciata tona,
comparata al sonar di quella lira
onde si coronava il bel zaffiro
del quale il ciel più chiaro sinzaffira.
«Io sono amore angelico, che giro
lalta letizia che spira del ventre
che fu albergo del nostro disiro;
e girerommi, donna del ciel, mentre
che seguirai tuo figlio, e farai dia
più la spera suprema perché lì entre».
Così la circulata melodia
si sigillava, e tutti li altri lumi
facean sonare il nome di Maria.
Lo real manto di tutti i volumi
del mondo, che più ferve e più savviva
ne lalito di Dio e nei costumi,
avea sopra di noi linterna riva
tanto distante, che la sua parvenza,
là dov io era, ancor non appariva:
però non ebber li occhi miei potenza
di seguitar la coronata fiamma
che si levò appresso sua semenza.
E come fantolin che nver la mamma
tende le braccia, poi che l latte prese,
per lanimo che nfin di fuor sinfiamma;
ciascun di quei candori in sù si stese
con la sua cima, sì che lalto affetto
chelli avieno a Maria mi fu palese.
Indi rimaser lì nel mio cospetto,
Regina celi cantando sì dolce,
che mai da me non si partì l diletto.
Oh quanta è lubertà che si soffolce
in quelle arche ricchissime che fuoro
a seminar qua giù buone bobolce!
Quivi si vive e gode del tesoro
che sacquistò piangendo ne lo essilio
di Babillòn, ove si lasciò loro.
Quivi trïunfa, sotto lalto Filio
di Dio e di Maria, di sua vittoria,
e con lantico e col novo concilio,
colui che tien le chiavi di tal gloria.
Paradiso · Canto XXIV
«O sodalizio eletto a la gran cena
del benedetto Agnello, il qual vi ciba
sì, che la vostra voglia è sempre piena,
se per grazia di Dio questi preliba
di quel che cade de la vostra mensa,
prima che morte tempo li prescriba,
ponete mente a laffezione immensa
e roratelo alquanto: voi bevete
sempre del fonte onde vien quel chei pensa».
Così Beatrice; e quelle anime liete
si fero spere sopra fissi poli,
fiammando, a volte, a guisa di comete.
E come cerchi in tempra dorïuoli
si giran sì, che l primo a chi pon mente
quïeto pare, e lultimo che voli;
così quelle carole, differente-
mente danzando, de la sua ricchezza
mi facieno stimar, veloci e lente.
Di quella chio notai di più carezza
vid ïo uscire un foco sì felice,
che nullo vi lasciò di più chiarezza;
e tre fïate intorno di Beatrice
si volse con un canto tanto divo,
che la mia fantasia nol mi ridice.
Però salta la penna e non lo scrivo:
ché limagine nostra a cotai pieghe,
non che l parlare, è troppo color vivo.
«O santa suora mia che sì ne prieghe
divota, per lo tuo ardente affetto
da quella bella spera mi disleghe».
Poscia fermato, il foco benedetto
a la mia donna dirizzò lo spiro,
che favellò così com i ho detto.
Ed ella: «O luce etterna del gran viro
a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi,
chei portò giù, di questo gaudio miro,
tenta costui di punti lievi e gravi,
come ti piace, intorno de la fede,
per la qual tu su per lo mare andavi.
Selli ama bene e bene spera e crede,
non tè occulto, perché l viso hai quivi
dov ogne cosa dipinta si vede;
ma perché questo regno ha fatto civi
per la verace fede, a glorïarla,
di lei parlare è ben cha lui arrivi».
Sì come il baccialier sarma e non parla
fin che l maestro la question propone,
per approvarla, non per terminarla,
così marmava io dogne ragione
mentre chella dicea, per esser presto
a tal querente e a tal professione.
«Dì, buon Cristiano, fatti manifesto:
fede che è?». Ond io levai la fronte
in quella luce onde spirava questo;
poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte
sembianze femmi perch ïo spandessi
lacqua di fuor del mio interno fonte.
«La Grazia che mi dà chio mi confessi»,
comincia io, «da lalto primipilo,
faccia li miei concetti bene espressi».
E seguitai: «Come l verace stilo
ne scrisse, padre, del tuo caro frate
che mise teco Roma nel buon filo,
fede è sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi;
e questa pare a me sua quiditate».
Allora udi: «Dirittamente senti,
se bene intendi perché la ripuose
tra le sustanze, e poi tra li argomenti».
E io appresso: «Le profonde cose
che mi largiscon qui la lor parvenza,
a li occhi di là giù son sì ascose,
che lesser loro vè in sola credenza,
sopra la qual si fonda lalta spene;
e però di sustanza prende intenza.
E da questa credenza ci convene
silogizzar, sanz avere altra vista:
però intenza dargomento tene».
Allora udi: «Se quantunque sacquista
giù per dottrina, fosse così nteso,
non lì avria loco ingegno di sofista».
Così spirò di quello amore acceso;
indi soggiunse: «Assai bene è trascorsa
desta moneta già la lega e l peso;
ma dimmi se tu lhai ne la tua borsa».
Ond io: «Sì ho, sì lucida e sì tonda,
che nel suo conio nulla mi sinforsa».
Appresso uscì de la luce profonda
che lì splendeva: «Questa cara gioia
sopra la quale ogne virtù si fonda,
onde ti venne?». E io: «La larga ploia
de lo Spirito Santo, chè diffusa
in su le vecchie e n su le nuove cuoia,
è silogismo che la mha conchiusa
acutamente sì, che nverso della
ogne dimostrazion mi pare ottusa».
Io udi poi: «Lantica e la novella
proposizion che così ti conchiude,
perché lhai tu per divina favella?».
E io: «La prova che l ver mi dischiude,
son lopere seguite, a che natura
non scalda ferro mai né batte incude».
Risposto fummi: «Dì, chi tassicura
che quell opere fosser? Quel medesmo
che vuol provarsi, non altri, il ti giura».
«Se l mondo si rivolse al cristianesmo»,
diss io, «sanza miracoli, quest uno
è tal, che li altri non sono il centesmo:
ché tu intrasti povero e digiuno
in campo, a seminar la buona pianta
che fu già vite e ora è fatta pruno».
Finito questo, lalta corte santa
risonò per le spere un Dio laudamo
ne la melode che là sù si canta.
E quel baron che sì di ramo in ramo,
essaminando, già tratto mavea,
che a lultime fronde appressavamo,
ricominciò: «La Grazia, che donnea
con la tua mente, la bocca taperse
infino a qui come aprir si dovea,
sì chio approvo ciò che fuori emerse;
ma or convien espremer quel che credi,
e onde a la credenza tua sofferse».
«O santo padre, e spirito che vedi
ciò che credesti sì, che tu vincesti
ver lo sepulcro più giovani piedi»,
comincia io, «tu vuo chio manifesti
la forma qui del pronto creder mio,
e anche la cagion di lui chiedesti.
E io rispondo: Io credo in uno Dio
solo ed etterno, che tutto l ciel move,
non moto, con amore e con disio;
e a tal creder non ho io pur prove
fisice e metafisice, ma dalmi
anche la verità che quinci piove
per Moïsè, per profeti e per salmi,
per lEvangelio e per voi che scriveste
poi che lardente Spirto vi fé almi;
e credo in tre persone etterne, e queste
credo una essenza sì una e sì trina,
che soffera congiunto sono ed este.
De la profonda condizion divina
chio tocco mo, la mente mi sigilla
più volte levangelica dottrina.
Quest è l principio, quest è la favilla
che si dilata in fiamma poi vivace,
e come stella in cielo in me scintilla».
Come l segnor chascolta quel che i piace,
da indi abbraccia il servo, gratulando
per la novella, tosto chel si tace;
così, benedicendomi cantando,
tre volte cinse me, sì com io tacqui,
lappostolico lume al cui comando
io avea detto: sì nel dir li piacqui!
Paradiso · Canto XXV
Se mai continga che l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che mha fatto per molti anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov io dormi agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò l cappello;
però che ne la fede, che fa conte
lanime a Dio, quivi intra io, e poi
Pietro per lei sì mi girò la fronte.
Indi si mosse un lume verso noi
di quella spera ond uscì la primizia
che lasciò Cristo di vicari suoi;
e la mia donna, piena di letizia,
mi disse: «Mira, mira: ecco il barone
per cui là giù si vicita Galizia».
Sì come quando il colombo si pone
presso al compagno, luno a laltro pande,
girando e mormorando, laffezione;
così vid ïo lun da laltro grande
principe glorïoso essere accolto,
laudando il cibo che là sù li prande.
Ma poi che l gratular si fu assolto,
tacito coram me ciascun saffisse,
ignito sì che vincëa l mio volto.
Ridendo allora Bëatrice disse:
«Inclita vita per cui la larghezza
de la nostra basilica si scrisse,
fa risonar la spene in questa altezza:
tu sai, che tante fiate la figuri,
quante Iesù ai tre fé più carezza».
«Leva la testa e fa che tassicuri:
che ciò che vien qua sù del mortal mondo,
convien chai nostri raggi si maturi».
Questo conforto del foco secondo
mi venne; ond io leväi li occhi a monti
che li ncurvaron pria col troppo pondo.
«Poi che per grazia vuol che tu taffronti
lo nostro Imperadore, anzi la morte,
ne laula più secreta co suoi conti,
sì che, veduto il ver di questa corte,
la spene, che là giù bene innamora,
in te e in altrui di ciò conforte,
di quel chell è, di come se ne nfiora
la mente tua, e dì onde a te venne».
Così seguì l secondo lume ancora.
E quella pïa che guidò le penne
de le mie ali a così alto volo,
a la risposta così mi prevenne:
«La Chiesa militante alcun figliuolo
non ha con più speranza, com è scritto
nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:
però li è conceduto che dEgitto
vegna in Ierusalemme per vedere,
anzi che l militar li sia prescritto.
Li altri due punti, che non per sapere
son dimandati, ma perch ei rapporti
quanto questa virtù tè in piacere,
a lui lasc io, ché non li saran forti
né di iattanza; ed elli a ciò risponda,
e la grazia di Dio ciò li comporti».
Come discente cha dottor seconda
pronto e libente in quel chelli è esperto,
perché la sua bontà si disasconda,
«Spene», diss io, «è uno attender certo
de la gloria futura, il qual produce
grazia divina e precedente merto.
Da molte stelle mi vien questa luce;
ma quei la distillò nel mio cor pria
che fu sommo cantor del sommo duce.
Sperino in te, ne la sua tëodia
dice, color che sanno il nome tuo:
e chi nol sa, selli ha la fede mia?
Tu mi stillasti, con lo stillar suo,
ne la pistola poi; sì chio son pieno,
e in altrui vostra pioggia repluo».
Mentr io diceva, dentro al vivo seno
di quello incendio tremolava un lampo
sùbito e spesso a guisa di baleno.
Indi spirò: «Lamore ond ïo avvampo
ancor ver la virtù che mi seguette
infin la palma e a luscir del campo,
vuol chio respiri a te che ti dilette
di lei; ed emmi a grato che tu diche
quello che la speranza ti mpromette».
E io: «Le nove e le scritture antiche
pongon lo segno, ed esso lo mi addita,
de lanime che Dio sha fatte amiche.
Dice Isaia che ciascuna vestita
ne la sua terra fia di doppia vesta:
e la sua terra è questa dolce vita;
e l tuo fratello assai vie più digesta,
là dove tratta de le bianche stole,
questa revelazion ci manifesta».
E prima, appresso al fin deste parole,
Sperent in te di sopr a noi sudì;
a che rispuoser tutte le carole.
Poscia tra esse un lume si schiarì
sì che, se l Cancro avesse un tal cristallo,
linverno avrebbe un mese dun sol dì.
E come surge e va ed entra in ballo
vergine lieta, sol per fare onore
a la novizia, non per alcun fallo,
così vid io lo schiarato splendore
venire a due che si volgieno a nota
qual conveniesi al loro ardente amore.
Misesi lì nel canto e ne la rota;
e la mia donna in lor tenea laspetto,
pur come sposa tacita e immota.
«Questi è colui che giacque sopra l petto
del nostro pellicano, e questi fue
di su la croce al grande officio eletto».
La donna mia così; né però piùe
mosser la vista sua di stare attenta
poscia che prima le parole sue.
Qual è colui chadocchia e sargomenta
di vedere eclissar lo sole un poco,
che, per veder, non vedente diventa;
tal mi fec ïo a quell ultimo foco
mentre che detto fu: «Perché tabbagli
per veder cosa che qui non ha loco?
In terra è terra il mio corpo, e saragli
tanto con li altri, che l numero nostro
con letterno proposito sagguagli.
Con le due stole nel beato chiostro
son le due luci sole che saliro;
e questo apporterai nel mondo vostro».
A questa voce linfiammato giro
si quïetò con esso il dolce mischio
che si facea nel suon del trino spiro,
sì come, per cessar fatica o rischio,
li remi, pria ne lacqua ripercossi,
tutti si posano al sonar dun fischio.
Ahi quanto ne la mente mi commossi,
quando mi volsi per veder Beatrice,
per non poter veder, benché io fossi
presso di lei, e nel mondo felice!
Paradiso · Canto XXVI
Mentr io dubbiava per lo viso spento,
de la fulgida fiamma che lo spense
uscì un spiro che mi fece attento,
dicendo: «Intanto che tu ti risense
de la vista che haï in me consunta,
ben è che ragionando la compense.
Comincia dunque; e dì ove sappunta
lanima tua, e fa ragion che sia
la vista in te smarrita e non defunta:
perché la donna che per questa dia
regïon ti conduce, ha ne lo sguardo
la virtù chebbe la man dAnania».
Io dissi: «Al suo piacere e tosto e tardo
vegna remedio a li occhi, che fuor porte
quand ella entrò col foco ond io sempr ardo.
Lo ben che fa contenta questa corte,
Alfa e O è di quanta scrittura
mi legge Amore o lievemente o forte».
Quella medesma voce che paura
tolta mavea del sùbito abbarbaglio,
di ragionare ancor mi mise in cura;
e disse: «Certo a più angusto vaglio
ti conviene schiarar: dicer convienti
chi drizzò larco tuo a tal berzaglio».
E io: «Per filosofici argomenti
e per autorità che quinci scende
cotale amor convien che in me si mprenti:
ché l bene, in quanto ben, come sintende,
così accende amore, e tanto maggio
quanto più di bontate in sé comprende.
Dunque a lessenza ov è tanto avvantaggio,
che ciascun ben che fuor di lei si trova
altro non è chun lume di suo raggio,
più che in altra convien che si mova
la mente, amando, di ciascun che cerne
il vero in che si fonda questa prova.
Tal vero a lintelletto mïo sterne
colui che mi dimostra il primo amore
di tutte le sustanze sempiterne.
Sternel la voce del verace autore,
che dice a Moïsè, di sé parlando:
Io ti farò vedere ogne valore.
Sternilmi tu ancora, incominciando
lalto preconio che grida larcano
di qui là giù sovra ogne altro bando».
E io udi: «Per intelletto umano
e per autoritadi a lui concorde
di tuoi amori a Dio guarda il sovrano.
Ma dì ancor se tu senti altre corde
tirarti verso lui, sì che tu suone
con quanti denti questo amor ti morde».
Non fu latente la santa intenzione
de laguglia di Cristo, anzi maccorsi
dove volea menar mia professione.
Però ricominciai: «Tutti quei morsi
che posson far lo cor volgere a Dio,
a la mia caritate son concorsi:
ché lessere del mondo e lesser mio,
la morte chel sostenne perch io viva,
e quel che spera ogne fedel com io,
con la predetta conoscenza viva,
tratto mhanno del mar de lamor torto,
e del diritto mhan posto a la riva.
Le fronde onde sinfronda tutto lorto
de lortolano etterno, am io cotanto
quanto da lui a lor di bene è porto».
Sì com io tacqui, un dolcissimo canto
risonò per lo cielo, e la mia donna
dicea con li altri: «Santo, santo, santo!».
E come a lume acuto si disonna
per lo spirto visivo che ricorre
a lo splendor che va di gonna in gonna,
e lo svegliato ciò che vede aborre,
sì nescïa è la sùbita vigilia
fin che la stimativa non soccorre;
così de li occhi miei ogne quisquilia
fugò Beatrice col raggio di suoi,
che rifulgea da più di mille milia:
onde mei che dinanzi vidi poi;
e quasi stupefatto domandai
dun quarto lume chio vidi tra noi.
E la mia donna: «Dentro da quei rai
vagheggia il suo fattor lanima prima
che la prima virtù creasse mai».
Come la fronda che flette la cima
nel transito del vento, e poi si leva
per la propria virtù che la soblima,
fec io in tanto in quant ella diceva,
stupendo, e poi mi rifece sicuro
un disio di parlare ond ïo ardeva.
E cominciai: «O pomo che maturo
solo prodotto fosti, o padre antico
a cui ciascuna sposa è figlia e nuro,
divoto quanto posso a te supplìco
perché mi parli: tu vedi mia voglia,
e per udirti tosto non la dico».
Talvolta un animal coverto broglia,
sì che laffetto convien che si paia
per lo seguir che face a lui la nvoglia;
e similmente lanima primaia
mi facea trasparer per la coverta
quant ella a compiacermi venìa gaia.
Indi spirò: «Sanz essermi proferta
da te, la voglia tua discerno meglio
che tu qualunque cosa tè più certa;
perch io la veggio nel verace speglio
che fa di sé pareglio a laltre cose,
e nulla face lui di sé pareglio.
Tu vuogli udir quant è che Dio mi puose
ne leccelso giardino, ove costei
a così lunga scala ti dispuose,
e quanto fu diletto a li occhi miei,
e la propria cagion del gran disdegno,
e lidïoma chusai e che fei.
Or, figluol mio, non il gustar del legno
fu per sé la cagion di tanto essilio,
ma solamente il trapassar del segno.
Quindi onde mosse tua donna Virgilio,
quattromilia trecento e due volumi
di sol desiderai questo concilio;
e vidi lui tornare a tutt i lumi
de la sua strada novecento trenta
fïate, mentre chïo in terra fumi.
La lingua chio parlai fu tutta spenta
innanzi che a lovra inconsummabile
fosse la gente di Nembròt attenta:
ché nullo effetto mai razïonabile,
per lo piacere uman che rinovella
seguendo il cielo, sempre fu durabile.
Opera naturale è chuom favella;
ma così o così, natura lascia
poi fare a voi secondo che vabbella.
Pria chi scendessi a linfernale ambascia,
I sappellava in terra il sommo bene
onde vien la letizia che mi fascia;
e El si chiamò poi: e ciò convene,
ché luso di mortali è come fronda
in ramo, che sen va e altra vene.
Nel monte che si leva più da londa,
fu io, con vita pura e disonesta,
da la prim ora a quella che seconda,
come l sol muta quadra, lora sesta».
Paradiso · Canto XXVII
Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo,
cominciò, gloria!, tutto l paradiso,
sì che minebrïava il dolce canto.
Ciò chio vedeva mi sembiava un riso
de luniverso; per che mia ebbrezza
intrava per ludire e per lo viso.
Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!
oh vita intègra damore e di pace!
oh sanza brama sicura ricchezza!
Dinanzi a li occhi miei le quattro face
stavano accese, e quella che pria venne
incominciò a farsi più vivace,
e tal ne la sembianza sua divenne,
qual diverrebbe Iove, selli e Marte
fossero augelli e cambiassersi penne.
La provedenza, che quivi comparte
vice e officio, nel beato coro
silenzio posto avea da ogne parte,
quand ïo udi: «Se io mi trascoloro,
non ti maravigliar, ché, dicend io,
vedrai trascolorar tutti costoro.
Quelli chusurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio, che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio,
fatt ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa».
Di quel color che per lo sole avverso
nube dipigne da sera e da mane,
vid ïo allora tutto l ciel cosperso.
E come donna onesta che permane
di sé sicura, e per laltrui fallanza,
pur ascoltando, timida si fane,
così Beatrice trasmutò sembianza;
e tale eclissi credo che n ciel fue
quando patì la supprema possanza.
Poi procedetter le parole sue
con voce tanto da sé trasmutata,
che la sembianza non si mutò piùe:
«Non fu la sposa di Cristo allevata
del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,
per essere ad acquisto doro usata;
ma per acquisto desto viver lieto
e Sisto e Pïo e Calisto e Urbano
sparser lo sangue dopo molto fleto.
Non fu nostra intenzion cha destra mano
di nostri successor parte sedesse,
parte da laltra del popol cristiano;
né che le chiavi che mi fuor concesse,
divenisser signaculo in vessillo
che contra battezzati combattesse;
né chio fossi figura di sigillo
a privilegi venduti e mendaci,
ond io sovente arrosso e disfavillo.
In vesta di pastor lupi rapaci
si veggion di qua sù per tutti i paschi:
o difesa di Dio, perché pur giaci?
Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
sapparecchian di bere: o buon principio,
a che vil fine convien che tu caschi!
Ma lalta provedenza, che con Scipio
difese a Roma la gloria del mondo,
soccorrà tosto, sì com io concipio;
e tu, figliuol, che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel chio non ascondo».
Sì come di vapor gelati fiocca
in giuso laere nostro, quando l corno
de la capra del ciel col sol si tocca,
in sù vid io così letera addorno
farsi e fioccar di vapor trïunfanti
che fatto avien con noi quivi soggiorno.
Lo viso mio seguiva i suoi sembianti,
e seguì fin che l mezzo, per lo molto,
li tolse il trapassar del più avanti.
Onde la donna, che mi vide assolto
de lattendere in sù, mi disse: «Adima
il viso e guarda come tu se vòlto».
Da lora chïo avea guardato prima
i vidi mosso me per tutto larco
che fa dal mezzo al fine il primo clima;
sì chio vedea di là da Gade il varco
folle dUlisse, e di qua presso il lito
nel qual si fece Europa dolce carco.
E più mi fora discoverto il sito
di questa aiuola; ma l sol procedea
sotto i mie piedi un segno e più partito.
La mente innamorata, che donnea
con la mia donna sempre, di ridure
ad essa li occhi più che mai ardea;
e se natura o arte fé pasture
da pigliare occhi, per aver la mente,
in carne umana o ne le sue pitture,
tutte adunate, parrebber nïente
ver lo piacer divin che mi refulse,
quando mi volsi al suo viso ridente.
E la virtù che lo sguardo mindulse,
del bel nido di Leda mi divelse,
e nel ciel velocissimo mimpulse.
Le parti sue vivissime ed eccelse
sì uniforme son, chi non so dire
qual Bëatrice per loco mi scelse.
Ma ella, che vedëa l mio disire,
incominciò, ridendo tanto lieta,
che Dio parea nel suo volto gioire:
«La natura del mondo, che quïeta
il mezzo e tutto laltro intorno move,
quinci comincia come da sua meta;
e questo cielo non ha altro dove
che la mente divina, in che saccende
lamor che l volge e la virtù chei piove.
Luce e amor dun cerchio lui comprende,
sì come questo li altri; e quel precinto
colui che l cinge solamente intende.
Non è suo moto per altro distinto,
ma li altri son mensurati da questo,
sì come diece da mezzo e da quinto;
e come il tempo tegna in cotal testo
le sue radici e ne li altri le fronde,
omai a te può esser manifesto.
Oh cupidigia che i mortali affonde
sì sotto te, che nessuno ha podere
di trarre li occhi fuor de le tue onde!
Ben fiorisce ne li uomini il volere;
ma la pioggia continüa converte
in bozzacchioni le sosine vere.
Fede e innocenza son reperte
solo ne parvoletti; poi ciascuna
pria fugge che le guance sian coperte.
Tale, balbuzïendo ancor, digiuna,
che poi divora, con la lingua sciolta,
qualunque cibo per qualunque luna;
e tal, balbuzïendo, ama e ascolta
la madre sua, che, con loquela intera,
disïa poi di vederla sepolta.
Così si fa la pelle bianca nera
nel primo aspetto de la bella figlia
di quel chapporta mane e lascia sera.
Tu, perché non ti facci maraviglia,
pensa che n terra non è chi governi;
onde sì svïa lumana famiglia.
Ma prima che gennaio tutto si sverni
per la centesma chè là giù negletta,
raggeran sì questi cerchi superni,
che la fortuna che tanto saspetta,
le poppe volgerà u son le prore,
sì che la classe correrà diretta;
e vero frutto verrà dopo l fiore».
Paradiso · Canto XXVIII
Poscia che ncontro a la vita presente
di miseri mortali aperse l vero
quella che mparadisa la mia mente,
come in lo specchio fiamma di doppiero
vede colui che se nalluma retro,
prima che labbia in vista o in pensiero,
e sé rivolge per veder se l vetro
li dice il vero, e vede chel saccorda
con esso come nota con suo metro;
così la mia memoria si ricorda
chio feci riguardando ne belli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda.
E com io mi rivolsi e furon tocchi
li miei da ciò che pare in quel volume,
quandunque nel suo giro ben sadocchi,
un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che l viso chelli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;
e quale stella par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si collòca.
Forse cotanto quanto pare appresso
alo cigner la luce che l dipigne
quando l vapor che l porta più è spesso,
distante intorno al punto un cerchio digne
si girava sì ratto, chavria vinto
quel moto che più tosto il mondo cigne;
e questo era dun altro circumcinto,
e quel dal terzo, e l terzo poi dal quarto,
dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.
Sopra seguiva il settimo sì sparto
già di larghezza, che l messo di Iuno
intero a contenerlo sarebbe arto.
Così lottavo e l nono; e chiascheduno
più tardo si movea, secondo chera
in numero distante più da luno;
e quello avea la fiamma più sincera
cui men distava la favilla pura,
credo, però che più di lei sinvera.
La donna mia, che mi vedëa in cura
forte sospeso, disse: «Da quel punto
depende il cielo e tutta la natura.
Mira quel cerchio che più li è congiunto;
e sappi che l suo muovere è sì tosto
per laffocato amore ond elli è punto».
E io a lei: «Se l mondo fosse posto
con lordine chio veggio in quelle rote,
sazio mavrebbe ciò che mè proposto;
ma nel mondo sensibile si puote
veder le volte tanto più divine,
quant elle son dal centro più remote.
Onde, se l mio disir dee aver fine
in questo miro e angelico templo
che solo amore e luce ha per confine,
udir convienmi ancor come lessemplo
e lessemplare non vanno dun modo,
ché io per me indarno a ciò contemplo».
«Se li tuoi diti non sono a tal nodo
sufficïenti, non è maraviglia:
tanto, per non tentare, è fatto sodo!».
Così la donna mia; poi disse: «Piglia
quel chio ti dicerò, se vuo saziarti;
e intorno da esso tassottiglia.
Li cerchi corporai sono ampi e arti
secondo il più e l men de la virtute
che si distende per tutte lor parti.
Maggior bontà vuol far maggior salute;
maggior salute maggior corpo cape,
selli ha le parti igualmente compiute.
Dunque costui che tutto quanto rape
laltro universo seco, corrisponde
al cerchio che più ama e che più sape:
per che, se tu a la virtù circonde
la tua misura, non a la parvenza
de le sustanze che tappaion tonde,
tu vederai mirabil consequenza
di maggio a più e di minore a meno,
in ciascun cielo, a süa intelligenza».
Come rimane splendido e sereno
lemisperio de laere, quando soffia
Borea da quella guancia ond è più leno,
per che si purga e risolve la roffia
che pria turbava, sì che l ciel ne ride
con le bellezze dogne sua paroffia;
così fecïo, poi che mi provide
la donna mia del suo risponder chiaro,
e come stella in cielo il ver si vide.
E poi che le parole sue restaro,
non altrimenti ferro disfavilla
che bolle, come i cerchi sfavillaro.
Lincendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che l numero loro
più che l doppiar de li scacchi sinmilla.
Io sentiva osannar di coro in coro
al punto fisso che li tiene a li ubi,
e terrà sempre, ne quai sempre fuoro.
E quella che vedëa i pensier dubi
ne la mia mente, disse: «I cerchi primi
thanno mostrato Serafi e Cherubi.
Così veloci seguono i suoi vimi,
per somigliarsi al punto quanto ponno;
e posson quanto a veder son soblimi.
Quelli altri amori che ntorno li vonno,
si chiaman Troni del divino aspetto,
per che l primo ternaro terminonno;
e dei saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogne intelletto.
Quinci si può veder come si fonda
lesser beato ne latto che vede,
non in quel chama, che poscia seconda;
e del vedere è misura mercede,
che grazia partorisce e buona voglia:
così di grado in grado si procede.
Laltro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Arïete non dispoglia,
perpetüalemente Osanna sberna
con tre melode, che suonano in tree
ordini di letizia onde sinterna.
In essa gerarcia son laltre dee:
prima Dominazioni, e poi Virtudi;
lordine terzo di Podestadi èe.
Poscia ne due penultimi tripudi
Principati e Arcangeli si girano;
lultimo è tutto dAngelici ludi.
Questi ordini di sù tutti sammirano,
e di giù vincon sì, che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano.
E Dïonisio con tanto disio
a contemplar questi ordini si mise,
che li nomò e distinse com io.
Ma Gregorio da lui poi si divise;
onde, sì tosto come li occhi aperse
in questo ciel, di sé medesmo rise.
E se tanto secreto ver proferse
mortale in terra, non voglio chammiri:
ché chi l vide qua sù gliel discoperse
con altro assai del ver di questi giri».
Paradiso · Canto XXIX
Quando ambedue li figli di Latona,
coperti del Montone e de la Libra,
fanno de lorizzonte insieme zona,
quant è dal punto che l cenìt inlibra
infin che luno e laltro da quel cinto,
cambiando lemisperio, si dilibra,
tanto, col volto di riso dipinto,
si tacque Bëatrice, riguardando
fiso nel punto che mavëa vinto.
Poi cominciò: «Io dico, e non dimando,
quel che tu vuoli udir, perch io lho visto
ve sappunta ogne ubi e ogne quando.
Non per aver a sé di bene acquisto,
chesser non può, ma perché suo splendore
potesse, risplendendo, dir “Subsisto”,
in sua etternità di tempo fore,
fuor dogne altro comprender, come i piacque,
saperse in nuovi amor letterno amore.
Né prima quasi torpente si giacque;
ché né prima né poscia procedette
lo discorrer di Dio sovra quest acque.
Forma e materia, congiunte e purette,
usciro ad esser che non avia fallo,
come darco tricordo tre saette.
E come in vetro, in ambra o in cristallo
raggio resplende sì, che dal venire
a lesser tutto non è intervallo,
così l triforme effetto del suo sire
ne lesser suo raggiò insieme tutto
sanza distinzïone in essordire.
Concreato fu ordine e costrutto
a le sustanze; e quelle furon cima
nel mondo in che puro atto fu produtto;
pura potenza tenne la parte ima;
nel mezzo strinse potenza con atto
tal vime, che già mai non si divima.
Ieronimo vi scrisse lungo tratto
di secoli de li angeli creati
anzi che laltro mondo fosse fatto;
ma questo vero è scritto in molti lati
da li scrittor de lo Spirito Santo,
e tu te navvedrai se bene agguati;
e anche la ragione il vede alquanto,
che non concederebbe che motori
sanza sua perfezion fosser cotanto.
Or sai tu dove e quando questi amori
furon creati e come: sì che spenti
nel tuo disïo già son tre ardori.
Né giugneriesi, numerando, al venti
sì tosto, come de li angeli parte
turbò il suggetto di vostri alimenti.
Laltra rimase, e cominciò quest arte
che tu discerni, con tanto diletto,
che mai da circüir non si diparte.
Principio del cader fu il maladetto
superbir di colui che tu vedesti
da tutti i pesi del mondo costretto.
Quelli che vedi qui furon modesti
a riconoscer sé da la bontate
che li avea fatti a tanto intender presti:
per che le viste lor furo essaltate
con grazia illuminante e con lor merto,
si channo ferma e piena volontate;
e non voglio che dubbi, ma sia certo,
che ricever la grazia è meritorio
secondo che laffetto lè aperto.
Omai dintorno a questo consistorio
puoi contemplare assai, se le parole
mie son ricolte, sanz altro aiutorio.
Ma perché n terra per le vostre scole
si legge che langelica natura
è tal, che ntende e si ricorda e vole,
ancor dirò, perché tu veggi pura
la verità che là giù si confonde,
equivocando in sì fatta lettura.
Queste sustanze, poi che fur gioconde
de la faccia di Dio, non volser viso
da essa, da cui nulla si nasconde:
però non hanno vedere interciso
da novo obietto, e però non bisogna
rememorar per concetto diviso;
sì che là giù, non dormendo, si sogna,
credendo e non credendo dicer vero;
ma ne luno è più colpa e più vergogna.
Voi non andate giù per un sentiero
filosofando: tanto vi trasporta
lamor de lapparenza e l suo pensiero!
E ancor questo qua sù si comporta
con men disdegno che quando è posposta
la divina Scrittura o quando è torta.
Non vi si pensa quanto sangue costa
seminarla nel mondo e quanto piace
chi umilmente con essa saccosta.
Per apparer ciascun singegna e face
sue invenzioni; e quelle son trascorse
da predicanti e l Vangelio si tace.
Un dice che la luna si ritorse
ne la passion di Cristo e sinterpuose,
per che l lume del sol giù non si porse;
e mente, ché la luce si nascose
da sé: però a li Spani e a lIndi
come a Giudei tale eclissi rispuose.
Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi
quante sì fatte favole per anno
in pergamo si gridan quinci e quindi:
sì che le pecorelle, che non sanno,
tornan del pasco pasciute di vento,
e non le scusa non veder lo danno.
Non disse Cristo al suo primo convento:
Andate, e predicate al mondo ciance;
ma diede lor verace fondamento;
e quel tanto sonò ne le sue guance,
sì cha pugnar per accender la fede
de lEvangelio fero scudo e lance.
Ora si va con motti e con iscede
a predicare, e pur che ben si rida,
gonfia il cappuccio e più non si richiede.
Ma tale uccel nel becchetto sannida,
che se l vulgo il vedesse, vederebbe
la perdonanza di chel si confida:
per cui tanta stoltezza in terra crebbe,
che, sanza prova dalcun testimonio,
ad ogne promession si correrebbe.
Di questo ingrassa il porco sant Antonio,
e altri assai che sono ancor più porci,
pagando di moneta sanza conio.
Ma perché siam digressi assai, ritorci
li occhi oramai verso la dritta strada,
sì che la via col tempo si raccorci.
Questa natura sì oltre singrada
in numero, che mai non fu loquela
né concetto mortal che tanto vada;
e se tu guardi quel che si revela
per Danïel, vedrai che n sue migliaia
determinato numero si cela.
La prima luce, che tutta la raia,
per tanti modi in essa si recepe,
quanti son li splendori a chi sappaia.
Onde, però che a latto che concepe
segue laffetto, damar la dolcezza
diversamente in essa ferve e tepe.
Vedi leccelso omai e la larghezza
de letterno valor, poscia che tanti
speculi fatti sha in che si spezza,
uno manendo in sé come davanti».
Paradiso · Canto XXX
Forse semilia miglia di lontano
ci ferve lora sesta, e questo mondo
china già lombra quasi al letto piano,
quando l mezzo del cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal, chalcuna stella
perde il parere infino a questo fondo;
e come vien la chiarissima ancella
del sol più oltre, così l ciel si chiude
di vista in vista infino a la più bella.
Non altrimenti il trïunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse,
parendo inchiuso da quel chelli nchiude,
a poco a poco al mio veder si stinse:
per che tornar con li occhi a Bëatrice
nulla vedere e amor mi costrinse.
Se quanto infino a qui di lei si dice
fosse conchiuso tutto in una loda,
poca sarebbe a fornir questa vice.
La bellezza chio vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo fattor tutta la goda.
Da questo passo vinto mi concedo
più che già mai da punto di suo tema
soprato fosse comico o tragedo:
ché, come sole in viso che più trema,
così lo rimembrar del dolce riso
la mente mia da me medesmo scema.
Dal primo giorno chi vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non mè il seguire al mio cantar preciso;
ma or convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a lultimo suo ciascuno artista.
Cotal qual io lascio a maggior bando
che quel de la mia tuba, che deduce
lardüa sua matera terminando,
con atto e voce di spedito duce
ricominciò: «Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel chè pura luce:
luce intellettüal, piena damore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore.
Qui vederai luna e laltra milizia
di paradiso, e luna in quelli aspetti
che tu vedrai a lultima giustizia».
Come sùbito lampo che discetti
li spiriti visivi, sì che priva
da latto locchio di più forti obietti,
così mi circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla mappariva.
«Sempre lamor che queta questo cielo
accoglie in sé con sì fatta salute,
per far disposto a sua fiamma il candelo».
Non fur più tosto dentro a me venute
queste parole brievi, chio compresi
me sormontar di sopr a mia virtute;
e di novella vista mi raccesi
tale, che nulla luce è tanto mera,
che li occhi miei non si fosser difesi;
e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
e dogne parte si mettien ne fiori,
quasi rubin che oro circunscrive;
poi, come inebrïate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge,
e suna intrava, unaltra nuscia fori.
«Lalto disio che mo tinfiamma e urge,
daver notizia di ciò che tu vei,
tanto mi piace più quanto più turge;
ma di quest acqua convien che tu bei
prima che tanta sete in te si sazi»:
così mi disse il sol de li occhi miei.
Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi
chentrano ed escono e l rider de lerbe
son di lor vero umbriferi prefazi.
Non che da sé sian queste cose acerbe;
ma è difetto da la parte tua,
che non hai viste ancor tanto superbe».
Non è fantin che sì sùbito rua
col volto verso il latte, se si svegli
molto tardato da lusanza sua,
come fec io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a londa
che si deriva perché vi simmegli;
e sì come di lei bevve la gronda
de le palpebre mie, così mi parve
di sua lunghezza divenuta tonda.
Poi, come gente stata sotto larve,
che pare altro che prima, se si sveste
la sembianza non süa in che disparve,
così mi si cambiaro in maggior feste
li fiori e le faville, sì chio vidi
ambo le corti del ciel manifeste.
O isplendor di Dio, per cu io vidi
lalto trïunfo del regno verace,
dammi virtù a dir com ïo il vidi!
Lume è là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
E si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.
Fassi di raggio tutta sua parvenza
reflesso al sommo del mobile primo,
che prende quindi vivere e potenza.
E come clivo in acqua di suo imo
si specchia, quasi per vedersi addorno,
quando è nel verde e ne fioretti opimo,
sì, soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in più di mille soglie
quanto di noi là sù fatto ha ritorno.
E se linfimo grado in sé raccoglie
sì grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne lestreme foglie!
La vista mia ne lampio e ne laltezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e l quale di quella allegrezza.
Presso e lontano, lì, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
la legge natural nulla rileva.
Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna,
qual è colui che tace e dicer vole,
mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira
quanto è l convento de le bianche stole!
Vedi nostra città quant ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira.
E n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già vè sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
sederà lalma, che fia giù agosta,
de lalto Arrigo, cha drizzare Italia
verrà in prima chella sia disposta.
La cieca cupidigia che vammalia
simili fatti vha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia.
E fia prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
non anderà con lui per un cammino.
Ma poco poi sarà da Dio sofferto
nel santo officio; chel sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto,
e farà quel dAlagna intrar più giuso».
Paradiso · Canto XXXI
In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa;
ma laltra, che volando vede e canta
la gloria di colui che la nnamora
e la bontà che la fece cotanta,
sì come schiera dape che sinfiora
una fïata e una si ritorna
là dove suo laboro sinsapora,
nel gran fior discendeva che saddorna
di tante foglie, e quindi risaliva
là dove l süo amor sempre soggiorna.
Le facce tutte avean di fiamma viva
e lali doro, e laltro tanto bianco,
che nulla neve a quel termine arriva.
Quando scendean nel fior, di banco in banco
porgevan de la pace e de lardore
chelli acquistavan ventilando il fianco.
Né linterporsi tra l disopra e l fiore
di tanta moltitudine volante
impediva la vista e lo splendore:
ché la luce divina è penetrante
per luniverso secondo chè degno,
sì che nulla le puote essere ostante.
Questo sicuro e gaudïoso regno,
frequente in gente antica e in novella,
viso e amore avea tutto ad un segno.
O trina luce che n unica stella
scintillando a lor vista, sì li appaga!
guarda qua giuso a la nostra procella!
Se i barbari, venendo da tal plaga
che ciascun giorno dElice si cuopra,
rotante col suo figlio ond ella è vaga,
veggendo Roma e lardüa sua opra,
stupefaciensi, quando Laterano
a le cose mortali andò di sopra;
ïo, che al divino da lumano,
a letterno dal tempo era venuto,
e di Fiorenza in popol giusto e sano,
di che stupor dovea esser compiuto!
Certo tra esso e l gaudio mi facea
libito non udire e starmi muto.
E quasi peregrin che si ricrea
nel tempio del suo voto riguardando,
e spera già ridir com ello stea,
su per la viva luce passeggiando,
menava ïo li occhi per li gradi,
mo sù, mo giù e mo recirculando.
Vedëa visi a carità süadi,
daltrui lume fregiati e di suo riso,
e atti ornati di tutte onestadi.
La forma general di paradiso
già tutta mïo sguardo avea compresa,
in nulla parte ancor fermato fiso;
e volgeami con voglia rïaccesa
per domandar la mia donna di cose
di che la mente mia era sospesa.
Uno intendëa, e altro mi rispuose:
credea veder Beatrice e vidi un sene
vestito con le genti glorïose.
Diffuso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
quale a tenero padre si convene.
E «Ov è ella?», sùbito diss io.
Ond elli: «A terminar lo tuo disiro
mosse Beatrice me del loco mio;
e se riguardi sù nel terzo giro
dal sommo grado, tu la rivedrai
nel trono che suoi merti le sortiro».
Sanza risponder, li occhi sù levai,
e vidi lei che si facea corona
reflettendo da sé li etterni rai.
Da quella regïon che più sù tona
occhio mortale alcun tanto non dista,
qualunque in mare più giù sabbandona,
quanto lì da Beatrice la mia vista;
ma nulla mi facea, ché süa effige
non discendëa a me per mezzo mista.
«O donna in cui la mia speranza vige,
e che soffristi per la mia salute
in inferno lasciar le tue vestige,
di tante cose quant i ho vedute,
dal tuo podere e da la tua bontate
riconosco la grazia e la virtute.
Tu mhai di servo tratto a libertate
per tutte quelle vie, per tutt i modi
che di ciò fare avei la potestate.
La tua magnificenza in me custodi,
sì che lanima mia, che fatt hai sana,
piacente a te dal corpo si disnodi».
Così orai; e quella, sì lontana
come parea, sorrise e riguardommi;
poi si tornò a letterna fontana.
E l santo sene: «Acciò che tu assommi
perfettamente», disse, «il tuo cammino,
a che priego e amor santo mandommi,
vola con li occhi per questo giardino;
ché veder lui tacconcerà lo sguardo
più al montar per lo raggio divino.
E la regina del cielo, ond ïo ardo
tutto damor, ne farà ogne grazia,
però chi sono il suo fedel Bernardo».
Qual è colui che forse di Croazia
viene a veder la Veronica nostra,
che per lantica fame non sen sazia,
ma dice nel pensier, fin che si mostra:
Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace,
or fu sì fatta la sembianza vostra?;
tal era io mirando la vivace
carità di colui che n questo mondo,
contemplando, gustò di quella pace.
«Figliuol di grazia, quest esser giocondo»,
cominciò elli, «non ti sarà noto,
tenendo li occhi pur qua giù al fondo;
ma guarda i cerchi infino al più remoto,
tanto che veggi seder la regina
cui questo regno è suddito e devoto».
Io levai li occhi; e come da mattina
la parte orïental de lorizzonte
soverchia quella dove l sol declina,
così, quasi di valle andando a monte
con li occhi, vidi parte ne lo stremo
vincer di lume tutta laltra fronte.
E come quivi ove saspetta il temo
che mal guidò Fetonte, più sinfiamma,
e quinci e quindi il lume si fa scemo,
così quella pacifica oriafiamma
nel mezzo savvivava, e dogne parte
per igual modo allentava la fiamma;
e a quel mezzo, con le penne sparte,
vid io più di mille angeli festanti,
ciascun distinto di fulgore e darte.
Vidi a lor giochi quivi e a lor canti
ridere una bellezza, che letizia
era ne li occhi a tutti li altri santi;
e sio avessi in dir tanta divizia
quanta ad imaginar, non ardirei
lo minimo tentar di sua delizia.
Bernardo, come vide li occhi miei
nel caldo suo caler fissi e attenti,
li suoi con tanto affetto volse a lei,
che miei di rimirar fé più ardenti.
Paradiso · Canto XXXII
Affetto al suo piacer, quel contemplante
libero officio di dottore assunse,
e cominciò queste parole sante:
«La piaga che Maria richiuse e unse,
quella chè tanto bella da suoi piedi
è colei che laperse e che la punse.
Ne lordine che fanno i terzi sedi,
siede Rachel di sotto da costei
con Bëatrice, sì come tu vedi.
Sarra e Rebecca, Iudìt e colei
che fu bisava al cantor che per doglia
del fallo disse Miserere mei,
puoi tu veder così di soglia in soglia
giù digradar, com io cha proprio nome
vo per la rosa giù di foglia in foglia.
E dal settimo grado in giù, sì come
infino ad esso, succedono Ebree,
dirimendo del fior tutte le chiome;
perché, secondo lo sguardo che fée
la fede in Cristo, queste sono il muro
a che si parton le sacre scalee.
Da questa parte onde l fiore è maturo
di tutte le sue foglie, sono assisi
quei che credettero in Cristo venturo;
da laltra parte onde sono intercisi
di vòti i semicirculi, si stanno
quei cha Cristo venuto ebber li visi.
E come quinci il glorïoso scanno
de la donna del cielo e li altri scanni
di sotto lui cotanta cerna fanno,
così di contra quel del gran Giovanni,
che sempre santo l diserto e l martiro
sofferse, e poi linferno da due anni;
e sotto lui così cerner sortiro
Francesco, Benedetto e Augustino
e altri fin qua giù di giro in giro.
Or mira lalto proveder divino:
ché luno e laltro aspetto de la fede
igualmente empierà questo giardino.
E sappi che dal grado in giù che fiede
a mezzo il tratto le due discrezioni,
per nullo proprio merito si siede,
ma per laltrui, con certe condizioni:
ché tutti questi son spiriti ascolti
prima chavesser vere elezïoni.
Ben te ne puoi accorger per li volti
e anche per le voci püerili,
se tu li guardi bene e se li ascolti.
Or dubbi tu e dubitando sili;
ma io discioglierò l forte legame
in che ti stringon li pensier sottili.
Dentro a lampiezza di questo reame
casüal punto non puote aver sito,
se non come tristizia o sete o fame:
ché per etterna legge è stabilito
quantunque vedi, sì che giustamente
ci si risponde da lanello al dito;
e però questa festinata gente
a vera vita non è sine causa
intra sé qui più e meno eccellente.
Lo rege per cui questo regno pausa
in tanto amore e in tanto diletto,
che nulla volontà è di più ausa,
le menti tutte nel suo lieto aspetto
creando, a suo piacer di grazia dota
diversamente; e qui basti leffetto.
E ciò espresso e chiaro vi si nota
ne la Scrittura santa in quei gemelli
che ne la madre ebber lira commota.
Però, secondo il color di capelli,
di cotal grazia laltissimo lume
degnamente convien che sincappelli.
Dunque, sanza mercé di lor costume,
locati son per gradi differenti,
sol differendo nel primiero acume.
Bastavasi ne secoli recenti
con linnocenza, per aver salute,
solamente la fede di parenti;
poi che le prime etadi fuor compiute,
convenne ai maschi a linnocenti penne
per circuncidere acquistar virtute;
ma poi che l tempo de la grazia venne,
sanza battesmo perfetto di Cristo
tale innocenza là giù si ritenne.
Riguarda omai ne la faccia che a Cristo
più si somiglia, ché la sua chiarezza
sola ti può disporre a veder Cristo».
Io vidi sopra lei tanta allegrezza
piover, portata ne le menti sante
create a trasvolar per quella altezza,
che quantunque io avea visto davante,
di tanta ammirazion non mi sospese,
né mi mostrò di Dio tanto sembiante;
e quello amor che primo lì discese,
cantando Ave, Maria, gratïa plena,
dinanzi a lei le sue ali distese.
Rispuose a la divina cantilena
da tutte parti la beata corte,
sì chogne vista sen fé più serena.
«O santo padre, che per me comporte
lesser qua giù, lasciando il dolce loco
nel qual tu siedi per etterna sorte,
qual è quell angel che con tanto gioco
guarda ne li occhi la nostra regina,
innamorato sì che par di foco?».
Così ricorsi ancora a la dottrina
di colui chabbelliva di Maria,
come del sole stella mattutina.
Ed elli a me: «Baldezza e leggiadria
quant esser puote in angelo e in alma,
tutta è in lui; e sì volem che sia,
perch elli è quelli che portò la palma
giuso a Maria, quando l Figliuol di Dio
carcar si volse de la nostra salma.
Ma vieni omai con li occhi sì com io
andrò parlando, e nota i gran patrici
di questo imperio giustissimo e pio.
Quei due che seggon là sù più felici
per esser propinquissimi ad Agusta,
son desta rosa quasi due radici:
colui che da sinistra le saggiusta
è il padre per lo cui ardito gusto
lumana specie tanto amaro gusta;
dal destro vedi quel padre vetusto
di Santa Chiesa a cui Cristo le chiavi
raccomandò di questo fior venusto.
E quei che vide tutti i tempi gravi,
pria che morisse, de la bella sposa
che sacquistò con la lancia e coi clavi,
siede lungh esso, e lungo laltro posa
quel duca sotto cui visse di manna
la gente ingrata, mobile e retrosa.
Di contr a Pietro vedi sedere Anna,
tanto contenta di mirar sua figlia,
che non move occhio per cantare osanna;
e contro al maggior padre di famiglia
siede Lucia, che mosse la tua donna
quando chinavi, a rovinar, le ciglia.
Ma perché l tempo fugge che tassonna,
qui farem punto, come buon sartore
che com elli ha del panno fa la gonna;
e drizzeremo li occhi al primo amore,
sì che, guardando verso lui, penètri
quant è possibil per lo suo fulgore.
Veramente, ne forse tu tarretri
movendo lali tue, credendo oltrarti,
orando grazia conven che simpetri
grazia da quella che puote aiutarti;
e tu mi seguirai con laffezione,
sì che dal dicer mio lo cor non parti».
E cominciò questa santa orazione:
Paradiso · Canto XXXIII
«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso detterno consiglio,
tu se colei che lumana natura
nobilitasti sì, che l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese lamore,
per lo cui caldo ne letterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra mortali,
se di speranza fontana vivace.
Donna, se tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te saduna
quantunque in creatura è di bontate.
Or questi, che da linfima lacuna
de luniverso infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso lultima salute.
E io, che mai per mio veder non arsi
più chi fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co prieghi tuoi,
sì che l sommo piacer li si dispieghi.
Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!».
Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne lorator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;
indi a letterno lume saddrizzaro,
nel qual non si dee creder che sinvii
per creatura locchio tanto chiaro.
E io chal fine di tutt i disii
appropinquava, sì com io dovea,
lardor del desiderio in me finii.
Bernardo maccennava, e sorridea,
perch io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea:
ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de lalta luce che da sé è vera.
Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che l parlar mostra, cha tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.
Qual è colüi che sognando vede,
che dopo l sogno la passione impressa
rimane, e laltro a la mente non riede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
O somma luce che tanto ti levi
da concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
e fa la lingua mia tanto possente,
chuna favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;
ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.
Io credo, per lacume chio soffersi
del vivo raggio, chi sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.
E mi ricorda chio fui più ardito
per questo a sostener, tanto chi giunsi
laspetto mio col valore infinito.
Oh abbondante grazia ond io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
Nel suo profondo vidi che sinterna,
legato con amore in un volume,
ciò che per luniverso si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò chi dico è un semplice lume.
La forma universal di questo nodo
credo chi vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento chi godo.
Un punto solo mè maggior letargo
che venticinque secoli a la mpresa
che fé Nettuno ammirar lombra dArgo.
Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa.
A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;
però che l ben, chè del volere obietto,
tutto saccoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò chè lì perfetto.
Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel chio ricordo, che dun fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.
Non perché più chun semplice sembiante
fosse nel vivo lume chio mirava,
che tal è sempre qual sera davante;
ma per la vista che savvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom io, a me si travagliava.
Ne la profonda e chiara sussistenza
de lalto lume parvermi tre giri
di tre colori e duna contenenza;
e lun da laltro come iri da iri
parea reflesso, e l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel chi vidi,
è tanto, che non basta a dicer poco.
O luce etterna che sola in te sidi,
sola tintendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è l geomètra che tutto saffige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
limago al cerchio e come vi sindova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A lalta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e l velle,
sì come rota chigualmente è mossa,
lamor che move il sole e laltre stelle.